Grazia Deledda - Opera Omnia >> Leggende sarde |
ladeledda testo integrale brano completo citazione delle fonti romanzi opere storiche e letterarie in prosa e lettere, premio nobel, operaomnia # Contos de fuchile - racconti da focolare -, con questo dolce nome che rievoca tutta la tiepida serenità delle lunghe serate famigliari passate accanto al paterno camino, da noi vengono chiamate le fiabe, le leggende e tutte le narrazioni favolose e meravigliose, smarrite nella nebbia di epoche diverse dalla nostra. Il popolo sardo, specialmente nelle montagne selvagge e negli altipiani desolati dove il paesaggio ha in se stesso qualcosa di misterioso e di leggendario, con le sue linee silenziose e deserte o con l'ombra intensa dei boschi dirupati, è seriamente immaginoso, pieno di superstizioni bizzarre e infinite. Nella stretta mancanza di denari in cui si trova ha bisogno di figurarsi tesori immensi, senza fine, nascosti sotto i suoi poveri piedi, sicché, dando retta alle dicerie vaghe, susurrate a mezza voce, con un tremito nell'accento e un lampo negli occhi, si crederebbe che il sotto-suolo di tutta l'isola è sparso di monete d'oro e di perle preziose. Ogni montagna, ogni chiesa di campagna, ogni rudere di castello, ogni bosco ed ogni grotta nasconde il suo tesoro. Posto da chi?... Se fate questa domanda vi si dànno delle spiegazioni plausibilissime. Si ha un vago ricordo delle guerre, delle escursioni, dei saccheggi sofferti in ogni tempo dalla Sardegna, e specialmente dai Saraceni, dai Goti e dai Vandali, e si dice che i nostri antichissimi avi nascondessero in siti impenetrabili i loro tesori - denaro, gioielli e pietre preziose -, per scamparli dall'espilazione degli invasori, e che la maggior parte di questi tesori, rimasti nei nascondigli per volontà o contro la volontà dei primi possessori, sussista ancora. Sin qui il naturale. Il sovrannaturale è la credenza radicalmente invalsa che a guardia dei tesori vigili il diavolo: il diavolo che, se alla fine di un certo tempo gli uomini non ritrovano il tesoro, se ne appropria lui stesso e se lo porta all'inferno, lasciando nelle anfore o negli scrigni contenenti l'oro e le perle, tanta bella quantità di carbone o di cenere. La leggenda dei tesori ha così profonde radici da noi che non appena un individuo è riuscito, col suo lavoro e con la sua intelligenza, o magari con l'inganno e la perversità, ad acquistarsi qualche fortuna, subito la voce del popolino afferma che egli ha trovato un aschisorgiu, cioè un tesoro. Mille ricordi mi si affollano su tal proposito al pensiero, e rammento tanti fatti accaduti nella mia infanzia. Anche la gente un po' colta e spregiudicata crede, senza confessarlo, ai tesori, e più di un proprietario fa, all'insaputa, degli scavi nelle sue terre, in cerca di queste ricchezze meravigliose. Ogni fiaba ed ogni leggenda è a base di tesori nascosti: e tradizioni antichissime indicano con precisione dei siti misteriosi nelle nostre montagne ove indubbiamente esiste dell'oro coniato. Ma il più delle volte questi siti - rocce o grotte - sono guardati con un vago terrore anche dagli uomini più forti e coraggiosi il cui fucile ha già segnato più di una vendetta. È la sottile paura del sovrannaturale, il terrore di cose che non si possono vincere né col fucile, né col pugnale. Perché, come ho già detto, si crede che molti aschisorjos sono custoditi dal diavolo, e in tal caso il posto è fatale, e sventura incoglie a chi penetra là dentro. Gli esempi abbondano: sono uomini morti di ferro poco tempo dopo aver passato una notte entro una di queste grotte; pastori che hanno perduto tutto il gregge di malattia misteriosa, banditi di cui non si trovarono che le ossa spolpate dalle aquile e dai falchi, giovinotti condannati innocenti alla reclusione a vita... E tutto per aver dimorato vicino a quei luoghi fatali. Più di un vecchio pastore, scampato miracolosamente dalle disgrazie, afferma di aver veduto il diavolo, che assume forme umane o di animale. Nelle piccole montagne di Nuoro, le verdi e granitiche montagne di Orthubene, che sono forse le più belle del Logudoro, v'ha una grotta misteriosa e profonda, di cui nessuno, si dice, abbia mai potuto esplorare l'immensità oscura che mette capo all'inferno. Un pastore si provò una volta a visitarla sino in fondo, ma vide i demoni e fuggì. Laggiù v'ha un tesoro immenso, miliardi e miliardi in oro e in perle, e una piccola dama che tesse sempre dell'oro, in un telaio d'oro, vestita d'oro e coi capelli d'oro, lo custodisce. Oh, piccola aurea dama! Quante volte l'ho veduta in sogno, col suo strascico lucente e coi suoi capelli di sole, nella mia infanzia! I diavoli sono indispensabili nelle leggende sarde: anche nelle fiabe hanno grandissima parte, ed in talune anzi sono gli eroi principali. Però i sardi, da buoni cristiani, assegnano sempre un posto odioso e spesso ridicolo allo spirito dell'inferno, e si vendicano con ciò del terrore e della paura che il diavolo inspira. Senza dilungarmi oltre sulle superstizioni del popolino sardo, passo subito alle leggende, dirò storiche, che corrono di paese in paese, di monte in monte. Talune sono lunghe e spaventose; altre brevi, vaghissime, senza profilo deciso; tutte però hanno la calda impronta meridionale. Nei monti di Oliena, nei contrafforti calcarei dai picchi acuti di un azzurro latteo che si confonde col cielo, esistono grandi crepacci - ricordi di antichissime convulsioni vulcaniche - di alcuni dei quali non si distingue il fondo. Vengono chiamati sas nurras, e volgarmente si crede che sieno misteriose comunicazioni dell'inferno col mondo. Di là escono i diavoli per scorrazzare sulle bianche montagne in cerca di anime e di avventure. Fra le altre leggende riguardanti le nurras ho trovato questa, molto bizzarra, e, pare, non molto antica. C'era dunque un pastore di Oliena, molto devoto e pio e perciò malvisto dal demonio che, riuscitegli vane tutte le tentazioni per condurlo al male, si vendicò di lui in questo modo. Nei giorni un po' tranquilli il pastore, affidata la greggia ad un suo compagno, si recava alla caccia del cervo e del muflone su per i monti. Un bel giorno d'inverno, mentre cacciava, vide un magnifico cervo poco distante da lui: lo sparò, e lo ferì leggermente, ma non poté pigliarlo. E si mise ad inseguirlo. Il cervo balzava di rupe in rupe, velocissimo; ma il pastore non meno agile, si teneva sempre sulle sue orme, deciso a ucciderlo. Arrivarono così in cima della montagna. La neve copriva i picchi, le rocce, i precipizi; ma il cacciatore, esperto dei luoghi, continuava la sua caccia senza inciampare in una sola pietra, affascinato dal cervo meraviglioso, bellissimo, le cui corna ramate erano alte più di sei palmi. A un tratto l'animale sparì, improvvisamente, sprofondandosi nella neve. Il cacciatore raggiunse il posto e si trovò sull'orlo di una nurra spaventosamente profonda. Il cervo non si vedeva più, ma dal fondo della nurra saliva un'eco tetra di sogghigni infernali. Il misero pastore comprese allora che il cervo era il diavolo in persona e cercò di fuggire, ma la neve su cui posava i piedi sprofondò e prima ch'egli si fosse fatto il segno della croce precipitò nell'immensità dell'abisso... Il suo compagno lo attese due giorni, ma non vedendolo tornare temé qualche disgrazia e si diede a cercarlo pei monti. Le orme lasciate dal disgraziato sulla neve gli indicarono la triste sua fine. Tornò nel villaggio e presa una grande quantità di corde si avviò con altri tre pastori alla nurra. Là giunti unirono le corde e, legato alle ascelle il compagno del caduto, lo calarono nella nurra. Ma per quanto le corde fossero lunghissime lo strano palombaro non toccò il fondo. I pastori lo trassero e quando egli venne fuori era livido in volto e tremava verga a verga. Un profondo terrore gli sconvolgeva i sentimenti, ma sulle prime non volle rivelarne la causa. Portato sulle spalle dai compagni tornò a casa sua, e appena arrivato fu colto da una febbre violentissima che tre giorni dopo lo condusse alla fossa... Prima di morire rivelò la causa misteriosa del suo spavento. A misura che scendeva entro la nurra gli appariva sulle pareti scabrose un omino nero con le corna e con una falce in mano. E ogni tanto stendeva questa falce verso la corda minacciando di romperla e di far precipitare il pastore nell'inferno, insieme al suo compagno! Al finire del secolo XVII c'erano in Aggius - piccolo villaggio della Gallura - due ragazzi, figli di due famiglie nemiche, che, come accade sovente in Sardegna, ed anche altrove, facevano all'amore. Lei aveva tredici anni, egli quindici; ma benché così giovani sembravano, forti e belli entrambi, grandi di vent'anni, e si amavano perdutamente, con tutta la passione indomita degli abitanti della Gallura, bizzarra regione montuosa al nord dell'isola, che ha, nel paesaggio e nella natura dei nativi, molta rassomiglianza con la vicina Corsica. Ma, come accennai, le famiglie dei due amanti erano nemiche. Pare che tutto il villaggio fosse diviso in due fazioni, e l'odio il più mortale soffiava negli animi di entrambe: ad una apparteneva la famiglia del giovine, all'altra quella della fanciulla. Ciò non impediva che essi si adorassero e che si dessero frequenti convegni notturni nella stessa casa di lei. Usavano le più fini prudenze, la vigilanza più intensa, ma alla fine furono scoperti e il padre di lei, ardente d'ira e d'odio, una notte solenne, una notte di Pasqua, trucidò il misero amante. L'inimicizia allora fra le due fazioni si rinfocolò tanto che li costrinse ad aperta battaglia. E scesero in campo! Schierati in una piccola pianura sottostante ai monti rocciosi e desolati, gli abitanti di Aggius, armati di carabine e di pugnali, stavano per azzuffarsi, allorché al primo colpo di archibugio, tirato dal padre della povera innamorata, s'udì un terribile rombo che echeggiò per tutta la Gallura. Erano rovinate le montagne, ed erano cadute sui maledetti guerrieri, seppellendoli sotto le rocce immense donde nessuna forza umana poteva più trarli. Scamparono solo pochi abitanti, vecchi, donne e fanciulli che non avevano preso parte alla battaglia. E la causa di tanta rovina, oltre quella innocente dei due giovani amanti, era stata il diavolo, il diavolo che abitava sulle vette dei monti. E qui copio dal triste e fremente romanzo di Enrico Costa Il Muto di Gallura: «Egli - il diavolo - di tanto in tanto si piaceva affacciarsi ai massi di granito per guardare con occhio di fuoco il sottostante