Grazia Deledda - Opera Omnia >>  Nel deserto




 

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PARTE PRIMA


I


Un palmizio le cui foglie sembravano lame di spade arrugginite dal vento marino, sorgeva tra l'ultima casetta del villaggio e la landa che finiva col mare.
Il villaggio pareva disabitato, e ad accrescere quest'impressione non mancavano qua e là alcune rovine coperte di musco giallastro e popolato di lucertole. Anche i muri della casetta del palmizio e quelli del cortile che la fiancheggiava, si sgretolavano e si slabbravano; e intorno alle finestruole dalle imposte scolorite si scorgevano le pietre rossiccie.
Ma intorno era una infinita dolcezza di paesaggio orientale; nuvole rosse come fiamme solcavano il cielo verdognolo del crepuscolo, e fra una macchia e l'altra di tamerice appariva dietro la linea verde della brughiera e la linea dorata delle dune lo sfondo violetto del mare.
Qualche uccello palustre solcava l'aria col petto iridato che pareva riflettesse i colori del paesaggio e del mare, e la brezza aveva l'odore delle alghe e dell'asfodelo.
Come usava tutti i giorni a quell'ora, Lia Asquer uscì dalla casetta e andò a sedersi sotto il palmizio, sul sedile formato da un'asse corrosa appoggiata a due ceppi. La sua figura alta e magra, dalla fine testa araba, era all'unisono col paesaggio; anche i suoi capelli nerissimi, divisi sulla fronte come due ale di corvo, avevano riflessi metallici; e col suo viso ovale e scuro ove brillava il bianco dei grandi occhi neri pieni di sogni e di diffidenza e il candore dei denti alquanto sporgenti, ella sembrava una figlia di beduini nata sotto una palma.
Per quasi mezz'ora stette immobile, con le braccia incrociate, le mani sotto le ascelle, gli occhi fissi sulla linea del mare solitario: il grembiulino d'indiana le pendeva da un lato, sul sedile, la modesta gonna nera lasciava vedere i piedi sottili e arcuati nonostante le rozze scarpette a lacci.
Un lamento di fisarmonica attraversò all'improvviso il silenzio della brughiera, come un canto d'uccello, e Lia si scosse: lagrime di desiderio e di tristezza le brillarono negli occhi, e come la sera prima, come un anno prima, come da tanti anni, ella provò un senso di desolazione e le parve di essere in mezzo a un deserto, sola.
Ma a un tratto una donna in costume, alta, scarna, col viso jeratico circondato da una benda nera, uscì dalla casetta e s'avvicinò alla fanciulla.
- Una lettera per te, rosa mia! - disse con voce aspra, traendo di sotto il grembiule una busta turchina e guardandola con diffidenza.
- Ti pare che sia di quel matto di tuo zio Luisi?
Lia non tese subito la mano, ma spalancò gli occhi, fissando la lettera, e arrossì. Il cuore le batteva forte per l'emozione dell'insolito avvenimento.
La donna non staccava gli occhi dalla lettera e non si decideva a dargliela.
- Lia, consolazione mia, sei stata tu, a scrivergli?
- Io? Mai, zia! - rispose Lia con un gesto sdegnoso.
Allora la zia le diede la lettera e accorgendosi che il viso di Lia si illuminava e che il foglio le tremava fra le mani, domandò, cupa e quasi funebre:
- È proprio di Luisi? Che vuole? È sempre pazzo? S'è ricordato, finalmente, s'è ricordato di noi?
Lia rilesse la paginetta scritta con caratteri tremolanti, e all'improvviso, come una bimba colpita da un senso di gioia, si mise a ridere nervosamente, e afferrò il grembiale della donna.
- Ah, zia Gaina mia, che cosa curiosa! Oh, se sentiste! Egli mi invita ad andare a vivere con lui a Roma.
- Leggi, leggi!
Lia curvò la testa e rilesse a bassa voce:

«Cara nipote,

«Da molto tempo non ho vostre notizie...
- Ma se è lui che non scrive da cinque anni! - disse zia Gaina, lasciandosi sedere sul sedile.
«Solo, di tanto in tanto, qualche compaesano che capita qui mi parla dei miei parenti. So quindi che tu sei diventata alta e che sei intelligente e piena di buona volontà. Senz'altri preamboli vengo quindi a dirti che io mi terrei molto fortunato se tu decidessi di venire a farmi un po' di compagnia. Vivo solo e da qualche mese sono andato in pensione: del tempo per accompagnarti a vedere la città me ne resta certo! Sarei contento che tu venissi, perché probabilmente io non tornerò più in Sardegna, e non vorrei andare a far visita al Creatore prima di aver conosciuto la mia unica nipote. Deciditi dunque. Ad ogni modo mi saprai dare presto una risposta; e con la speranza che questa sia favorevole, ti saluto di cuore pregandoti di ricordarmi agli altri parenti. Tuo zio
«LUIGI ASQUER».