villaggio. In quei giorni nefasti sentivasi soffiare un vento gagliardo che, pur venendo da levante recava dal Limbara ricoperto di neve il suo alito glaciale. E mentre gli abitanti di Aggius sentivano il corpo intirizzito, il diavolo soffiava sulle anime loro, suscitandovi pensieri di odio, di vendetta e di sangue! Si diceva che gli aggesi fossero in origine d'indole serena e tranquilla; ma lo spirito infernale, volendo dannare le loro anime, aveva preso stanza sulla reggia di granito, ch'era la cima del monte, e si compiaceva nelle notti insonni di tribolare quei poveretti. Le vecchie tremavano di paura nel loro letto, e dicevano il rosario sotto le coltri, mentre il vento furioso urlava dalle fessure delle imposte. Era il figlio dell'inferno che, non potendo dormire, si divertiva a turbare il sonno dei figli della terra. E ogni tanto si affacciava alla rupe, e dopo aver annunziata la sua presenza con un rullo sordo e prolungato gridava per tre volte rivolto al villaggio: "Aggius meu, Aggius meu, e candu sarà la di chi ti n'aggiu a pultà in buleu?" (2). La minaccia infernale era il pronostico della distruzione del paese; e il rullo prolungato che la precedeva significava che un uomo era designato a morire di morte violenta. Così almeno diceva la tradizione. Figurarsi lo sgomento della popolazione! Si ricorse al parroco, si chiamarono a consulta i ragionanti del paese, ma sempre invano! Il diavolo non si dava per inteso e continuava a tormentarli. Verso la metà del secolo XVIII ad uno zelante missionario, capitato ad Aggius, venne l'ispirazione di piantare una croce di ferro sul monte (che perciò venne chiamato poi il Monti di la cruzi) per far fuggire il diavolo. E in quella notte spirò un vento così gagliardo che sradicò molte querce secolari, e fece precipitare dai monti più di un masso di granito. Tutte le case tremarono dalle fondamenta, ma la croce stette salda sulla punta del monte. Udendo quel baccano infernale i popolani corsero al Rettore, che li rimandò a casa tranquilli dicendo loro: "Non temete, è il diavolo che prepara le valigie per tornarsene all'inferno. Non verrà più a tormentarci!". Pare però che il diavolo non volesse rinunziare alle anime di cui aveva giurato la perdizione. Aveva bensì abbandonato il monte della Croce, ma forse per ricoverarsi sul monte Fraile o sul monte Pinna, donde, come per lo passato, continuò a soffiare il livore sulle anime dei buoni aggesi, i quali, alla lor volta, continuarono a dilaniarsi l'un l'altro, spargendo il terrore nella Gallura. La croce del missionario è sopra un masso gigantesco, quasi isolato, che misura da venti a trenta metri di altezza, e che forma il cucuzzolo del monte, bersagliato dai fulmini e dai venti. In origine quella croce era di ferro, e vi durò oltre mezzo secolo, finché un giorno, schiantata dalla folgore, fu sostituita con un'altra di legno, che viene rinnovata ogni due o tre anni». La Conca della Madonna è una specie di nicchia naturale scavata nel sasso. Dicesi che la Madonna vi abitasse qualche volta per tener lontano lo spirito delle tenebre. Il gran tamburo (su tamburu mannu) è una gran lastra di granito a base convessa la quale posa sopra un blocco spianato. Basta salire sull'orlo e far forza col corpo, perché la pietra oscilli, dondoli, e produca un rullìo cupo, sordo, continuo, come il mugolìo di un tuono in lontananza. Il gran tamburo di Aggius ha molta analogia colla famosa pietra ballerina di Nuoro; la differenza è una sola: quest'ultima, da parecchi anni, non balla più, - quello invece continua a suonare - perché i curiosi che la tentano sono pochissimi. A memoria dei più vecchi questo tamburo è sempre esistito; e gli si annettono ancora non so quali malefici influssi. Dicono, per esempio, che allorquando si ode il suo rullo è indizio certo che una persona è morta, o deve morire di morte violenta! Interessanti sono le leggende intorno a Castel Doria; e specialmente quella dell'ultimo principe. Pare che questo misterioso maniero sia stato edificato dai Doria verso il 1102, quando cioè i Genovesi fortificarono tutti i loro possedimenti al nord dell'isola, e specialmente l'attuale Castel Sardo. Esiste tutt'ora un'alta torre a cinque angoli, di pietre rettangolari saldate l'un l'altra a cemento. Edificato su alte rocce poco distanti dalla riva del Coghinas, il castello godeva di un grande panorama, e verde ai suoi piedi si stendeva la pianura. La leggenda dice che un condotto sotterraneo conduceva dal castello alla chiesa di San Giovanni di Viddacuia, sita all'altra riva del Coghinas, e che questo sotterraneo i Doria lo avessero scavato semplicemente per recarsi alla messa nei giorni di festa. Un marciapiede conduce dalla torre alla Conca di la muneta, dove, si dice, i Doria battevano denaro. Questa Conca, a quanto ne ho potuto capire, pare sia una grande cisterna di una immensa profondità: nel fondo esisteva una campana d'oro, e i passanti gettavano una pietra, per farla suonare, talché ora la cisterna è piena in fondo di pietre, e quindi la campana è invisibile e non suona più. Una volta uno - è sempre la leggenda che parla -, prima che le pietre dei curiosi avessero riempito di sassi il fondo della cisterna, vi scese e trovò una porta che lo introdusse in quattro stanze sotterranee, grandi e misteriose. In una trovò una verga d'oro, ed in un'altra vide una grande porta di ferro serrata: questa porta doveva condurre ad altri sotterranei dove i Doria tenevano nascosti i loro immensi tesori, e dove battevano moneta, ma l'esploratore non poté neppure smuovere la porta ferrea, come nessuno poté aprirla dopo la morte dell'ultimo castellano. Talché i tesori ci si trovano ancora! A ponente poi del castello si dice esistessero altissimi bastioni, ombreggiati da alberi dove i Doria passeggiavano nelle ore inerti della loro battagliera esistenza, e dove le castellane sognavano nelle sere azzurre profumate dal fieno della pianura e dai giunchi del melanconico Coghinas. E tutto questo, il condotto sotterraneo che attraversando il sotto letto del fiume conduceva a San Giovanni di Viddacuia, la zecca dalle porte di ferro e l'alto bastione inalberato, tutto si collega alla leggenda dell'ultimo principe. I Galluresi dicono si chiamasse Andrea Doria, e forse è il forte ammiraglio che nel 1527 riacquistò i possedimenti occupati dagli Spagnoli, quello che la leggenda fa morire in modo così strano. Dunque, mentre il principe passava l'inverno nel castello, una dama, moglie o figlia non so, di un cavaliere al servizio dei Doria, e abitante nello stesso maniero, si innamorò perdutamente di Andrea. Ma per quante moine, per quante appassionate dichiarazioni ella gli facesse, egli non la volle sentire mai, anzi una volta, infastidito dall'amor suo, per quanto ciò ripugnasse al di lui carattere cavalleresco e gentile, la respinse rudemente, minacciando di espellerla dal castello se non lo lasciava in pace. Arsa dall'amore e dall'odio, dall'umiliazione subita e dall'amore respinto, la dama si invocò ad una famosa maga côrsa, che dall'alto delle rocce desolate dominava le due isole vicine - la Corsica e la Sardegna - con le sue magie ed i suoi incantamenti. «Madonna», rispose la maga, sentita la questione, «io non posso far nulla per voi. Il cavaliere è devoto a San Giovanni, e San Giovanni lo preserva dagli incantesimi d'amore. Nessun filtro e nessuna magia può influire nel suo cuore... però, Madonna, io posso mettervi in comunicazione con qualcuno che ne può più di me!...» La dama acconsentì: la maga allora la pose in corrispondenza col demonio, e il demonio, in cambio della nobile anima sua, le diede la potenza di trasformarsi, di fare dei malefizi e delle stregonerie. Invasa dallo spirito infernale la innamorata dama tentò ancora, in ogni modo, di procacciarsi l'amore d'Andrea Doria: ma San Giovanni preservava il cavaliere dagli amori colpevoli, e vane riuscirono quindi le ultime lusinghe di lei. Allora l'amore si trasformò in odio e la dama si diede tutta al male e alla perversità. Un giorno fece cambiare il suo volto in quello di una vecchia, si vestì da maga e si introdusse nel sotterraneo che conduceva dal castello alla chiesa. E mentre Doria, con qualche cavaliero di seguito, si recava alla santa messa, la maga lo fermò e gli disse: «Nobile Messere, mi ha mandato a te San Giovanni di Viddacuia, per dirti; bada, ti sovrasta una grande disgrazia! Il giorno che vedrai i campi del Coghinas ricoperti di cavalli e cavalieri verdi, quel giorno il tuo castello sarà espugnato e tu con la tua corte sarete appiccati per la gola su gli spalti di Castel Doria!..». Ciò detto sparì! Non è a dire quale stupore e qual vaga paura invadesse l'animo dei cavalieri a tale arcana profezia. Andrea Doria, specialmente, fu colto da una grande melanconia, ma si fece animo, fortificò il castello e attese, sicuro di non lasciarsi vincere. Per ogni caso mandò le chiavi del sotterraneo, che racchiudeva i tesori, ad una sua sorella abitante in Genova, e, ridente in Dio e in San Giovanni, aspettò. La perfida donna, intanto, lavorava lavorava... Venuto il mese di maggio, allorché i campi del Coghinas erano coperti di asfodelo e di fieno altissimo, ella compì la sua magia. In una notte trasformò tutti i fusti dell'asfodelo e i flessuosi gambi del fieno fresco in tanti cavalli verdi, montati da guerrieri armati di scudi e di lancie verdi, vestiti da tuniche e da corazze verdi! Quando all'alba Andrea Doria scese sui bastioni per aspirare la fresca brezza dell'aurora floreale, impallidì mortalmente. Egli vedeva!... Vedeva il suo castello assediato da quell'armata verde, immensa, che si perdeva nell'orizzonte, e sentiva che fra poco questo immane e misterioso nemico, venuto all'improvviso da terre ignote - senza che i messi e gli araldi spediti in tutte le corti italiane e straniere perché lo avvisassero se mai qualche esercito si muoveva, avessero dato nessun allarme -, avrebbe invaso e debellato il suo forte. E la terribile profezia della maga gli tornava al pensiero: Sarai appiccato per la gola su gli spalti di Castel Doria!... Mai! Mai! Mai! Prima sarebbe morto di mano sua! E infatti, vista la verde armata avanzarsi sempre più numerosa e minacciosa, il prode Doria si precipitò dal bastione e morì sfracellato sulle rocce sottostanti! Lui morto l'esercito verde sparì, e tornò l'asfodelo e tornò il fieno nei campi del Coghinas. E nella fresca serenità della azzurra mattina echeggiò un riso diabolico, un triste riso di anima dannata. Era la dama-maga