La zia Gaina, dopo aver ascoltato immobile, fissando sul viso di Lia i suoi grandi occhi circondati da borse livide, si battè le mani sulle ginocchia.
- A Roma ti vuole! Adesso ti vuole, adesso che sei grande? Finchè sei stata piccola non si è ricordato mai di te; neppure quando morì tuo padre ti scrisse. Adesso che è vecchio avrà bisogno del decotto, alla sera, e penserà: ho una nipote povera che potrà servirmi g-r-a-t-i-s.
- Zia, non parlate così! - esclamò Lia con fierezza. - Se qualcuno gli ha parlato di me non gli avrà certamente detto che sono un tipo di serva, io!
- Io lo conosco, il tuo zio Luisi, rosa mia! Son già venticinque anni che non lo vedo, ma certe persone non si dimenticano mai. Egli pensava solo a sè: quando tornava a casa, nelle vacanze, pareva che ci fossero tutti i diavoli. Mandava tutto in aria, e le sue sorelle, le mie povere cugine, obbedivano come schiave. Egli disprezzava tutto, parlava male di tutto, diceva che questo paese faceva parte dell'Africa. Del paese dei mori, capisci, rosa mia! Con tutto questo, venticinque anni or sono egli s'innamorò d'una donna di questo paese, sì, proprio del paese dei mori, e la chiese in moglie sebbene la sapesse fidanzata con un suo parente. E sai chi era quella donna, lo sai, rosa mia?
Lia guardava lontano, gli occhi corruscati. Ella sapeva già quella storia, e le dispiaceva di sentirla spesso profanata da commenti della zia Gaina: ma non osava discutere con la donna che non poteva capire certe cose.
- Quella donna era tua madre! Ma essa era una donna fina, e a Luisi Asquer, che possedeva denaro ed era impiegato governativo, preferì tuo padre, che era semplice proprietario. Ma tuo padre non era un egoista, Lia, consolazione mia; tuo padre era di animo buono, era generoso, tanto generoso che morì povero. E tua madre lo preferì a quel pazzerello che per dispetto non tornò più al paese e non scrisse più, non si fece più vivo. Soltanto adesso egli si ricorda di te. Ma tu, rosa mia, tu mi darai retta, e neppure gli risponderai. Lascia che egli muoia solo e abbandonato come una fiera nel deserto!
- Solo! - disse Lia, sprezzante. - Come può esser solo in una città come Roma? Non è il nostro villaggio!
- Anche tu ce l'hai col nostro villaggio! Sì, tu parli spesso come parlava lui. E allora va! Io non sono mai stata in quei posti, ma son certa che si sta peggio che qui: e se tu andrai son certa che ti pentirai subito... pensaci bene.
- Appunto: ci voglio pensar bene. Non sono una bambina; intanto, vi prego, non parlatene con nessuno.
- Io non sono abituata a chiacchierare con le vicine! - esclamò la donna; poi tacque e fece il muso lungo, come tutte le volte che si riteneva offesa.
Lia si alzò e si mise a passeggiare su e giù per il sentiero tracciato fra le macchie. Era ridiventata pallida, e la sua testa bendata dai capelli neri si disegnava fine e altera sullo sfondo roseo dell'orizzonte.
La zia la guardava con ostilità. Ella non aveva mai sperato nulla di bene da quella ragazza fredda e taciturna, che non domandava mai consiglio a nessuno. Eccola, adesso passeggia su e giù fra i cespugli, con le braccia incrociate sul petto, e deve aver già preso la decisione di andarsene, di abbandonare il paese natìo, la zia che l'ha allevata orfana e povera, di lasciar tutto, insomma, per correre presso un vecchio egoista, in una città piena di perdizione.
- E non muterà decisone, - pensava la zia Gaina, stringendosi le mani sotto il grembiale. - Ella è testarda, e come suo zio, fa sempre il contrario di quel che le si consiglia: non c'è pericolo che dica quel che pensa!
Infatti Lia tacque, durante quell'indimenticabile sera, nè la zia, che pareva solo affaccendata a preparare il lievito per il pane dell'indomani, la interrogò oltre.
Mentre la donna versava il lievito nella corbula, e sopra la farina segnava col dito una croce, Lia rimise in ordine la cucina e la povera sala da pranzo che serviva anche da salotto di ricevimento, e chiuse porte ed usci con catenacci e spranghe, come se la casupola contenesse tesori: in ultimo prese un lume ad olio, salì la scaletta umida e scura, si ritirò nella sua camera ma non andò a letto. Non aveva certamente sonno: i pensieri si incalzavano nella sua mente come le nuvolette bianche sul cielo chiaro di quella notte primaverile. Cautamente chiuse l'uscio che comunicava con la camera della zia, smoccolò il lume d'ottone che dondolava come un'arancia e si mise a scrivere. Intorno a lei stese un cerchio d'ombra; e di tanto in tanto la camera bianca e nuda, arredata solo del lettuccio di legno, di un armadio nero e di un tavolinetto, pareva riempirsi di un lamento misterioso, talvolta flebile, talvolta ironico, sempre triste: era il canto del cuculo che penetrava attraverso la finestruola socchiusa.
Lia scriveva.

«Caro zio,

«Ho qui davanti la vostra letterina e non mi stanco di leggerla e di rileggerla. Non so dirvi l'impressione che provo, mi pare di sognare, e sono così felice che ho paura di svegliarmi. Caro zio, vi prego di non sorridere di me e di non credermi tanto semplice o tanto ambiziosa come sembro; l'idea di venire a Roma e di conoscere un parente come voi mi riempie di gioia, non perchè io aneli alla vita della grande città, ma perchè mi dà la fervida speranza di cominciare una nuova vita e di rendermi finalmente utile a me stessa ed agli altri.
«Voi non mi conoscete ancora; quando mi conoscerete non vi pentirete certo di essere stato buono e gentile con me. No, non sono ambiziosa, e neppure romantica; ma sebbene non abbia mai conosciuto altro mondo che questo, qui io mi sento come isolata e spostata, fra gente troppo povera, troppo affaticata nella lotta per la vita per potersi permettere il lusso di amare e di aiutare il prossimo. Qui noi viviamo come devono vivere i selvaggi nel deserto; ciascuno pensa a sè, e tutti ci sentiamo poveri e soli, come smarriti in una immensità desolata. Per dire il vero, la terra dove viviamo è ingrata, e per farla produrre occorrono continui sforzi di volontà e di fatica: questo spiega come qui l'uomo, in lotta con la natura, con gli elementi, con gli altri uomini, non abbia tempo di aiutare il prossimo. I più intelligenti cercano di andarsene, come avete fatto voi, zio, e qui rimangono i deboli, i più poveri; mio padre era nel numero, e non riuscì mai a migliorare la sua condizione di piccolo proprietario: quando morì, tutto il suo patrimonio consisteva in questa casupola ed in una vigna mal coltivata. Adesso la vigna è distrutta dalla filossera e la casa cade in rovina. Quando mio padre morì, un anno dopo la morte della mamma, io avevo dodici anni: ero intelligente, leggevo, desideravo studiare, seguire almeno l'esempio di una mia compagna che frequentava la Scuola normale di Sassari, e che adesso è maestra e si guadagna da vivere; ma la zia Gaina, vedova anche lei da poco e che mi aveva preso con sè, non mi permise d'assentarmi dal paese.
«Voi forse ricorderete questa donna generosa, rigida, buona in fondo, ma fatta troppo «all'antica». Se degli antichi ha la rettitudine, lo spirito di giustizia, l'istinto ospitale, tutte le buone qualità insomma, ne ha però anche tutti i difetti. Odia tutto ciò che rappresenta la civiltà e il progresso. Come una donna medievale è piena di superstizioni e di paure. Per lei tutto è peccato, tutto è perdizione; i libri sono oggetti spaventevoli; il mare segna una specie di barriera tra il nostro piccolo mondo ove, a suo parere, si rifugia ancora un po' di virtù, e il mondo vero e grande dove, secondo lei, tutto è corruzione e inganno. Io invece amo la vita, sogno i luoghi ove gli uomini lavorano e si amano: ho letto i pochi libri che appartenevano al mio babbo, e l'eco del mondo arriva qui, portato da qualche giornale, eco grandiosa e vittoriosa come il rombo del mare agitato: per ciò fra me e la zia da anni e anni dura una specie di conflitto; siamo come due mondi che si urtano ogni volta che s'incontrano, e mentre io cerco di evitare questi cataclismi, la zia Gaina prende gusto a ricercarli. Il suo silenzio, poi, è più terribile dei suoi brontolii. Stasera, per esempio, dopo l'arrivo della vostra lettera, essa non ha più aperto bocca; ma capisco già la sua ostilità che nulla varrà a vincere. Dal canto mio la mia decisione è presa: verrò!
«D'altronde la zia Gaina è l'unica persona che veramente mi ami e che io ami veramente. Compatisco i suoi difetti, frutto della sua ignoranza e non del suo carattere, e il pensiero di doverla lasciare, tanto più contro il suo volere, mi riempie già l'anima di tristezza e di rimorso.
«Ma ella sarà felice quando mi saprà felice: ella non vuole che il mio bene, ella che i ha veduto crescere orfana e sola e mi ha accompagnato nei giorni della tristezza. Io sarei una ingrata se disconoscessi i suoi benefizî; ma d'altra parte capisco che rifiutando il vostro invito mancherei al primo dovere che è quello verso me stessa. Io, qui, sono un essere incompleto, inutile a me stessa e agli altri. Non faccio niente perchè nessuno vuol niente da me: qui, voi lo sapete, il lavoro intellettuale è considerato come un perditempo: il lavoro manuale quasi come una vergogna. Io volevo almeno far la sarta, poichè non ho potuto fare la maestra, ma anche questo lavoro mi è stato proibito. Quando ho messo in ordine la casa e fatto il pane e rammendate le calze, il mio compito è finito; non mi resta che andare in chiesa, e ci vado perchè sono credente e amo Dio, ma sento che non è giusto e neppure nobile domandare l'aiuto del cielo per tutte le nostre miserie quotidiane, mentre potremmo evitarne tante con un po' di buona volontà e d'iniziativa personale. Io, del resto, vado poco in chiesa perchè amo pregare all'aperto; forse voi ricorderete che dietro la nostra casetta c'è un orticello aperto che confina con la brughiera della spiaggia, e quasi in mezzo all'orticello c'è un palmizio: ebbene, quella è la mia chiesa, ed io sto ore ed ore sotto l’arco delle fronde pittoresche, davanti al quadro del mare e della landa, e prego come non so farlo davanti agli altari. Il cielo mi sembra la vôlta di un tempio eterno, e il sole, la luna, gli astri, le sole luci degne di illuminare l'altare del Dio grande ed invisibile che noi tutti sentiamo entro di noi...
«La zia Gaina dice che io faccio questo perchè amo andare contro corrente e fare il contrario di quel che fanno gli altri. Forse è vero, e questo è il mio maggiore difetto, ma credo sia anche un difetto di famiglia. Vi assicuro però, caro zio, che se una cosa è irragionevole io non mi ostino a volerla, anche se ne ho vivo desiderio. Ho ventitrè anni compiuti, e sebbene la mia vita sia stata sempre solitaria e incolore, capisco dove comincia il bene e dove comincia il male. Accettare il vostro invito, procurare di rendermi utile, pensare un po' anche al mio avvenire mi sembra un gran bene: accetto dunque, zio, con viva gratitudine, decisa a mostrarmi degna della vostra bontà. Il vostro invito è giunto a tempo; io mi sentivo triste, oppressa, e mi pareva di appassire inutilmente come l'erba sul ciglione della strada. Qui alla donna povera non rimane che vendersi come una schiava ad un ricco contadino, o morire zitella, o sposarsi, se per inclinazione, con un uomo povero come lei, avere figli poveri, allevarli umilmente e farne uomini umili, per quanto onesti e buoni, inutili alla società. Ah, no! se io avrò figlio vorrò insegnare loro a essere uomini forti e operosi. E se non troverò marito, che la mia vita almeno non sia del tutto sterile e vuota. Ci sono anche i figli degli altri, da educare e da aiutare. Ecco perchè desideravo diventar maestra: mi pareva che avrei potuto far del bene anche ai figli non miei...

La zia Gaina battè lievemente all'uscio di comunicazione. Lia trasalì e cessò di scrivere.
- Non lasciare il lume acceso, rosa mia: sai che la Tentazione accorre dove c'è luce... Va a letto Lia, va, cuore mio.
La voce, sebbene aspra, non era più corrucciata; Lia si scosse come svegliandosi da un sogno e immediatamente capì che aveva scritto molte cose inutili al suo zio sconosciuto, lasciandosi davvero vincere dalla tentazione di lodarsi, di esaltarsi e di parlar male del prossimo. Forse lo zio sconosciuto si sarebbe formato una cattiva opinione di lei. Piegò i foglietti già pentita di averli scritti, spense il lume e andò a letto. Ma non potè dormire. Il suo pensiero viaggiava, nella notte serena, e varcava quel gran mare solitario che mandava il suo soffio potente fin dentro la nuda cameretta di lei; ma dopo alcune ore d'eccitazione e di sogni luminosi, ella sentì tutte le diffidenze e la depressione dell'insonnia; ricordò le parole della zia, le ripetè a sè stessa, si umiliò. «Adesso ti vuole, adesso che è vecchio ed ha bisogno di una parente povera che possa servirlo g-r-a-t-i-s!»
Ma la sua decisione era presa: e l'indomani rifece la lettera e dopo averne avvertita la zia la spedì.
Passarono alcuni giorni. Come una persona che nasconde una grande felicità in cuore, Lia si sentiva buona e si mostrava docile con la zia, senza per questo riuscire a placarla. Tutte le mattine la donna accendeva il forno, nella cucina dalla cui finestruola si vedeva il mare lontano, e faceva il pane che poi mandava a vendere nelle case dei benestanti del paese. Ella viveva quasi esclusivamente di questa piccola industria, e guadagnava abbastanza, tanto che ogni primo sabato del mese faceva anche «il pane di Sant'Antonio» cioè una certa quantità di focacce che un prete benediceva e distribuiva ai fedeli all'uscita della chiesa. La gente credeva ch'ella fosse danarosa e forse in seguito a questa superstizione infondata, Lia, nonostante le sue lamentele, non mancava di pretendenti.
Mentre preparava il lievito o gramolava la pasta, la zia Gaina parlava male del suo cugino di Roma, dipingendolo come uno squilibrato, e cercava di convincere Lia a non lasciare il paese.
- Dà retta a me, consolazione mia; Dio, che pensa agli uccelli dell'aria, penserà a te, anche se tu non vorrai sposare il maestro o il figlio di Maria Franschisca Barca...
- Nè l'uno nè l'altro, zia: il primo è vecchio e povero, il secondo è un ubbriacone. Prima voglio morire!
- Del resto, vedrai che tuo zio non ti risponderà più: egli è leggero e si pente subito di quello che dice. A quest'ora si sarà già pentito.
Lia non rispondeva, ma a misura che i giorni passavano le pareva di aver sognato e ricadeva nella sua antica tristezza: seduta sotto il palmizio fissava il mare violetto e le montagne rosse e azzurre del Nuorese e diceva a sè stessa che quella sarebbe stata la sola, l'eterna cornice al quadro della sua vita desolata.
La primavera sorrideva intorno a lei e circondava di fiori anche le paludi da cui i gridi dei trampolieri salivano rauchi e velati come se i nidi fossero costrutti sotto l'acqua immobile e densa.
Nelle ore del meriggio Lia guardava la landa e il mare dalla finestruola della sua camera come dalla feritoia di un castello medioevale e spiava il passaggio di qualche veliero o di qualche paranza sulla linea scintillante dell'orizzonte, o la nuvola di polvere argentea che indicava giù nello stradale lungo la costa l'arrivo della diligenza: e nelle ore sonnolenti del pomeriggio leggeva il «Muto di Gallura» e altri romanzi sardi e pensava che Adelasia di Torres, prigioniera nel castello di Burgos, doveva come lei spiare intorno, nel cerchio di roccie e di brughiere che stringeva il poggio del suo esilio, un segno di speranza, una promessa di liberazione.
Con l'anima smarrita nell'illusione di un mondo lontano ove tutto era forza e bellezza, ella non si accorgeva della selvaggia poesia che la circondava: le pareva che una palude densa la sovrastasse e che i suoi gridi si perdessero nel silenzio malefico, velati e lamentosi come lo strido degli uccelli acquatici.
Le api ronzavano tra i fiori delle macchie, l'asfodelo e le cipolle marine profumavano l'aria, il cielo era d'un azzurro intenso, quasi violaceo all'orizzonte; e su tutto il paesaggio regnava una calma profonda, infinita. Pareva davvero che una notte luminosa si stendesse su quella regione di paludi e di macchie; al cader della sera il silenzio continuava eguale, intenso, e solo il grido dei trampolieri seguiva il grido più chiaro e più triste dell'assiuolo. Ah, quel grido, sì, rispondeva al muto lamento di Lia. Affacciata alla finestruola, mentre la luna rossa tremulava come un gran fiore sopra i cespugli lungo la spiaggia, dopo aver atteso invano la lettera dello zio, ella ascoltava il grido dell'assiuolo e le sembrava che anche l'uccello, solo al mondo, senza speranze, senza amore, invocasse un aiuto pur disperando oramai d'esser ascoltato. Da anni e anni Lia lo aveva sentito chiamare così, dal medesimo punto, là dietro la grande palude che la luna, sul tardi, inargentava come uno specchio. Le pareva che l'assiuolo fosse sempre lo stesso, come lei era sempre la stessa: solo, dieci anni prima, quando ella sognava la Scuola Normale di Sassari, il grido dell'uccello era, o sembrava a lei, più giovanile, più insistente, talvolta anche disperato; adesso invece era flebile, stanco e rassegnato. Esso chiamava per sentire l'eco del suo grido e assicurarsi che viveva ancora: così, pensava Lia, così l’anima nostra: essa spera, pur sapendo che tutto è finito, per illudersi d'essere viva.