che dall'alto del suo ballatoio aveva veduto compiersi la vendetta!... Saputa la morte del fratello, la sorella di Genova, che conservava le chiavi dei tesori e della zecca, si imbarcò per la Sardegna, onde aprire i sotterranei e trasportare i tesori al Continente, ma in mare fu colta da una terribile malattia. Prevedendo la sua morte si fece trasportare in coperta e all'entrare in agonia gettò le chiavi in mare, con gli occhi morenti fissi nella fatale e affascinante isola lontana ove dormiva l'ultimo sonno il suo beneamato e infelice fratello. Anch'essa morì: sepolta nelle tombe di smeraldo del Mediterraneo, nessuno seppe più aprire la Conca di la muneta, e i tesori dei Doria splendono ancora laggiù, nell'ombra del sotterraneo... Molti anni dopo la morte di Andrea, un pecoraio, passando una notte vicino a Castel Doria, vide sulla muraglia del bastione una porta illuminata. Entrò e vide uno splendido negozio, immenso, ripieno di tutti i generi che si possano immaginare: stoffe, tele, broccati, chincaglierie, mobili meravigliosi, fiori, marmi, dolci, cristalli, perle ed oro. D'oro c'erano anche grandi statue e lampade accese, e una bellissima donna, vestita di veli bianchi e piena di gioielli, stava dietro il banco di alabastro. «Piddani e lassanni» (3), disse ella al pecoraio, con un dolce sorriso, additandogli ogni cosa. Ma quell'imbecille, ricordandosi che aveva molto bisogno di biancheria, non prese che una pezza di tela e se ne andò. Tornò subito da sua madre e dai suoi fratelli e raccontò la sua avventura. L'intera famiglia si avviò la stessa notte a Castel Doria: videro da lontano l'intensa luce della muraglia, ma a misura che si avvicinavano la luce sparì. Arrivati ai piedi del castello videro solo la muraglia nera e triste nella notte scialba e silenziosa! Una notte dello scorso dicembre restai più di due ore ascoltando attentamente una donna di Orosei che mi narrava le leggende del castello di Galtellì (4). Il suo accento era così sincero e la sua convinzione così radicata che spesso io la fissavo con un indefinibile sussulto, chiedendomi se, per caso, queste bizzarre storie a base di soprannaturale, che corrono pei casolari del popolo, non hanno un fondamento, e qualcosa di vero. Il castello di Galtellì - la Civitas Galtellina, altre volte così fiorente e popolata, ora decaduta in miserabile villaggio - è interamente distrutto; restano solo i ruderi neri e desolati, dominanti il triste villaggio, muti e severi nel paesaggio misterioso. La leggenda circonda quelle meste rovine con un cerchio magico di credenze strane, fra cui la principale è che l'ultimo Barone, ovvero lo spirito suo, vegli giorno e notte sugli avanzi del castello, in guardia dei suoi tesori nascosti. Di giorno è invisibile, ma nella notte, sia calma o procellosa, chi si azzarda a visitare le rovine vede il Barone passeggiare lentamente, intorno intorno, vagando per i roveti e i massi, o lungo le nere muraglie, ricordando i giorni fastosi della sua esistenza. È giovine ancora, tristissimo in viso, vestito alla medioevale, con la spada al fianco e il collo circondato dal vaporoso collare di lattughe trapuntate. Qual fato lo ha condannato a vagare così, sempre, per secoli e secoli, sulle rovine del suo superbo maniero, ritrovo un giorno di letizia e di splendida potenza? Non si sa; forse è una scomunica del papa, forse una maledizione particolare. Oltre a lui si crede che altri spiriti, ancora in forma umana, esistenti nel castello, vaghino in sotterranee stanze, ma che non escano mai. È la famiglia dell'ultimo Barone: la moglie, la figlia, il genero ed un nipotino, nato, quest'ultimo, nel modo strano che racconterò poi. Come in Castel Doria si dice che anche qui ci sia un condotto sotterraneo, però questo conduce assai lontano, sino ai castelli del sud dell'isola, sino a Cagliari anzi, attraversando grandi catene di montagne, fiumi e pianure!... Lo spirito del Barone è mite e generoso. Non ha mai fatto del male a nessuno, anzi ha spesso beneficato dei poveri viventi. Una volta un misero contadino del villaggio, mentre ritornava dalla campagna con un fascio di legna sulle spalle, sopravvenutagli la sera in cammino, si fermò un momento ai piedi del castello rovinato. La notte era freddissima, ma la luna splendeva vivamente, e il contadino poté distinguere un signore che passeggiava sulle alture vicine. Curioso e coraggioso il contadino salì un poco più su e guardò questo bizzarro signore che si permetteva di passeggiare tranquillamente in tal luogo e così tanto freddo. Il signore allora si accorse di lui e si fermò. Era biondo e soave di volto, con due grandi occhi vitrei ed appannati, immersi nel dolore di una eterna tristezza. «Chi sei?», chiese dolcemente al viandante. Sentita la risposta, guardò fissamente il fascio della legna che il contadino aveva deposto nel sentiero, e disse: «Mia figlia e mia moglie hanno tanto freddo, tanto! Vuoi tu darmi la tua legna?..». «E perché no?», esclamò l'altro conquiso dalle belle maniere del misterioso signore. E trasportò il fascio sulle rovine, e non volle accettare la piccola ricompensa che il signore voleva dargli. Ma poco tempo dopo tutti nel villaggio videro una cosa sorprendente. Il povero contadino acquistava terreni, case, pascoli e spendeva come un riccone. In breve egli diventò il più benestante del paese, e per liberarsi dalla fama di ladro o che, dovette rivelare la verità. Dopo la prima notte egli era ritornato molte volte al castello e aveva provveduto di legna, per tutto l'inverno, gli abitanti invisibili e spirituali di quelle rovine. In cambio il Barone gli aveva donato molte e molte borse piene d'oro!... La leggenda poi, o la tradizione, che pare recentissima, del nipotino del Barone è questa. Una notte una donna del villaggio sentì picchiare alla sua porta, e apertala vide un cavaliere magnificamente vestito, che le disse: «Presto, venite con me. Si ha bisogno di voi!». Essa, che era poverissima e che trovava pochissime occasioni di tentare la fortuna, non si fece pregare. Vestì la sua tunica e seguì il cavaliere, che camminava rapidamente, senza fare il minimo rumore, davanti a lei. Attraversarono il villaggio e uscirono in campagna. La donna, inquieta, chiese: «Ma per dove mi conduce, monsignore?». «Venite e non temete di nulla!», rispose lui. La sua voce era così gentile e soave che la donna si rassicurò e continuò a seguirlo in silenzio. Il cavaliere la condusse alle rovine del castello e pigliandola per mano l'introdusse nelle sale sotterranee di cui essa aveva tante volte sentito parlare. Queste sale erano uno splendore di lusso e di magnificenza. Coperte di arazzi e di cortinaggi di broccato, ammobigliate come deve essere ammobigliato il Paradiso, venivano illuminate da grandi candelabri d'oro e di perle preziose. In una di esse v'era un letto ricchissimo, e su stava coricata una giovine dama pallidissima e bella, in preda a crudeli sofferenze. Un'altra dama, più vecchia, bella e soave anch'essa, l'assisteva, e un giovine cavaliere andava disperatamente da un capo all'altro della sala. Più tardi, la donna presentava, affondato fra nastri e trine, un bellissimo pargoletto, dicendo alla dama attempata: «Ecco un grazioso dono, monsignora!...». Ma la dama, baciato il bambino, sorrise tristemente e rispose: «Ma non è del tuo mondo, buona donna!...». Finito tutto, il cavaliere vecchio riprese per mano la donna, la condusse fuori e l'accompagnò fino a casa sua. Rimasta sola essa si meravigliò del come non era stata ricompensata da quella strana gente, ma l'indomani mattina, aprendo la porta, trovò sul limitare una gran borsa piena di monete d'oro. «Per ciò», conchiuse la donna che mi schizzò le leggende del castello di Galtellì, «per ciò ora i discendenti di quella donna sono fra i più ricchi del paese!» I santi, Nostra Signora e Gesù stesso in persona pigliano spesso viva partecipazione in molte leggende sarde. Non c'è Madonna che non abbia la sua storia, e quasi tutte le chiese, specialmente le chiesette di campagna, le piccole chiese brune perdute nelle pianure desolate o nei monti solitari, e che hanno l'impronta delle costruzioni pisane o andaluse, sono circondate da una tradizione semplice o leggendaria. Qui ne ricordo due. La prima è della chiesetta edificata in cima al monte Gonare, presso il villaggio di Orane, a 1120 metri sul livello del mare. Gonare è una delle montagne più caratteristiche della Sardegna, ed il suo picco azzurro, in forma di piramide, si scorge da moltissimi punti dell'isola. La chiesetta è edificata proprio in cima: simbolica sfida ai fulmini, ai venti e alle procelle; e la leggenda è questa: Gonario di Torres, giudice del Logudoro, sorpreso una volta da una terribile tempesta, mentre navigava sui mari occidentali della Sardegna, promise alla Madonna di edificarle un santuario su la prima cima di monte che scorgesse, se lo salvava dal pericolo di naufragare. Fatta appena la promessa, ecco, come per incanto, la procella si calmò, e tra le ultime nuvole diradantesi per l'orizzonte, il pio Gonario distinse una montagna azzurra, che gli dissero esser vicina al villaggio di Orane. L'anno stesso il giudice fece costruire a sue spese il tempio modesto, e la montagna prese il nome di Gonario, che a poco a poco si ridusse in quello di Gonare. La Madonna gradì tanto l'omaggio del nobile signore che si degnò di scendere nella Sardegna per visitare il suo nuovo santuario. Mentre saliva a piedi su l'erto sentiero della montagna si appoggiò, stanca, ad un masso, per riposarsi. E si mostra ancora quel masso, solcato da una piccola incavazione che, dicesi, sia la traccia lasciata dalle spalle di Nostra Signora. Le donnicciuole si appoggiano devotamente a quel masso e raccolgono della polvere raschiata dallo stesso. L'appoggiarsi così preserva, dicono, dai dolori alle spalle, e la polvere guarisce dalle febbri! Mentre la Madonna discendeva dal monte di Gonare, incontrò Santa Barbara e le disse: Barbaredda de Orzai,Infatti la chiesa di Santa Barbara fu edificata nel villaggio di Olzai, vicino a Gonare, ma in una bassura che non si scorge tra l'immenso panorama godentesi dalle cime di Gonare. Questa leggenda la lessi tempo fa in un giornale letterario sardo, La terra dei nuraghes, diafanamente scritta da Pompeo Calvia, uno dei più gentili poeti sardi. È sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a Torralba: un'antica chiesa storica, ora quasi rovinata, ritenuta, dice il Calvia, per il più antico monumento dell'arte medioevale che vanti la provincia. La dolce e misteriosa leggenda narra che viveva anticamente, forse verso il mille, un giovine mastro di Sorres, artista, poeta gentile; il quale tornando nel suo paese dopo aver studiato oltremare, presso un pittore ed architetto famoso, rimarcò nel villaggio una finestra misteriosa «dove con molta grazia ed abbondanza crescevano le rose, e le campanule s'intrecciavano alle spirali delle colonnine», che non si apriva mai, e tra i cui fiori non appariva mai nessuna testa. Solo ogni mese un arazzo intessuto di astri, di figurine e di foglie d'alloro, sventolava leggero sul davanzale, ma invisibile era la mano che lo spargeva e lo ritirava. Mosso dalla curiosità il giovane artista chiese informazioni su quella casetta arcana; ma nessuno gliele seppe mai dare. Il mistero più intenso regnava là intorno. Allora il giovine si recò una notte ad origliare presso quella finestra e sentì solo una soavissima voce di donna cantare «come un canto di cigno che muore», e sentiva pure il muoversi leggero delle spole di un telaio. Arso dalla curiosità l'artista un'altra notte prese la sua mandola e cantò una triste appassionata canzone sotto la finestra bizzarra. Poi, siccome la neve cadeva e la notte era cruda, picchiò chiedendo asilo e dicendosi un viandante smarrito. Ma una voce soave gli rispose: «Io non ho pane da darti, nel mio piccolo giaciglio non sono che spine; mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a me che sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte. Viandante, va!». E siccome lui insisteva lo consigliò di ricovrarsi nella chiesa vicina, ma egli replicò che la chiesa cadeva in rovina e dentro ci nevicava come fuori. «Fatene una voi, allora!», esclamò la voce. «Io farolla se voi m'ispirerete il disegno!» «Te lo darò, va!» E la voce non parlò più. Il giovine se ne andò, e dopo molti mesi vide nella finestra sparso un magnifico arazzo con una chiesa pisana ricamatavi. Era meraviglioso: vi si scorgeva tutto l'interno, coi più minuti particolari, e l'artista capì subito e si scolpì in testa quel disegno. Ma abbisognavano molti denari per costrurre un simile tempio e il paese era poverissimo. Come fare? Il giovine, innamorato perdutamente della misteriosa abitatrice di Sorres che gli aveva proposto la costruzione della chiesa, deciso di adempiere la sua promessa pur di giungere a conoscerla, dipinse una Madonna in campo d'oro, con un mandorlo fiorito in mano, e regalò la squisita sua dipintura alla vecchia chiesa cadente. Tutti ammirarono il quadro, e una mattina videro che la Madonna invece del mandorlo teneva in mano, una chiesa. Era simile a quella dell'arazzo, ed era stato il giovine che, introdottosi furtivamente nella notte in chiesa, l'aveva dipinta, cancellandovi il mandorlo. Si gridò al miracolo, e si disse subito che la Madonna voleva una chiesa così! Allora un fraticello prese il dipinto miracoloso e corse per i castelli ed i contadi e le ville raccogliendo denari e offerte per la costruzione della chiesa. E quando ebbe riempito d'oro molti forzieri propose al giovine mastro di Sorres di edificare il tempio. Egli accettò: molti operai vennero chiamati all'opera e in breve - non ostante i mali spiriti che ogni notte distruggevano il fabbricato -, la chiesa sorse, bella e ricca come nel disegno dell'arazzo! Nella notte precedente il dì della consacrazione, mentre tutto il villaggio, animato dalle genti dei villaggi vicini, festeggiava il grande avvenimento, il giovine mastro si recò alla casetta misteriosa e batté alla porta. «Chi sei tu?», chiese la dolce voce incantatrice. «Son venuto a prendere un fiore dalle tue mani e porlo alla Madonna, sospirò il giovine, aprimi!...» «Bene sta, vengo.» La porta si aperse per incanto ed il giovine si trovò dinanzi alla misteriosa, che pareva vestita d'argento, con una stola nera sulla veste, sparsi i biondi capelli sulle spalle e pallidissimo il viso che spiccava nettamente innanzi ai ricami delle pareti, i quali sempre s'andavano cangiando, in intrecci di rabeschi e figure perfettamente intessute e disegnate. Nel mezzo di dette stoffe, immutabile campeggiava la chiesa di San Pietro di Sorres. In un canto stava il telajo, e d'oro tutti parevano i fili. La bella accennò con gli occhi sereni, senza mutamento, tutta composta nella soavità dell'atto come le figure che si vedono nei mosaici bizantini. Aveva al piedi ramoscelli d'olivo e nelle mani rami di alloro con le bacche d'oro. La bella lasciò andare una foglia di lauro, ed egli si chinò per raccoglierla, e come vide che la donna accennava d'avvicinarglisi, bella così come i sogni dell'ideale, il giovine si avvicinò ed un bacio pose su quelle labbra divine. Ma non appena ebbela baciata, che tutto si sentì un gelo come di sfinimento per le membra, e cadutole ai piedi, dolcemente guardandola morì! Radicatissima è ancora nel popolino sardo la credenza che la scomunica del papa o magari di un semplice sacerdote, apporti davvero maledizione su chi è lanciata e sulle sue generazioni. A tal proposito ho trovato fra le altre questa leggenda. In un villaggio del circondario di Nuoro c'era un ricco monastero i cui frati spadroneggiavano non solo sulle loro proprietà e sui loro sottoposti, ma in tutte le terre e gli abitanti vicini. Perciò erano sommamente malvisti, e già, segretamente, gli abitanti del villaggio avevano inviato molte suppliche al Santo Padre perché mettesse un freno alle angherie loro. Ma a Roma si pensava ad altro che al piccolo villaggio sardo: allora un gruppo di giovini un po' scapestrati e senza pregiudizi decise di far qualche tiro ai monaci, che li screditasse presso il papa e segnasse la loro rovina. L'occasione li favorì stranamente. Un giorno di festa, in cui nella chiesa del monastero si facevano solenni funzioni, morì improvvisamente un bambino, forse figlio d'uno dei congiuranti contro i monaci. Senza che nel villaggio se ne spargesse la notizia quei giovanotti presero il cadaverino e lo gettarono, di notte, in un pozzo del chiostro. L'indomani tutto il villaggio commentava la scomparsa del fanciullo, che il giorno prima era stato veduto aggirarsi, sano e lieto, con gli altri bambini della sua età, per le navate della chiesa dei monaci. E cerca e cerca e cerca fu finalmente ritrovato il cadavere nel pozzo! Figurarsi l'indignazione e il furore del popolo! Perché subito si disse che il bimbo era stato trucidato dai frati, chissà perché. A stento se la scamparono, ma giunta la notizia dell'immane delitto alla corte del Giudice di Logudoro questi, d'accordo col papa, mandò un bando, che il monastero venisse distrutto e i monaci cacciati in esilio. Invano i poveretti cercarono giustificarsi; né a Roma né in Ardara, sede allora dei Giudici, fu concesso loro né ascolto né pietà. Il convento venne diroccato e i monaci, già sì forti ed opulenti partirono raminghi. Ma prima di andarsene essi scagliarono le loro più formidabili scomuniche su gli abitanti del villaggio e sui loro discendenti. Infatti, d'allora in poi, la maledizione gravò su questo villaggio: le pestilenze, le carestie, le disgrazie più inaudite piombarono in ogni tempo su di esso, e, ciò non bastando, gli abitanti, rôsi dagli odi e dalle inimicizie più funeste, si dilaniarono tra loro, massacrandosi e sperdendosi a vicenda. Pare ci fosse a Sassari una ricca dama, molto pia e devota, chiamata madama Galdona, la quale, venuta a morire, testò un suo possedimento ai frati di non ricordo più qual ordine. Spossessati questi dei loro beni dal Governo, si dice, sparsero la scomunica sul podere. E infatti tutti coloro che l'acquistarono, uno dopo l'altro, subirono molte disgrazie. E la dama (prima possessora) ovvero il suo spirito, vaga di tanto in tanto fra gli alberi del podere borbottando maledizioni e scongiuri contro gli spogliatori dei suoi benamati e prediletti eredi. Queste le leggende sarde serie e tradizionali. Come ho già detto, in Sardegna le leggende sono infinite, tutte improntate dalle fantasticherie meridionali dei popoli che in ogni tempo vennero a mescolarsi col nostro. A raccoglierle tutte se ne formerebbero dei grossi volumi, ed io qui ne ho esposto solo qualche esemplare, scelto fra le più corte, le più gentili e le meno intrecciate. Oggi io voglio narrare due graziosissime leggende nostrane alle spirituali lettrici di Vita Sarda. Ora le leggende sono di moda, e nella rinascente fioritura degli studi popolari, verso cui tutti, pensatori, scrittori, poeti, volgono lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove approdare, dopo tante oscure tempeste letterarie, la leggenda ha il primo posto, senza parerlo. La leggenda è aristocratica, è artistica, è volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello spirito fine della signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della popolana; nell'animo sognatore dell'artista e nella percezione spregiudicata e indagatrice dello scienziato. La leggenda richiama l'attenzione del poeta e dello storico, che la sfronda per trovare nel suo fusto le tracce delle generazioni sepolte, l'indole delle generazioni viventi e il germe di quella delle generazioni future. Può destare lo stesso fremito nei circoli gai dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori riuniti intorno al triste focolare - nei fanciulli e nei grandi -, e può, infine, fornire i materiali per un volume serio, dotto, scientifico, e per un volume di amena lettura, spumoso, elegantemente inutile. Ho studiato altrove, benché rapidamente, il carattere della leggenda sarda, che, all'infuori dei cicli di leggende sarcastiche, vòlte a porre in satira un dato personaggio o un dato villaggio, ha il profilo serio e melanconico delle tradizioni meridionali. Dirò qui alla sfuggita che la Sardegna, terra per sé stessa leggendaria e misteriosa, è piena di leggende. Ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia (tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda. Talune leggende si incrociano e si confondono con le fiabe, - ed una di queste è la prima delle due che oggi ho il piacere di narrarvi, - al verosimile mescolando il fantastico, con lontane reminiscenze delle leggende nordiche, delle saghe, delle fiabe fiamminghe o alemanne, - ma la miglior parte ha una esplicazione tutta locale, che ne delinea nitidamente il carattere. Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli, con le fate, con le streghe e le janas; sono i giganti, da cui il popolo sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i Genovesi, gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, - dopo la dominazione romana, di cui soltanto i Sardi, pur restando tanto profondamente latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, - fecero del bene e del male all'isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i vicerè aragonesi, i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le avventure dei pirati saraceni, negli ultimi secoli prima del mille, sono artisti ignoti, forse del trecento e del quattrocento, non ricordati neppure dalle scarse cronache sarde, e dame misteriose e santi e guerrieri, e talvolta lo stesso Gesù o la stessa Maria. Molte poi delle leggende sarde hanno un vero valore storico, specialmente quelle di talune chiese e di qualche montagna. Senza ombra di fantasticheria, senza fronde, senza personaggi sovrannaturali, formerebbero, se ben raccolte e ben studiate, degli elementi, dirò anzi dei documenti vivi, utili per la storia sarda. Nella catena di monti che circondano Nurri, e precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o Corongius, c'è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e i pastori si rifugiano per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte. Una volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio, stanchi di aver raccolto olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta. Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e cenando con del pane e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si fermarono dubbiose sull'ingresso, guardandoli con diffidenza. Ma subito essi, da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi ed a prender parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano. «Siamo tre fratelli orfani», risposero essi con buona grazia, «e lavoriamo per vivere. Siamo tanto poveri che se sapessimo come migliorare la nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.» Le tre donne che erano tre streghe (orgianas) o meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo, prima; poi parvero combinare qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto un miagolio. Quindi la più vecchia si levò di tasca una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli: «Buon giovine, prendi questo dono che ti faccio da vera amica. Tutte le volte che vorrai mangiare, tu, i tuoi fratelli e tutta la compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, stendendola poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio». La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e gli offrì un portafogli dicendogli: «E tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci troverai denaro a tua volontà». La più giovine intanto porgeva un piffero (sas leoneddas) al terzo, con queste parole: «Questo strumento da fiato che io ti do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo udranno. Va', caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo umile dono ti renderà un servigio maggiore di quello che renderanno ai tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli». Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si congedarono amabilmente, ringraziandosi scambievolmente e dicendosi il rituale teneis'accontu (tenetevi bene) dei sardi meridionali. I tre giovani, possessori di quei talismani meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero a viaggiare per le città dell'isola in cerca di avventure e di piaceri. Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di generosità - giovani di buon cuore come erano -, ma un giorno un prete potente e strapotente intimò loro di lasciar l'uso dei loro talismani, pena la scomunica e il carcere. Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro, ma probabilmente questo brano è un vago ricordo dell'Inquisizione impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche prima d'allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna. I tre fratelli risero per l'intimazione del prete. I talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro possessori; quindi essi non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più giovane dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l'incanto di far ballare con la sua musica tutti coloro che la sentivano, tranne i tre fratelli. Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con uno slancio proprio ridicolo e irrefrenabile. Accorse molta gente; ma a misura che si accostavano e che sentivano distintamente il magico suono, tutti ballavano senza potersi mai fermare. In breve la strada fu piena zeppa di gente che pareva impazzita, che saltava smaniando, contorcendosi, chiedendo grazia al misterioso suonatore. Costui però si divertiva molto nel veder ballare il prete, che grasso e tondo soffriva più degli altri in quella danza infernale, e non smise finché non lo vide cadere a terra sfinito e svenuto. I tre fratelli, dopo tutto ciò, si diedero alla fuga, ma ben presto furono raggiunti, legati e gettati in fondo ad una torre. Ma anche laggiù essi si divertivano suonando, ballando e mangiando insieme con gli altri prigionieri ed ai custodi della torre. Perciò il loro processo fu presto sbrigato, e, condannati a morte, furono dopo pochi giorni condotti alla forca. Una fiumana immensa di gente, anche dei paesi lontani, si accalcava intorno intorno per godersi lo spettacolo dell'impiccagione dei tre fattucchieri. Sul punto di morire i tre condannati chiesero ai magistrati presenti di accordar loro una grazia per uno. E siccome ai condannati non viene negata un'ultima grazia, tranne quella della vita, i tre fratelli ebbero ciò che chiedevano. Il primo chiese di offrire un pranzo a tutta la moltitudine, compresi i giudici. La proposta fu accolta con entusiasmo dalla folla, e subito il giovine stese la sua tovaglia sul palco. Ogni sorta di pietanze, di frutta, di dolci e di vini squisiti compariva sulla strana mensa. La gente mangiava e beveva a crepapelle, ma più se ne consumava più grazia di Dio abbondava sulla tavola. In breve tutti, sgherri, carnefici, popolo e magistrati furono ebbri e sazi a più non posso. Allora il secondo fratello chiese la grazia di distribuire del denaro. Figuriamoci se fu concessa! Aperto il portafogli incantato, il condannato distribuì enormi somme, in monete e lettere di cambio (i biglietti di banca non esistevano ancora) a quei poveri diavoli di soldati, di contadini e di pastori che mai avevano veduto una simile meraviglia. Mentre tutti si abbandonavano ad una pazza allegria - come avremmo fatto anche noi, scrivente, lettrici e lettori, non ostante la nostra serietà e il nostro nobile disprezzo per il denaro -, il terzo fratello chiese, così tanto per formalità, la grazia di suonare. Sperando un altro benefizio, i giudici e la folla accordarono a grandi voci quest'ultima grazia. Il giovine ritto sul palco fatale, si mise a suonare e immantinente tutta la folla briaca, i giudici, le soldataglie e i carnefici si diedero ad eseguire una danza furiosa, macabra, spingendosi gli uni sugli altri, pestandosi, urtandosi, cadendo a terra chi svenuto, chi ferito e chi persino morto. E nella terribile confusione i tre condannati poterono svignarsela e porsi in salvo coi loro talismani. Questa leggenda risale all'ottavo o nono secolo. Dopo l'insurrezione dei sardi contro la dominazione bizantina, fuggiti i fiacchi Greci da Cagliari, l'isola si resse da sé per qualche tempo, governata dal famoso re Gialeto, ch'era già stato capo dei rivoluzionari. Ma venne tosto infestata dai Saraceni, che la sbranarono con ogni sorta di scorrerie, di espilazioni, di saccheggi e di rovine. Le coste dell'isola erano costantemente piene di pirati e di guerrieri saraceni, e i villaggi marittimi erano quelli che più certamente ne soffrivano. Gli abitanti di Dorgali, grosso villaggio nel circondario di Nuoro, vicino alla costa orientale, ma difeso da un'alta montagna calcarea, tenevano sempre un gruppo di uomini forti e valorosi sulla cresta del monte, in guardia contro tutti i movimenti dei saraceni accampati sulla sottostante costa. Era una specie di assedio. I saraceni spiavano il momento di poter passare sui monti senza pericolo, ma i Dorgalesi stavano fermi alla guardia. Così scorreva il tempo inutilmente, allorché i saraceni fecero una falsa ritirata. Ingannati da ciò e spinti dalla loro profonda fede religiosa, un giorno di festa solennissima i Dorgalesi della guardia abbandonarono i loro spalti naturali e scesero al villaggio per assistere alle sacre funzioni. Tosto i saraceni sbarcarono e salirono sul monte, ma mentre stavano per piombare sul villaggio si fermarono paurosi a guardare. Vedevano una immensa fila di persone vestite a vivaci colori, con in mano strani bastoncini bianchi e croci e randelli e bandiere, sfilare per le vie di Dorgali, incamminandosi come alla montagna. Era una processione. Ma ai saraceni, per volere della Madonna, la processione, così veduta dall'alto e da lontano, parve un esercito di soldati armati che si preparasse ad inseguirli e disperderli. Perciò si diedero a precipitosa fuga e qualcuno restò appiccato per i capelli agli alberi della montagna. Uno di questi alberi mi pare anzi che si chiami ancora ed appunto del saraceno. Questa è la leggenda gentile dei monti di Dorgali, immortalata da una delle punte principali, che in memoria di tal fatto si chiama della guardia (de sa Bardia). Poco distante dalla riva del mare un antico pastore pascolava le sue gregge. Era in un tempo lontanissimo, in una primavera quasi preistorica; ma il paesaggio era quale ancora si ammira adesso, una fresca pianura verde, chiusa da montagne quasi nere sul cielo d'un azzurro chiaro, e lambita dal mare; la capanna del pastore era eguale alle odierne capanne dei pastori sardi; e lo stesso era il pastore, vecchio ma ancora possente, coi lunghi capelli e la lunga barba gialla, gli occhi neri circondati di rughe, e vestito di rozzi pannilani e di pelli. Il vecchio si chiamava Sadur, (ed io non so l'etimologia di tal nome, ma ritengo che da questo provenga il moderno Sadurru, che poi vuol dire Saturnino) e viveva con la moglie ancor giovane e la figlia Greca. Qua e là per la pianura sorgeva qualche altra capanna e viveva qualche altro pastore. Donde venivano quei primi sardi, con le loro donne piccole e brune, e con le gregge ancora selvatiche? Forse i padri loro erano venuti anch'essi dalle coste d'oriente, con barche di predoni; e dico anch'essi perché, di tanto in tanto, sul mare argenteo disegnavasi l'ala rossastra di qualche vela fenicia, sbarcava