*

Ma verso la fine di aprile arrivò da Roma una lettera raccomandata con dentro un vaglia di duecento lire per il viaggio.
Mentre Lia palpava il foglietto e tremava e balbettava, la zia Gaina fissava sulla lettera i suoi grandi occhi cerchiati e sporgeva le labbra con disprezzo.
- Va pure, va pure! - disse infine, con voce lugubre. - Non passerà un mese che sarai di nuovo qui!
E per tutto il resto del giorno non parlò più.



II


Lia arrivò a Roma una mattina ai primi di maggio: aveva viaggiato con un gruppo di paesani sardi che si recavano alla capitale per deporre come testimoni in un processo di ricchi proprietari isolani imputati d'omicidio per vendetta, e tutti, durante la traversata, sapendo che ella si recava a Roma presso uno zio influente, le avevano usato gentilezze e domandato raccomandazioni. A Roma si può tutto. A Roma c'è il Re, c'è la Regina, c'è il papa: dunque tutto è facile, perchè esiste la probabilità di avvicinarsi a questi personaggi. Lia aveva promesso tutto quel che le era stato chiesto. Le pareva di essere già anche lei uno dei potenti della terra!
Era la prima volta che viaggiava, e come ai bimbi ancora ignari del mondo tutto le appariva belli e quasi fantastico: la sua testa bruna si sporgeva dal finestrino del vagone come la testolina d'un uccello in gabbia. Ma la sua gioia muta e profonda era, per così dire, un'ebbrezza lucida e cosciente; ella distingueva particolari che sfuggivano agli altri viaggiatori, e come aveva s-e-n-t-i-t-o l'immensità del mare, capiva adesso la bellezza melanconica della campagna romana tutta verde e gialla di fiori nel mattino un po' vaporoso.
Appena il treno penetrò rombando nella stazione, distinse subito, tra la folla che brulicava sui marciapiedi neri, un signore bassotto e grasso, vestito di grigio, che andava su e giù zoppicando e appoggiandosi a un bastone elegante.
- Zio Asquer! - gridò, meravigliandosi subito della sua audacia; ma venne respinta dall'urto del treno che si fermava, e gli sportelli furono aperti con violenza, e passò qualche tempo prima che i paesani coi loro cestini e le loro bisacce finissero di scendere e di aggrupparsi sul marciapiede. Ella fu l'ultima a scendere, accompagnata anche lei da una voluminosa scatola di cartone legata con una cordicella.
Il vecchio signore zoppo era fermo davanti al mucchio di cestini e di bisacce, e agitava la mano coperta d'anelli.
- Lia! - chiamò con accento sardo. - Bene arrivata.
- Siete voi, zio Asquer?
- Proprio io in persona!
Furono l'uno davanti all'altra, ma non si abbracciarono. Sebbene egli non avesse mai veduto sua nipote, gli pareva di riconoscerla, con quei suoi grandi occhi dolci e stupiti e i capelli neri lucenti; ma si meravigliava che ella a sua volta lo riconoscesse.
- Come hai fatto? Mi hai riconosciuto dal bastone? Avrai detto: mio zio Asquer è invalido: dunque è quello!
- Che dite! - ella mormorò intimidita.
Egli rivolse la parola ai sardi, e saputo perchè venivano cominciò a inveire contro gli imputati del processo.
- Canaglia siete e canaglia resterete. C'era bisogno di venire fin qui a far sapere i fatti nostri?
- L'ha voluto il Re, - disse convinto un vecchietto, caricandosi la bisaccia sulle spalle.
- Il Re? Il Re pensa proprio a voi, sardi asini.
- Ma «vostè est francesu»? - domandò il vecchio con ironia.
Lia aveva ripreso la sua scatola e guardava lo zio mortificata: egli non si mostrava davvero gentile coi suoi compaesani, anzi li fissava con disprezzo, e il suo viso rosso e duro, a metà reso immobile dalla paralisi facciale, e la sua bocca che nel parlare risaliva tutta da un alto tirandosi addietro i baffi bianchi inspidi, e anche gli occhi verdognoli, vivi e scintillanti, avevano un'espressione di sarcasmo implacabile.
Lia provava un invincibile senso di soggezione e di timore; le sembrava che gli potesse burlarsi anche di lei; e infatti, quando le guardie daziarie le domandarono che cosa contenesse la scatola, ed ella rispose «aranciata» egli disse:
- E che credevi ch'io avessi ancora i denti, per masticarla?
Bisognò aprire la scatola, che oltre il dolce durissimo, fatto di scorza d'arancio e di mandorle, conteneva alcuni oggetti di vestiario; Lia rivide la sua gonnellina per casa, la sua camicetta nera, le sue scarpette a lacci; e le parve di rivedere, con un sentimento di vergogna e di pietà, tutto il suo umile passato, esposto lì, in quel luogo grigio e rumoroso popolato di una folla sconosciuta e indifferente.
I sardi, curvi sulle loro bisacce e le loro valigie, mettevano in mostra i più celebri prodotti dell'isola; il vecchietto beffardo non voleva pagare il dazio perchè il grappolo di formaggelle dorate ch'egli portava dentro la sua bisaccia era destinato a un deputato influente: anche gli altri discutevano, e Lia dovette salutarli e andar via con lo zio.
Egli la fece salire su una carrozzella scoperta, e col bastone, mentre attraversavano le piazze, strade, viali, le indicò qualche punto della città. Ecco, quella strada dritta e luminosa, che si slanciava verso un orizzonte sereno, chiuso da montagne azzurre, era il principio del quartiere dei poveri e dei malviventi, di cui lo zio Asquer parlava come di un mondo iniquo e feroce; quell'altra al contrario, al cui confine l'arco di Porta Pia, dorato dal sole, cingeva con la sua cornice grandiosa un altro sfondo, un altro paesaggio azzurrognolo e vaporoso, conduceva, dal lato opposto, fra giardini e palazzi e fontane, alla Casa del Re. Tutto il paesaggio era popolato di fantasmi eroici e di leggende; tutto intorno era luce e rumore. Gli occhi di Lia vedevan cose fantastiche; i bambini che saltavan la corda, tra il verde e il giallo dei giardini allora intatti della stazione, le parvero grandi farfalle bianche e rosse svolazzanti fra gli alberi di un bosco; l'acqua delle fontane scintillava come il cristallo, strade interminabili si aprivano di qua e di là, da tutte le parti, con sfondi abbaglianti. E il cielo solcato di nuvole bianche le pareva più alto del cielo della sua landa, e il profumo di erba e di foglie che inondava l'aria era ben diverso dall'aspro odore della brughiera! Ella provava un senso di ebbrezza: e le pareva che gli alberelli dei viali, coperti di un verde tenero, illuminati dal sole, splendessero di luce propria, e che tutta la città fosse un giardino a cui le fioraie coi loro cestini di rose e di anemoni, e i fruttivendoli ambulanti coi loro carretti di ciliegie sanguigne e di nespole dorate, dessero un aspetto di festa. Ella ascoltava lo zio, che nominava le strade e le piazze, e si domandava se doveva ringraziarlo subito perchè l'aveva fatta venire a Roma; il viso di lui era però così duro e sarcastico che ella non osava parlare.
A un tratto, mentre egli muoveva il bastone, da destra in avanti, dicendo: «Il Ministero delle finanze, il nostro buon Quintino amico della Sardegna», ella vide, sopra una doppia fila d'alberi, un grosso signore di bronzo: pensieroso, con una mano sul petto, pareva fosse salito sul suo piedistallo per dire qualche cosa alla folla che gli si aggirava attorno; ma la folla non aveva tempo nè voglia di ascoltarlo, ed egli taceva, serio e benevolo, deciso a non abbandonare il suo posto sebbene nessuno si degnasse di guardarlo. Lia soltanto fu presa da una fulminea simpatia per lui: per alcuni momenti non guardò altro, senza nascondere la sua curiosità commossa. Sì, ella aveva sognato uno zio così, gigantesco, protettore, benevolo... Ma la carrozzella svoltò, ed ella perdette di vista il monumento. La città adesso appariva sotto un nuovo aspetto, mezzo campagna e mezzo paese, e quando la carrozza si fermò in via Sallustiana, davanti all'ingresso polveroso di una vecchia casa grigiastra, la via sterrata parve a Lia una strada rurale, chiusa da muri bassi e da siepi rossastre sopra le quali verdeggiavano canne, rami di peschi, sambuchi, fronde di salici piangenti: gli uccelli cantavano tra gli olmi fioriti, e pareva che al di là delle siepi cominciasse la campagna.
Una ragazza magra e nera, con due grandi occhi scuri e il viso olivastro, uscì correndo dall'ingresso polveroso, salutò Lia in dialetto sardo e l'aiutò a tirar giù la scatola.
- Bene arrivata, s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. Era cattivo il mare? Lo so io che cosa è quella: pare di entrare all'inferno, quando si entra nel bastimento.
- Adesso però siamo in terra; prendi la scatola e va avanti, - le impose il padrone, scendendo con precauzione dalla carrozza.
- Ah, la vostra serva è sarda? Come si chiama? - domandò Lia, seguendolo a passo a passo su per la scala.
- Si chiama Costantina. Sì, pur troppo è sarda. Così ha tutti i difetti delle serve di là e delle serve di qui...
Egli saliva lentamente, appoggiando il bastone ad ogni scalino; e Lia lo seguiva, incerta se aiutarlo o no. Ma le pareva che egli non desse importanza ai suoi malanni; appena furono nel vasto appartamento al primo piano, senza darle tempo di lavarsi e di cambiarsi, le fece servire il caffè nella sala da pranzo arredata con un certo gusto con mobili in noce e quadri che riproducevano alcune marine gialle e rosee di Salvator Rosa, e la condusse a vedere le altre stanze, fermandosi con compiacenza nel salottino verde e oro, ove la luce penetrava discreta dalla finestra socchiusa, e i vasetti di Murano scintillavano tenuemente, sui tavolini di lacca verde, come fiori coperti di rugiada; e battendo lievemente il bastone sulla frangia delle tende, la guardava e scuoteva la testa, come per dirle: i nostri parenti, certo, laggiù in quel paese di mori non vivono in mezzo a tanto lusso.
Ella si guardava attorno silenziosa: capiva il pensiero di lui, e la camera della zia Gaina, col letto di legno a baldacchino, le pareti tinte di calce, da cui pendevano come oggetti sacri i vagli, i canestri e gli altri arnesi per fare il pane, le tornava in mente: le sembrava che bastasse uscire dal salottino per trovarcisi ancora.
- Il salottino è stretto, - disse lo zio Asquer, sollevando la portiera per lasciar passare Lia. - Ma io non seguo la moda dei piccoli borghesi, che pur di avere un salotto grande, mangiano o dormono in una cameretta buia. Noi non diamo ricevimenti; eh, eh, non servono a niente.
Lia non rispose; ella non era mai stata ad un ricevimento. La camera da letto dello zio era infatti molto spaziosa, piena di luce, allegra come una camera nuziale; su tutti i mobili Lia osservò oggetti da toeletta, in osso ed in argento. La camera destinata a lei era invece così stretta che la finestra occupava tutta una parete; ma una luce vivissima la inondava, facendo risaltare i fiori d'oro della tappezzeria celeste e i ghirigori in fondo alla cameretta, si scorgevano le cime degli alberi del terreno di fronte, una fila di case gialle lontane, e uno sfondo abbagliante di cielo.
Lia guardava quasi spaventata quel nido tutto bianco e azzurro: era lì che doveva vivere? Le sembrava che non avrebbe potuto muoversi senza rompere qualche cosa.
Lo zio Asquer socchiuse la finestra e guardò nel lavabo, e all'improvviso, avvicinatosi all'uscio, cominciò a urlare come un ferito!:
- Costantina! Costantina! Dannazione di cristiani! Acqua, acqua!
La serva accorse, pallida, insolente.
- Credevo ci fosse il fuoco!
- Adesso làvati e ripòsati, - egli disse a Lia, quando la serva portò la brocca dell'acqua, - poi parleremo.
Ella rimase immobile davanti a quella finestra luminosa che s'apriva su un mondo sconosciuto, non meno deserto, per lei, non meno vasto e ignoto della landa e del mare che fino al giorno prima aveva circondato il suo orizzonte; e finalmente si svegliò dalla sua ebbrezza.
«Parleremo poi». Di che? Non riusciva a immaginarlo, non sapeva ancora che cosa lo zio voleva da lei; ma sentiva che egli le restava lontano ed estraneo, più lontano e più estraneo di quando ancora non si conoscevano.
- Non mi ha neppure domandato notizie della zia Gaina... non ha fatto altro che parlar con disprezzo dei nostri compaesani...
Procurando di non far rumore slegò la scatola; di lontano le arrivava la voce dura e imperiosa dello zio e quella insolente di Costantina, e provava un senso di meraviglia pensando alla poca soggezione che la ragazza dimostrava per tanto padrone.
Che era venuta a fare lei, presso lo zio, se c'era già una serva così svelta e ardita? La padrona? Ma una padrona non si tratta come lo zio aveva trattato lei dopo che era scesa dal treno. Egli s'era persino burlato del suo regalo! Bruscamente prese la cassettina dell'aranciata e la cacciò sotto il lettuccio; trasse la gonnellina, la camicetta, le scarpette a lacci, il grembiule a legaccio scorrevole, e rivestì quei poveri abiti che odoravano ancora dell'erba della landa e della cucina della casupola sarda; s'avvicinò all'armadio per riporre l'abito buono e si vide intera nello specchio; intera, alta e magra, nera e triste, e capì che coi suoi poveri abiti aveva ripreso il suo fatale destino di ragazza povera.