un gruppo d'uomini pallidi, vestiti di corte tuniche grigie, coi sandali ai piedi e in testa un berretto a cono. E si spandevano sulla pianura come un turbine e incendiavano le capanne, predavano ciò che potevano, sgozzavano le pecore e banchettavano sotto gli alberi. Sadur nutriva un odio feroce contro questi sgraditi visitatori, che l'avevano più volte rovinato. Spesso s'era salvato con le donne e il gregge sulle montagne, ritornando alla pianura quando le vele rosse sparivano lentamente all'orizzonte, nei violacei crepuscoli marini; ma ora vedeva avvicinarsi con dolore l'estrema vecchiaia e sentiva tristemente svanir le sue forze. Chi avrebbe salvato oltre le sue donne e le sue gregge? Egli sedeva melanconicamente sul limitare dell'ovile, e guardava inquieto la linea chiara del mare. Da qualche tempo, però, anzi da qualche anno, nessuna disgrazia aveva turbato la vita di quei primi pastori sardi. Solo, dall'interno dell'isola, giungeva, di quando in quando, qualche negoziante primitivo. Recava frumento, legumi, pannilani, frutta secche, armille e altri gioielli di bronzo: in cambio riceveva lana, miele, formaggio, unghie di pecora, e ripartiva. Le donne macinavano il frumento fra due pietre, cuocevano le focacce, cucivano le vesti. Sadur guardava le gregge, e fissava gli occhi nel mare. Nonostante la pace di quegli ultimi anni, non si sentiva tranquillo. I suoi occhi si indebolivano, i suoi denti ferini si muovevano entro le gengive, le sue mani cominciavano a tremare. Ciò era ben triste. Il suo unico conforto, spesso, era di suonare certi flauti di canna, molto rozzi e primitivi. Ne veniva fuori una melodia monotona, ma flebile, soave, che si smarriva come un lamento nel gran silenzio della pianura. Quando suonava i suoi flauti di canna, Sadur dimenticava ogni sua tristezza; gli occhi suoi si raddolcivano, su tutta la sua selvaggia fisionomia si spandeva un'espressione di tenerezza e di bontà. Al suono melanconico del suo flauto, Sadur sentiva il cuore empirsi di care ricordanze, tutto gli sembrava dolce, sognava di maritar Greca con qualche giovine gagliardo, di lasciar lei e la madre sotto una forte protezione, e di morir tranquillo, sotto una quercia, al sole di aprile. Egli aveva parecchi flauti, più o meno sottili, e ogni volta che suonava li provava tutti, ad uno ad uno. Ciascuno aveva un suono particolare, e Sadur sapeva trarne diverse melodie. Ora, nell'ultimo anno della sua vita, gli accadde questo fatto. Era di maggio: un giorno egli se ne stava vicino al mare, quando con terrore scorse le vele fenicie a poca distanza dalla costa. Tutto tremante corse dalle sue donne e disse loro: «Ahimè, succede ciò che io da vari anni temevo. Non c'è che un mezzo per salvarci. Fuggite voi due con buona parte della greggia; avviatevi al nascondiglio che sapete. Io rimarrò qui con quindici o venti pecore: crederanno ch'io viva qui solo e si indugeranno a banchettare. Intanto voi potrete salvarvi, e, dopo la loro partenza, ci riuniremo». Le donne partirono, piangendo, spingendo verso i monti il grosso della greggia; e il vecchio rimase. Finse d'esser quasi cieco e si mise a suonare. I fenici lo trovarono così, in apparenza tranquillo, e credettero ch'egli vivesse solo con le poche pecore smarrite nel prato vicino. Com'egli aveva preveduto, essi s'indugiarono laggiù: frugarono la capanna, la distrussero per accender il fuoco coi rami dei quali era formata, sgozzarono le pecore e banchettarono. Alcuni di loro volevano legare e bastonare Sadur, ma il capo della spedizione, ch'era un giovine pallido dai lunghi capelli nerissimi, unti d'olio profumato, vi si oppose. Solo, finito il banchetto, comandò al vecchio di suonare. Sadur prese i suoi flauti e suonò. Il giovine capo si mise ad ascoltarlo attentamente, pensieroso e quasi triste. Ad un tratto parve preso da un capriccio strano, e comandò a Sadur di suonare tutti assieme i suoi flauti. «Come farò?», disse il vecchio. «Accomodati, altrimenti ti farò bastonare.» Allora il vecchio cercò certe erbe filamentose e unì in fila i suoi flauti, formando la prima delle leoneddas sarde. Prova e riprova, gli riuscì di suonare abilmente una melodia melanconica, armoniosa, discretamente sonora. Presi dalla sonnolenza dei meriggi primaverili, dopo il pasto abbondante, i fenici ascoltavano sdraiati sull'erba, e una grande dolcezza li invadeva a quel suono. Il giovine capo, specialmente, pareva incantato. A poco a poco si addormentò, e gli parve di non aver mai gustato un sonno così delizioso, in luogo più ameno di quello. Svegliandosi, disse al vecchio di chiedergli tutto ciò che desiderava; glielo avrebbe accordato, se era in suo potere. Sadur tremò, poi disse: «Ebbene, senti. Io ho moglie e una figlia vergine: se le incontri, non toccarle». «Tu puoi farle tornar qui», disse il capo, «non sarete più molestati.» Intanto fece ricostruir la capanna e attese che il vecchio, andato in cerca delle sue donne, fosse di ritorno. Desiderava sentire ancora il suono dei flauti riuniti e di addormentarsi ancora una volta sull'erba. Sadur e le donne e le gregge tornarono, e il vecchio suonò ancora, e il giovine si addormentò. Allo svegliarsi vide Greca, e il luogo gli parve ancora più ameno. «Vuoi tu darmi la fanciulla?», chiese al vecchio. «La sposerò e resterò qui coi miei compagni.» Così si formò in Sardegna una delle prime colonie fenicie, ed il vecchio Sadur continuò a suonare, tutti assieme, i suoi flauti di canna. La mercantessa d'uova, zia Biròra Portale, viaggiava recando un cesto d'uova da Orotelli a Nuoro. Era una notte d'agosto, pura e luminosa come una perla. Sulla grande distesa della pianura di stoppia, la luna gettava una luce viva ed eguale; il cielo era azzurro quasi come di giorno, e solo ad oriente l'orizzonte appariva vaporoso, velando le montagne che sembravano nuvole sorgenti dal mare. Zia Biròra viaggiava di notte perché viaggiava a piedi, e viaggiava a piedi perché i guadagni del suo commercio erano tanto esigui da non permetterle di viaggiare a cavallo. Figuratevi che tutti i capitali del suo commercio, assai fragili invero, stavano dentro quel cestino intessuto di canne che ella recava sul capo: duecento uova. Ogni tre giorni zia Biròra, comprava duecento uova, le disponeva nel cestino, fra la paglia, e si metteva in viaggio per Nuoro. Col guadagno viveva tre giorni. Da anni ed anni ella faceva quel mestiere. A Nuoro, dove con la scusa di vendere le uova chiedeva qualche volta anche l'elemosina, tutti la conoscevano, e divenne anche più popolare per il caso strano accadutole una notte d'agosto. Ella dunque viaggiava, attraversando la pianura, illuminata dalla luna, pei sentieri tracciati fra le stoppie, nelle tancas così melanconicamente poetiche, perfettamente disabitate e deserte. A che pensava? È un po' difficile dirlo, perché i suoi pensieri non avevano nesso: erano piuttosto frammenti di pensieri, brani di idee semplici che si sperdevano in uno sfondo incolore. Sì, zia Biròra, che non era mai stata una donna allegra, quella notte provava una grande melanconia; si sentiva stanca; aveva sonno e non poteva riposare. Era stanca, stanca di quel suo viaggio che durava da trent'anni e non finiva mai. Inoltre aveva come il presentimento d'una vicina disgrazia; ma giammai avrebbe creduto dovesse succederle così presto, così, fra dieci minuti, fra cento, fra dieci passi. Ecco, nel salire un piccolo rialzo che dai campi metteva sullo stradale, la vecchia mercantessa scivolò e cadde. Blum! fece il cestino, e le uova scricchiolarono e una cascata di paglia bagnata e di gusci bianchi inondò il piccolo rialzo. La vecchia si rialzò, guardò pallida, stordita come se avesse ricevuto una mazzata sul capo. Tutto, tutto era perduto. Ella era rovinata per sempre. Si sedette sul rialzo e cominciò a piangere accoratamente, come una bimba di dieci anni. Da qualche minuto stava così immersa nel suo dolore piangendo e lamentandosi ad alta voce, quando udì una voce sonora risuonare alle sue spalle. «Donna!», diceva la voce, «Che cosa vi è capitato? Perché spaventate coi vostri pianti i tranquilli viandanti notturni?» La vecchia guardò e vide, fitto sull'orlo dello stradale, circonfuso dalla luminosità lunare, un bellissimo giovine signorilmente vestito. Sulla spalla egli teneva un ricco fucile, la cui canna arabescata brillava alla luna. Zia Biròra lo credette un cacciatore e gli raccontò il miserevole caso. «Da trent'anni», disse, «da trent'anni io viaggio, di giorno e di notte, per guadagnarmi un tozzo di pane. Ah, come sono misera! Non mi era giammai capitato di cadere: ma ora invecchio, le gambe si piegano, il sonno mi sorprende. Come farò ora?» «Non avete parenti?» «Nessuno, nessuno. Vivo sola come le fiere. Come farò ora? Quando chiedo l'elemosina mi dicono: Perché non avete lavorato? Ah, non sanno dunque che io ho lavorato più di qualsiasi altra creatura cristiana? Ecco, vedi i miei piedi? Vuoi vedere i miei piedi, giovine cacciatore?» E preso un piede con entrambe le mani ne rivolse la palma verso lo sconosciuto. Costui si chinò a guardare, e vide quella povera palma di piede ridotta ad una specie di cuoio grossissimo, nero, screpolato, qua e là macchiato di sangue. «È orribile», mormorò, come fra sé, «una povera vecchia camminare così.» Zia Biròra era troppo furba per non profittare della pietà del viandante, sperando ch'egli le desse una buona elemosina, e riprese a narrargli le sue disgrazie, esagerandole magari un tantino. Egli ascoltava, pensoso, pizzicandosi il mento adorno d'una graziosa fossetta. Ad un tratto s'udì un passo di cavalli, in lontananza, nel silenzio dello stradale. Lo sconosciuto ascoltò intensamente, mentre traeva il portafogli dalla tasca interna della giacca. In un attimo prese un biglietto di banca, lo diede alla vecchia, rimise il portafogli, e sparì. Parve che il terreno l'avesse inghiottito, e zia Biròra provò uno strano sentimento di terrore, ma di terrore arcano, misto a gioia profonda. Senza avvedersene si trovò inginocchiata, col biglietto fra le mani giunte. «Egli era un angelo», pensava, «era San Michele Arcangelo. Dio sia lodato: Egli non abbandona i poveretti. Questo è certamente un biglietto da venticinque lire: io sono salva, la mia vecchiaia è assicurata. San Michele Arcangelo sia benedetto. Era lui! Era lui!» Si trascinò sulle ginocchia, baciò il suolo dove lo sconosciuto aveva posto i piedi, e pregò. In questa posizione la sorpresero due paesani che passavano a cavallo e che la credettero svenuta. La