*

Sotto quest'impressione scrisse alla zia Gaina, ingrossando la calligrafia per farsi leggere da lei, ma nascondendo egualmente le sue speranze e le sue delusioni. Di là si fece silenzio ed ella pian piano aprì il suo uscio, si azzardò nel corridoio e vide la serva in cucina, in mezzo ad un mucchio di carciofi e di bucce di piselli e ad una baraonda di stoviglie sporche. Ma all'improvviso Costantina si mise a cantare, in dialetto, con la sua voce rude e monotona, come se si trovasse in riva al torrente del suo villaggio, fra le macchie del puleggio fiorito, e Lia vinse l'impressione di disgusto che la piccola cucina sporca le destava. Entrò timidamente e domandò sottovoce:
- Lo zio è uscito?
- È uscito, sì, grazie al Signore! - disse la serva, guardando con curiosità e diffidenza il meschino abbigliamento di s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. - E lei non ha riposato, vero? S'è forse inquietata perchè il mio padrone gridava? Non si meravigli, sa; egli brontola sempre, ma quando è in collera davvero, tace e fa il muso lungo.
Lia sorrise, ricordando la zia Gaina.
- Povero zio Asquer, - disse, avvicinandosi alla finestra. - È vecchio e sta male.
- Lui? Vorrei essere io, forte come lui!
- Non dire così! Quanti anni hai?
- Ne ho ventitrè, ma mi sembra di averne cento. E v-o-s-t-è?
- Io? ventitrè anch'io.
Questa coincidenza parve divertire molto Costantina; ella si mise a ridere, mostrando tutti i suoi bianchi denti sporgenti, e cominciò a rivolgere domande curiose a s-i-g-n-o-r-i-c-c-a. Lia guardava nel cortile circondato d'alte muraglie ove s'aprivano, come sulle facciate d'un castello, finestruole, feritoie, loggie e balconcini fioriti, e a poco a poco si rianimava e a sua volta interrogava la serva.
- Sei da molto al servizio di mio zio?
- Da sei mesi: egli mi prese perchè come isolana potevo far compagnia a v-o-s-t-è, che doveva arrivare dalla Sardegna. Se non avessi avuto questa speranza, dell'arrivo di v-o-s-t-è, sarei scappata cento volte. Il mio padrone è un tormento: basta dirgli; questo è bianco; perchè lui risponda: no, è nero!
- Sei da molto a Roma?
- Da un anno, signorina! Son venuta perchè ho bisogno di guadagnare, e il bisogno fa correre la lepre anche attraverso il mare.
Ella raccontò una lunga storia, di un suo fratello soldato, disertore, che era riuscito a tornarsene nell'isola e a nascondersi sulle montagne, come l'aquila scappata da una gabbia; ripreso, degradato e condannato, la famiglia s'era rovinata per lui, e la sorella, da ragazza benestante, ridotta al grado di serva... negli occhi di Costantina, mentr'ella parlava, splendeva lo stesso raggio di nostalgia che aveva spinto il fratello a disertare; e questa sua passione per la terra natìa era il difetto che maggiormente urtava il suo padrone. Ma ella sopportava tutto pur di raggranellare il suo gruzzolo e tornarsene laggiù, dopo quella sua specie di emigrazione, e riacquistare la casupola paterna venduta per le «spese di giustizia».
- Le parole del mio padrone ormai mi sembrano il muggire d'un torrente lontano...
Infatti durante la colazione egli non fece altro che rivolgersi a lei e brontolare e maledire tutte le serve del mondo.
- Canaglia siete e canaglia resterete.
Ma Costantina taceva e guardava Lia con uno sguardo ironico e rassegnato come per chiamarla a testimonio della sua pazienza: e per un po' Lia sorrise pur pensando ai casi suoi e aspettando invano che lo zio si rivolgesse anche a lei, le parlasse dei suoi progetti, le domandasse notizie della sua vita. Nulla: pareva che si conoscessero da anni ed anni e che nulla d'ignoto e di nuovo fosse fra loro. Solo, appena finito di mangiare, egli si alzò premuroso e la costrinse a ritirarsi e a riposarsi ancora.
- Va, va, cara; dopo usciremo.
Ella si chiuse nella sua gabbia dorata ma non si coricò: era stanca ma il sangue le batteva forte nelle tempie e un'inquietudine nervosa la agitava. Le pareva che i rumori della città rombassero entro di lei; e si sentiva di nuovo vivere nella vita della moltitudine e di nuovo s'abbandonava a un senso di gioia puerile.
Nel pomeriggio uscirono; lo zio Asquer zoppicava, ma era instancabile; si fermava brontolando davanti a tutte le vetrine, mentre Lia sempre assalita da un senso di ebbrezza guardava i ninnoli, i gioielli, i fiori, tentata di domandare se quelle grandi cose in colore del sole al tramonto, e quei garofani che pareva avessero preso parte a una tragedia, tanto erano schizzati di sangue, e i giaggioli in colore del mare lontano e le orchidee simili a fantastiche conchiglie, fossero fiori veri o artificiali.
Sì, tutto era vero e tutto sembrava fantastico, in quel luogo di meraviglie: anche le cose piccole ed inutili destavano piacere a guardarle.
- Tutti imbrogli, tutta roba inutile, - brontolava lo zio Asquer; ma intanto guardava anche lui, e gli anelli d'oro e i brillanti della sua mano sinistra morta e adorna come un cadavere, e i bottoni della sua camicia, e i ciondoli e il pomo del bastone brillavano riflettendo lo splendore delle vetrine.
Del resto Lia osservò che molte persone si fermavano a guardare con attenzione religiosa tutti quei fragili oggetti esposti come reliquie: un altro vecchio signore fissava col monocolo una cravatta violacea delicata come un fiore: alcune donne s'aggruppavano davanti a un ombrello dal manico d'oro; e un raggio di adorazione, più che di desiderio, brillava negli occhi di tutti.
- Un tempo - disse a un tratto lo zio Asquer - io spendevo i denari in queste sciocchezze. Visto l'oggetto e comprato; ma quando lo avevo in mano mi domandavo: perchè l'ho preso? Che devo farne? Ma, vedi, - proseguì, mentre Lia lo guardava con ingenua meraviglia, - le piccole tentazioni sono più forti delle grandi. Molta gente si rovina per il superfluo. Vedi tu tutte queste cosettine messe in fila, carine, graziose? Sai che cosa sono? Te lo devo dire? Tanti piccoli nemici. E le donne specialmente, ah, le donne, come si lasciano vincere da questi piccoli nemici! Ma anche gli uomini, non dico! Uomini e donne siamo tutti e sempre bambini; abbiamo bisogno di giocattoli, e a furia di usarne consideriamo tali anche le cose serie e persino le persone. L'amico, per esempio, l'amante ed il parente, che sono? Giocattoli, oggetti inutili, o tutto al più salvadanai graziosi, buoni a spezzarsi al momento opportuno... perciò ti dico e ti ripeto: facciamone a meno.
Ella non rispose. Che poteva dire? Non s'intendeva di certe cose; solo le dispiaceva l'accenno ai «parenti salvadanai».
Arrivati in fondo a via Nazionale sedettero avanti a un caffè, e lo zio tese di nuovo il bastone e indicò una torre e raccontò la leggenda di Nerone.
- Era un ometto che aveva buoni rognoni, direbbe un nostro compaesano. Oh, dimmi un poco, tua zia Gaina è sempre pazzerella?
Oh, egli finalmente si ricordava! Lia stanca ma beata succhiava con voluttà il suo gelato, e guardava la torre, oscura sul cielo di raso azzurro, mentre dai giardini pensili della Villa Aldobrandini il vento faceva piovere petali di rose e di glicine, e le sembrava, parlando del paese e dei parenti, di raccontare un sogno.
- Sì, ella fa il pane per vivere... È tanto buona, ma ha le sue idee... Sì, io volevo studiare per diventar maestra come Pasqua Desortes, ma la fortuna non mi ha aiutato... La casa cade in rovina; c'è molta miseria in tutto il paese... Ah, come son poveri, se sapeste...
- Lo vogliono loro! - egli disse, quasi minaccioso. - Indolenti, asini! Si meritano la loro sorte...
Convinta dell'inutilità di controbattere l'odio tenace dello zio contro i suoi compaesani, Lia non li difese: in fondo anche lei li considerava miseri, infelici, esiliati in un deserto ben lontano dal mondo civile: mondo per lei, in quel momento, rappresentato dalle vetrine, i caffè, i marciapiedi innaffiati di via Nazionale: la Sardegna era al di là di ogni orizzonte, faceva parte dell'Africa...
Ma ad un tratto lo zio Asquer s'alzò, e riprese a camminare, a guardar monumenti e vetrine; e quando ella si trovò in mezzo alla folla in una via stretta ove le donne eran vestite a festa e spandevan profumi, e gli uomini camminavano indolenti come chi non ha più nulla a fare, provò di nuovo un senso di solitudine e d'abbandono: le pareva di aver intorno una muraglia fatta di corpi umani insensibili, e sollevava gli occhi per vedere il cielo, come un prigioniero dalla sua cella. Ma dopo lungo andare si trovò improvvisamente libera in un grande spazio chiaro rallegrato da un rumore d'acque, e chiuso in alto da una fila d'alberi e da un orizzonte vaporoso.
- Piazza del Popolo: il Pincio, - annunziò lo zio Asquer.
Salirono, lenti e stanchi, e sedettero su una pietra sporgente da una nicchia, davanti a un paesaggio orientale con palme e alberi violetti su uno sfondo di cielo argenteo.
Lia sentiva un lieve capogiro; ma la gioia di muoversi, di veder ad ogni istante cose nuove, vinceva ogni altra impressione. Rientrata a casa si buttò stanca morta sul suo lettuccio, con gli occhi ancora abbagliati dallo splendore del crepuscolo e dei lumi, e le parve di essere tornata bambina, quando sognava di trovarsi galleggiante sul mare, col viso rivolto in su: era lo stesso terrore, lo stesso piacere; una ebbrezza di luce e di spazio, la sensazione di pericolo, della solitudine infinita, e la speranza di un aiuto sovrumano.



III


Ella si alzò presto la mattina dopo; sentì che anche lo zio si era alzato e che Costantina lo aiutava a vestirsi e gli lava i piedi e gli tagliava le unghie.
- Lo faccio perchè anche Gesù Cristo lavò i piedi agli Apostoli; se no, in verità, v-o-s-t-è non se lo meriterebbe, - diceva la serva con ironia, mentre egli non cessava di lamentarsi. - Fosse stato almeno giovane, lei!
- Quando ero giovane avevo cameriere autentiche, belle, grasse ed eleganti, e non straccione come te!...
- Si vede che sono tutte scappate, tanto vostè è insopportabile.
Egli diventò cupo e tacque; segno ch'era in collera davvero: allora, per farsi perdonare, Costantina gli disse:
- Che piedi piccoli ha v-o-s-t-è: io non ne ho visto mai, di così piccoli; sembrano piedi di donna, così bianchi, freschi, venati come il marmo bardilio...
Ed egli sorrideva con compiacenza, tenero alle lodi appunto come una donna.
Ma finita la toeletta si alzò e non lasciò più in pace la ragazza. Sotto il comando energico e rabbioso, ella ripulì i pavimenti, sbattè i tappeti, rimise in ordine la camera. Lia si presentò, offrendo umilmente il suo aiuto, ma lo zio la respinse.
- Perchè pago, allora? Se tu l'aiuti, quella canaglia non fa più niente!
Costantina sospirava: finse di asciugarsi il sudore con la palma della mano e la scosse e disse:
- È sangue, è sangue, come quello di Cristo! Pazienza!
Finalmente prese il cestino e andò a far la spesa. Lo zio Asquer guardò con gli occhiali se i pavimenti erano puliti bene anche sotto i mobili, se dietro gli sportelli e gli usci c'eran tele di ragno; andò in camera, lentamente, rimettendo in ordine gli oggetti spostati dalla serva; e solo quando si assicurò che nulla mancava e tutto era a suo posto parve calmarsi e uscì. Tutte le mattine andava dal barbiere, e in attesa dell'ora della colazione vagava per le strade e per i giardini come un operaio disoccupato, fermandosi a guardare le costruzioni nuove, un cavallo caduto, le vetrine dei calzolai e delle mercerie: comprava i giornali del mattino e andava a far sosta nel giardino della stazione: seduto all'ombra, in un angolo solitario, sbuffava e leggeva, tirandosi ogni tanto i calzoni sulle ginocchia e mettendo in mostra le sue calze scozzesi e i nastri ben legati delle sue scarpette. Lì per lì s'interessava a quello che leggeva, ma ripiegato il giornale non ci pesava più. La politica, i problemi sociali, l'arte, la scienza, la cronaca? Come potevano interessarlo se appartenevano ad un mondo già lontano da lui? Il s-u-o mondo egli lo portava con sè, come un carico ove eran chiusi tutti i suoi pensieri, le sue sensazioni, il suo dolore continuo, assorbente: era la metà semi-paralizzata della sua persona. Egli s-e-n-t-i-v-a più questa parte morta che la sua parte viva, era un cadavere, il suo cadavere, ch'egli portava con sè, e il cui peso lo schiacciava, lo rendeva triste, finto e irritabile. Come non esserlo, in simile compagnia? Come pensare al mondo dei viventi quando egli era già a metà in quello dei morti? Ed egli amava la vita, perchè non aveva vissuto, e tutte le cose belle del mondo, l'amore, il piacere, i paesi lontani, tutto era più ignoto a lui che a Lia medesima. Gli pareva che il contatto con le persone giovani e sane lo rendesse ancora più misero e acerbo: esse eran vive, egli era già morto. Ed egli taceva anche a sè stesso questo continuo rimpianto, ma il suo dolore senza sfogo s'incancreniva sempre più, entro il suo cuore, come un tumore maligno non curato. All'attesa della morte s'univa poi la paura d'una lunga agonia, di anni ed anni d'immobilità, e il terrore di essere assistito dalle cure di una serva. Ecco perchè aveva chiamato Lia.