chiamarono, ed uno di essi smontò da cavallo. Ella si rialzò e raccontò la storia, dicendo d'aver veduto San Michele Arcangelo che le aveva fatto l'elemosina. La credettero pazza, le chiesero di far vedere il biglietto, e le dissero, meravigliati che era un biglietto da cento lire. Poi passarono oltre. Cento lire! La vecchia credette d'impazzire davvero: cominciò a ridere e piangere nello stesso tempo, picchiandosi il petto, gettandosi per terra e baciando nuovamente il posto ove lo sconosciuto s'era fermato. Qualche tempo dopo, zia Biròra, che continuava a negoziare le uova, viaggiando però a cavallo, si trovò per caso, a Nuoro, davanti alla Corte d'Assise. Si discuteva un famoso processo contro un bandito accusato di omicidi, grassazioni, vendette, rapine. La vecchia mercantessa entrò anch'essa e si mescolò alla folla dei curiosi. Ad un tratto fra questa folla s'elevarono grida, esclamazioni, mormorii. Che è, che non è? Era la vecchia che nel bandito crudele aveva riconosciuto il suo San Michele Arcangelo. Oggi, miei piccoli amici, voglio raccontarvi una storia che vi commuoverà moltissimo, e che, se non vi commuoverà, non sarà certamente per colpa mia o delle cose che vi narro, ma perché avete il cuore di pietra. C'era dunque una volta, in un villaggio della Sardegna per il quale voi non siete passati e forse non passerete mai, un uomo cattivo, che non credeva in Dio e non dava mai elemosina ai poveri. Quest'uomo si chiamava don Juanne Perrez, perché d'origine spagnola, ed era brutto come il demonio. Abitava una casa immensa, ma nera e misteriosa, composta di cento e una stanza, e aveva con sé, per servirlo, una nipotina di quindici anni, chiamata Mariedda. Mariedda era buona, bella e devota quanto suo zio era cattivo, brutto e scomunicato. Mariedda possedeva i più bei capelli neri di tutta la Sardegna, e i suoi occhi sembravano uno la stella del mattino, l'altro la stella della sera. Don Juanne voleva male a Mariedda, come del resto voleva male a tutti i cristiani della terra; e, potendo, le avrebbe cavato gli occhioni belli; ma per un ultimo scrupolo di coscienza non voleva farle danno; solo, quando essa ebbe compito i quindici anni, pensò di sbarazzarsene maritandola a un brutto uomo del villaggio. Ella però non volte acconsentire a questo infelice matrimonio, e il brutto uomo del villaggio, per vendicarsi dell'umiliante rifiuto, una notte sradicò tutte le piante del giardino di don Juanne e pose sulla soglia della casa, ove Mariedda e lo zio abitavano, un paio di corna e due grandissime zucche; e ogni notte passava sotto le finestre cantando canzoni cattive. Impossibile descrivere l'ira di don Juanne, e l'avversione che d'allora cominciò a nutrire contro la povera Mariedda. Basta dire che un giorno la prese con sé nella stanza più remota della casa, e le disse: «Tu non hai voluto per marito Predu Concaepreda (Pietro Testadipietra). Beh! Ma siccome tu devi assolutamente maritarti, preparati a sposare me». La poveretta rimase, come suol dirsi, di stucco, poi esclamò: «Ma come va quest'affare? Voi non siete mio zio? E da quando in qua gli zii possono sposar le nipoti?». «Tu sta zitta, fraschetta! Io ho dal papa il permesso di sposarmi con chi voglio, anche senza prete. E ho deciso di ammogliarmi con chi mi pare e piace. Tu pensa bene ai fatti tuoi. O quell'uomo del villaggio, o me. Ti lascio una notte per deciderti.» E se n'andò chiudendola dentro. Appena sola, Mariedda si mise a piangere e a pregare fervorosamente Nostra Signora del Buon Consiglio, perché l'aiutasse e la ispirasse. Ed ecco, appena fatto notte, le apparve una donna bellissima, tutta circondata di luce, vestita di raso e di velo bianco, con un mantello azzurro e un diadema d'oro simile a quello della regina di Spagna. Donde era entrata? Mariedda non poteva spiegarselo, e stava a guardar a bocca aperta la bella Signora, quando questa le disse con voce che sembrava musica di violino: «Io sono Nostra Signora del Buon Consiglio, ed ho sentito la tua preghiera. Senti, Mariedda: Chiedi a tuo zio otto giorni di tempo, e se in capo a questi egli non avrà deposto il suo pensiero, chiamami di nuovo. Conservati sempre buona, e mai ti mancherà il mio aiuto e il mio consiglio». Ciò detto sparve, lasciando nella stanza come una luce di luna e un odore di gelsomino. Mariedda, che provava una viva gioia, pregò tutta la notte; e il domani chiese a suo zio otto giorni di tempo. Sebbene a malincuore, don Juanne glieli concesse; intanto, perché non fuggisse, la teneva sempre rinchiusa in quella stanza remota, nella quale perdurava la luce di luna e l'odore di gelsomino. Passati però gli otto giorni, le chiese se si era decisa, ché lui voleva assolutamente sposarla il giorno dopo. Rimasta sola, Mariedda si rimise a piangere e pregare, ma tosto ricomparve quella Celeste Signora, che ora aveva un vestito di broccato d'oro e un diadema di perle come quello della Regina di Francia. «Dormi, Mariedda, e non temere», le disse con voce che pareva musica di rosignuolo. «Prendi questo rosario, che ha virtù di guarire i malati, e nella fortuna non dimenticarti di me, se non vuoi che t'incolga sventura.» E sparì, lasciando nella stanza una luce d'aurora primaverile e una fragranza di garofani. Mariedda non aveva potuto dire una sola parola. Speranzosa ed estasiata baciò il rosario di madreperla lasciatole dalla divina Signora, se lo pose al collo e si addormentò tranquillamente senza chiedersi che cosa l'indomani sarebbe avvenuto. Ma l'indomani ella si svegliò sotto un roveto, vicino ad una palude; e tosto pensò che colà doveva averla trasportata, durante il sonno, la sua Santa Protettrice. Levatasi, recitò la solita preghiera, poi si avviò verso una città che si scorgeva in lontananza, tra i vapori rosei del bellissimo mattino. Cammina, cammina, vide un piccolo pescatore che, a piedi scalzi e con la lenza sulla spalla, si recava a pescare in certi piccoli stagni azzurreggianti là intorno. Gli chiese: «Bel pescatore, in grazia, come si chiama quella città?». Il pescatore non rispose, ma si mise a cantare: Io pesco anguilla, e do la caccia all'oca; «Be'», pensò Mariedda, «siamo ad Oristano.» Cammina, cammina, entrò in città, e subito si diede a cercar una casa in cui potesse entrar come serva; ma inutilmente. Dopo tre giorni e tre notti di viavai da una porta all'altra, morente di fame e di stanchezza, non aveva ancora trovato padrona. Ma non disperava; e pregava, pregava sempre la bella Signora del Buon Consiglio, perché l'aiutasse. Ora, al quarto giorno, passando davanti al palazzo reale, vide molta gente che parlava sommessa, pallida in volto e piena di dolore. «Bel soldato», chiese ad un giovine armigero, triste anch'egli come il resto della folla, «che cosa avviene?» «Sta per morire il figlio del Giudice di Arboréa, e nessun medico può più salvarlo.» Il Giudice era il re di Arboréa; quindi il figlio era il principe reale, il più bel cavaliere di tutta la Sardegna. Mariedda fu scossa dalla dolorosa notizia e stava per dire un'Ave per il principe moribondo, quando, toccando i grani del suo rosario si ricordò con gioia che questo possedeva la virtù di guarire i malati. Senza dir nulla, attraversò la folla e riuscì a penetrare nel reale palazzo; ma un capitano delle guardie la fermò, e le chiese con arroganza cosa voleva. «Vengo a guarire don Mariano, il principe malato», ella rispose umilmente. «Ho una medicina meravigliosa che fa guarire anche i moribondi.» Allora il capitano arrogante la introdusse presso il Giudice, un vecchio re dalla barba lunga fino alle ginocchia, al quale Mariedda dové ripetere le sue parole. Il Giudice restò commosso dalla bellezza della piccola sconosciuta, e più per la sua promessa, ma le disse: «Bada, fanciulla dagli occhi di stella, se tu c'inganni, noi ti troncheremo la testa». «E se salvo il principe?» «Ti daremo ciò che vorrai.» Ciò detto introdusse egli stesso Mariedda presso il principe morente. Era tempo. Ancora pochi istanti e tutto era perduto. Ma la nipote di don Juanne Perrez mise il rosario intorno al collo del principe e, inginocchiatasi sulla pelle di cervo stesa davanti al letto, pregò fervidamente. Allora tutti gli astanti, bianchi in volto e pieni di meraviglia, videro un miracolo straordinario. Don Mariano riapriva gli occhi, i begli occhi castani dalle lunghe ciglia. A poco a poco le sue guance diventarono rosee come il fior degli oleandri dei giardini reali; la sua fronte rifulse di vita; sorrise; si alzò dicendo: «Padre mio, io rinasco. Chi mi ha salvato?». Il Giudice piangeva di gioia, piangeva tanto che la sua barba gocciolava di lagrime come un albero bagnato dalla pioggia. «Ecco!», rispose, sollevando Mariedda. «Tu devi essere una fata», disse il principe, abbracciandola. «I tuoi occhi hanno una luce di luna. Tu sarai la mia sposa.» Infatti, poco tempo dopo, cioè appena giunsero dalla Francia e dalle Fiandre i vestiti di broccato che stavano ritti da sé, tanto oro e argento avevano, e i veli e i manti per Mariedda, essa diventò Giudicessa d'Arboréa. Ed era tanto felice che cominciò a dimenticare la raccomandazione di Nostra Signora del Buon Consiglio, cioè di pregarla e ricordarla sempre, anche nella buona fortuna. Dopo un anno Mariedda aveva interamente dimenticato la sua Celeste Protettrice: il rosario miracoloso stava appeso nella reale cappella, fra altre reliquie e la Giudicessa scendeva raramente nella cappella, passando invece il tempo tra feste, cacce, tornei, e fra i canti e i liuti, e le mandole dei trovadori, che non mancavano nella corte degli Arboréa. Ora avvenne che gli Spagnoli invasero il regno di Arboréa, e don Mariano, lo sposo di Mariedda, dovette partire col suo esercito per difendere le sue terre e cacciare gl'invasori. Partì e lasciò Mariedda presso a diventare madre di un bel principino. «Addio, bella amica», le disse baciandola in fronte, prima di montare sul suo gran cavallo bianco dalla gualdrappa rossa, «sta di buon animo, e fa che al mio ritorno trovi un nuovo principino bello e forte come...» «Come te, bell'amico! », rispose donna Mariedda con orgoglio. Durante la guerra, don Mariano stette lungo tempo lontano dalla sua capitale, dal vecchio padre, dalla sposa, e questa, qualche mese dopo la sua partenza, divenne madre di un bellissimo bambino. Questo bambino era tutto color di rosa, e aveva i piedini e le manine che sembravano fiori. Bisogna sappiate, però, che vi era chi aspettava ansiosamente il giorno della nascita del bellissimo bambino, per demolire tutta la felicità della Giudicessa donna Mariedda. Era don Juanne Perrez. Sentite. Dopo la separazione dalla nipote, egli aveva cominciato a odiarla ferocemente, giurando di vendicarsi. Ma per quante ricerche facesse nel Logudoro e nelle terre vicine, nessuno aveva mai veduto né sentito parlare della fanciulla dagli occhi di stella; e don Juanne già cominciava, con malvagia gioia, a creder che se l'avesse portata via il demonio; quando, recatosi ad Oristano per le feste in occasione delle nozze del principe, vide con meraviglia e dispetto, che la sposa era Mariedda! Allora egli cosa fece? Tornò nel suo villaggio, vendé tutto quanto possedeva, e vendé persino la sua anima al diavolo, perché lo aiutasse nella vendetta; e si vestì da medico, con una lunga barba bianca, e una zimarra nera. Si vestì così perché in un vecchio libro aveva letto che talmente vestiva Claudio Galeno, un antico dottore. Così travestito, don Juanne Perrez se n'andò nuovamente ad Oristano, spacciandosi per un medico arrivato da Alemagna, e che aveva studiato a Ratisbona. E tanto disse e tanto fece, che lo accettarono per medico di Corte. Mariedda non lo riconobbe punto. Perciò, quando nacque il bellissimo bambino più sopra accennato, fu chiamato il falso medico; e il falso medico, che aspettava questa occasione per vendicarsi, nascose il bellissimo bambino, e lo sostituì destramente con un cagnolino nero, brutto e rognoso, che teneva pronto. E fece quest'azione vigliacca con tanta destrezza, che neppure Mariedda se ne accorse. Don Juanne non uccise il bellissimo bambino, ma lo lasciò morir di fame; perciò ancor oggi, in molti punti della Sardegna, la fame vien chiamata Monsiù Juanne, in memoria di questo fatto. Intanto nella Corte Reale si era immersi nel massimo dolore e spavento, perché mai si era vista una cosa simile; e Mariedda aveva la febbre dal dispiacere e dall'umiliazione. Pazienza fosse stata una popolana a diventar madre di un cagnolino nero, brutto e rognoso, Santo Iddio! la cosa sarebbe stata passabile, perché in quei tempi esistevano le streghe che si maritavano col diavolo, e da questi orribili matrimoni potevano nascere anche cagnolini e scorpioni: ma una Giudicessina, che aveva vestiti di broccato, i quali stavano ritti da sé tant'oro e argento portavano!... Basta; la cosa fu scritta a don Mariano che, per la prima volta in vita sua, pianse di dolore. E forse egli avrebbe perdonato Mariedda; ma sparsasi nel campo spagnolo la notizia destò tale ilarità e tante beffe a danno del principe nemico, che egli salì su tutte le furie, e scrisse al suo Maggiordomo che tosto pigliasse la Giudicessina col suo mostriciattolo e la portasse lontano, lontano, in luogo donde non potesse far ritorno, poiché egli la ripudiava. Il Maggiordomo obbedì; e una notte la povera Mariedda si vide trasportata lontano lontano, in una campagna deserta e silenziosa. Fra le braccia ella stringeva il cagnolino, al quale aveva posto un grande amore. Lasciata sola in quella campagna deserta e silenziosa, in quell'ora tremenda di disperazione, ella ricordò finalmente il suo passato, ricordò Nostra Signora del Buon Consiglio, e cadde al suolo piangendo, chiedendo misericordia e perdono. Allora, come nella stanza buia e remota della casa di don Juanne, ecco si fece una gran luce d'oro, e in essa apparve la Madonna col vestito bianco e il manto azzurro e il diadema simile a quello della Regina di Spagna. «Mariedda, Mariedda», disse con voce soavissima, che consolò la povera afflitta, «tu ti sei dimenticata di me, e per ciò sventura t'incolse. Ma io non abbandono gli afflitti, e sono la madre dei dolorosi» Con la fronte al suolo Mariedda piangeva e pregava. «Mariedda», continuò la Madonna, «cammina, cammina. Troverai una casa che sarà tua, e dove nulla ti mancherà. Vivi là finché sia giunto il tuo giorno e non dimenticarti più di me.» Ciò detto sparve. Sulle desolate campagne si sparse una luce di sole nascente, le siepi fiorirono, i ruscelli brillarono; un soave profumo di puleggio passò per l'aria, e una fila di merli dal becco giallo cantò su un muro vicino. Quando sollevò la fronte dal suolo, Mariedda si trovò fra le braccia non più il cagnolino nero, ma un bellissimo bambino tutto color di rosa, le cui manine e i cui piedini sembravano fiori. Per un momento pensò di tornarsene in Corte con quel bellissimo bambino; ma le parole di Nostra Signora del Buon Consiglio le stavano fitte in mente: e tosto riprese a camminare attraverso la grande pianura improvvisamente fiorita. Cammina, cammina e cammina, dopo lunghe ore si trovò davanti una bella casetta verde, nascosta in un boschetto d'aranci e rose. Dagli aranci pendevano grosse palle d'oro, e dalle rose salivano grandi fiori di corallo. Mariedda picchiò. Una serva vestita in costume, con la sottana di scarlatto fiammante, il corsetto di broccato verde-oro e un gran velo bianco in testa, aprì e disse inchinandosi: «Siete voi la padrona che s'aspettava?». «Sì», rispose Mariedda sorridendo. E da quel giorno, infatti, essa fu la padrona di quella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose. Nessuno passava mai là vicino; il mondo era lontano, lontano, eppure nulla mancava mai nella casetta: c'era sempre il pane che sembrava d'oro; l'acqua che sembrava d'argento; il vino che sembrava sangue; l'uva che sembrava grappolo di perle; la carne che sembrava corallo; l'olio che sembrava ambra; il miele che sembrava topazio; il latte che sembrava neve. E infine tutte le cose. Mariedda era felice: pregava sempre, e aspettava il giorno promesso, nel quale sperava rivedere lo sposo diletto. Intanto il bellissimo bambino, che si chiamava Consiglio, cresceva come i piccoli aranci del boschetto, e rideva e correva su cavalli di canna, ai quali, sebbene non avessero che la coda, faceva eseguire rapidissimi volteggi. Scorsero cinque anni. Un giorno, finalmente, passò vicino alla casetta verde una comitiva di cacciatori, che si erano smarriti in quelle campagne disabitate, e chiesero ospitalità a Mariedda. Immaginatevi voi il batticuore, la sorpresa e la gioia di Mariedda nel riconoscere il suo sposo nel capo di quei cacciatori smarriti! «Ecco giunto il giorno!», pensò trepidando. Ma non si fece conoscere, perché era alquanto cambiata e vestiva in costume. Però accolse graziosamente i cacciatori, fra i quali eravi anche don Juanne, il medico del diavolo. Tutti furono incantati della buona accoglienza e della bellezza di Mariedda e di Consiglio. A tavola don Mariano, che sedeva accanto alla padrona, le raccontò la sua sventura, e le disse che si era pentito del suo atroce comando, che aveva fatto cercare la povera sposa per tutti i monti e le valli di Sardegna, e che, non avendola potuta ritrovare, ora egli era l'uomo più infelice della terra, tormentato dai rimorsi e dalle ricordanze. Mariedda fu intenerita da questo racconto, e decise rivelarsi prima che i cacciatori partissero. Intanto accadde questo fatto straordinario, che dimostrò come la giustizia di Dio si riveli nelle più piccole cose. Sentite. Un cucchiarino d'oro del servizio da tavola era caduto per terra. Consiglio, che giocherellava attraverso le sedie, lo raccolse, e introdottosi sotto la mensa, così giocando, lo pose dentro la scarpina di marocchino ricamata di don Juanne. Poi se n'andò via, e dalla serva fu posto a dormire. Quando si venne a sparecchiare, si notò la mancanza del cucchiarino d'oro, e questo non si poté rinvenire in alcun posto. «Bel signore», allora disse Mariedda al principe, «io ho dato ospitalità a voi ed ai vostri cavalieri. Perché dunque mi si paga così?» E raccontò l'affare del cucchiarino d'oro, che, senza dubbio, era stato rubato da qualcuno dei cacciatori. Don Mariano salì su tutte le furie, e traendo la spada, gridò: «Cavalieri, qualcuno da qui ha rubato. Confessate la vostra onta o ve ne pentirete amaramente!». Tutti negarono: don Mariano riprese: «Bene, bei signori! Frugherò io stesso le vostre persone, e guai al traditore indegno, che ha così ricompensato l'ospitalità di questa nobile dama. Lo trapasserò con la mia spada». Detto fatto. Frugò tutti i cacciatori, e trovò il cucchiarino d'oro nella scarpina di marocchino ricamato di don Juanne. Invano questo si protestò innocente. «Messere», gli disse il principe, «voi morrete per mia mano.» E stava per ucciderlo, quando Mariedda impietosita, chiese grazia per lui, e si rivelò con grande contentezza del principe. Commosso da questa scena, don Juanne si gettò ai piedi della nipote, che lo aveva salvato, e confessò le sue colpe. Mariedda e il principe lo perdonarono; solo, in penitenza, gl'imposero di viver sempre nella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose, perché si pentisse ed espiasse i suoi peccati nella solitudine. Non sappiamo se egli veramente si sia pentito: sappiamo però che egli non si mosse più di là; mentre Mariedda, Consiglio col suo cavallo di canna, la serva col suo costume e il suo velo, don Mariano e tutti gli altri cacciatori tornarono alla Corte, dove furono accolti con grandi feste, e dove vissero lungamente felici. Mentre passavano vicino agli stagni, quel pescatore che aveva cantato quando Mariedda veniva la prima volta ad Oristano, questa volta cantava così: Uccelli che volate, che volate, ________________ (1) Questa premessa e le leggende "Il diavolo cervo", "La leggenda di Aggius", "La leggenda di Castel Doria", "Il castello di Galtellì", "La leggenda di Gonare", "San Pietro di Sorres", "La scomunica di Ollolai", "Madama Galdona", sono state pubblicate in Natura ed Arte, 15 aprile 1894. (2) «Aggius mio, Aggius mio, e quando verrà il giorno che ti porterò via in un turbine?» (3) «Pigliane e lasciane.» (4) Castel Roccioso. (5) Barbarina di Olzai, / Dove ti metteranno / Non ci vedremo mai. (6) Questo prologo e le leggende "I tre fratelli" e "Monte Bardia" sono state pubblicate in Vita Sarda, III, 10 dicembre 1893. (7) Questa leggenda è stata raccolta a Nurri, grosso villaggio del circondario di Lanusei, dalla gentile signora Maria Manca, studiosa dei costumi e delle tradizioni sarde. (8) Questa leggenda e la seguente "San Michele Arcangelo" sono state tratte da Onoranze a Grazia Deledda, a cura di M. Ciusa Romagna, Nuoro-Cagliari, 1959. (9) Leggenda pubblicata presso R. Sandon, Palermo, 1899. (10) Antico nome di Oristano. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Leggende sarde" di Grazia Deledda, Collana Italia Tascabile 8, a cura di Dolores Turchi, Newton Compton Editori, Roma, 1999 |
|