*

In quei luminosi e quasi melanconici pomeriggi egli la condusse a visitare Roma, senza dimenticare un monumento, un angolo storico, uno dei punti indicati dalla Guida, come se Lia dovesse ripartire e non riveder più la Città. Un giorno presero anche la serva e andarono in carrozza fino alla Via Appia antica, al di là della tomba di Cecilia Metella. Mentre lo zio Asquer indicava col pomo del suo bastone i punti più celebri del paesaggio, e Costantina si morsicava le grosse labbra per non ridere, tanta era la sua gioia, Lia guardava affascinata i prati d'oro, interamente coperti di ranuncoli, e al di là le linee verdi della campagna seguite dai profili azzurri dei monti: tutto era armonia di luce; gli alberi scintillavano su sfondi di perla e le tombe e alcune rovine le ricordavano i «nuraghes» della sua terra lontana.
Quando smontarono, Costantina, ripresa dai suoi istinti di paesana, si slanciò nel prato a cogliere erbe mangerecce; e zio e nipote sedettero come pellegrini stanchi sul ciglio d'un tumulo incoronato di cipressi.
Il vecchio taceva, col pomo del bastone sulla guancia, il viso triste ed immobile, gli occhi perduti nella lontananza. Le allodole si richiamavano fra le rovine, i cinque cipressi del tumulo si slanciavano come raggi neri sul cielo d'ametista, e una delle loro ombre copriva Lia e si stendeva ai suoi piedi fino al prato d'oro. «A che pensa lo zio Asquer?» ella si domandava, e lo sentiva lontano da lei, più freddo, più scuro di quell'ombra. Il senso si solitudine e di abbandono che ella credeva di aver lasciato sotto il palmizio della landa la raggiunse sotto il cipresso della Via Appia. Le sembrò di essere in un cimitero; e trasalì quando lo zio Asquer le parlò.
- Muoviti, Lia; va anche tu nel prato!
- Si sta bene qui, zio!
Egli si volse lentamente verso di lei e col pomo del bastone cominciò a battersi lievemente la mano morta scintillante d'anelli.
- Lia, mi sembra che ti annoj!
- Che dite, zio! - ella esclamò arrossendo. Tacque, poi rise. - Perchè, zio?
- Almeno ne hai l'aria! Stavi meglio l-a-g-g-i-ù?
Egli indicò un punto lontano, verso l'ovest; Lia ricordò la tristezza dei lunghi pomeriggi primaverili di l-a-g-g-i-ù e si scosse tutta, come un uccellino appena svegliato.
- No, no, no, no, zio! Si sta così male, laggiù! Non c'è da far paragoni, zio!
Egli rise, piano, piano, con quel suo riso che pareva un lieve raschiamento di gola, e parve parlare al suo bastone.
- Certo, non è una gran città quella!... E dunque, Lia, parla sincero; ti piace stare a Roma?
Sì!
- Dimmi la verità, non senti la nostalgia? Ti dispiacerebbe ritornare in Sardegna?
- Perchè dovrei tornarci? Non siete contento di me, zio?
Ella attese con ansia la risposta che tardava.
- Ma un giorno o l'altro... addio, zio Asquer! Hai pensato a questo, Lia? Io feci male a non dirti subito che io non ero più svelto e pieno di salute come un giovinetto; ma avevo paura che tu credessi il mio invito dettato da un moribondo. D'altra parte, adesso, visto che tu ti affezioni troppo alla vita di città, ne provo rimorso... Lia, io non ho molti giorni da vivere, e non sono un egoista, come forse sembro...
- Perchè pensare all'avvenire? - disse Lia, pallida e turbata. - Voi state bene, e forse camperete più di me. Io, poi, sarò contenta dappertutto, basta che siate contento voi.
- Brava! Son le ragazze delle novelline educative che parlano così; ma quelle son ragazze che per lo più non esistono. Ragioniamo, invece, giacchè abbiamo cominciato; io non volli scriverti le mie intenzioni perchè tu non mi conoscevi nè io ti conoscevo, e quando due non si conoscono e fanno un progetto da eseguirsi assieme, sono entrambi o sciocchi o in mala fede. Io pensavo: lasciamola arrivare, lasciamo che ella giudichi da sè lo stato in cui io mi trovo e l'ambiente in cui ella dovrà vivere. Tu sei qui da tre settimane appena, Lia, ma credo che le cose ti sieno già apparse nel loro vero aspetto. Se io ti avessi veduto scontenta, non avrei esitato a dirti: riparti, e restiamo amici. Ma ti vedo tale e quale come quando sei arrivata, tutt'altro che pazzamente allegra, ma certo più allegra di quanto dovevi esserlo l-a-g-g-i-ù, nel deserto. Tu sei sempre eguale a te stessa, come un cielo sereno: talvolta qualche nuvola passa attraverso questa serenità un po' melanconica, ma svanisce subito senza lasciare ombra. Tu sei diversa dalle altre donne, Lia, permettimi che te lo dica: se tu fossi stata come le altre, io non ti avrei parlato come ti parlo. Non so se il tuo carattere farà la tua felicità; certo farà quella delle persone che dovranno vivere con te. Io non godrò a lungo questa fortuna; ma finchè vivrò, se tu mi starai vicina, mi parrà di poter sperare ancora... E adesso devo dirti una cosa, Lia: io non sono ricco. So che non te ne importa niente, ma importa a me. Avrei potuto mettere da parte qualche cosa, ma non l'ho fatto; ho passato la vita da egoista, pensando sempre a me; e quando uno pensa molto a sè, di solito gli altri lo abbandonano, sicuri che egli basti a sè stesso. Allora egli finisce col credersi assolutamente solo, come un eremita nel deserto, e nulla più esiste per lui tranne che lui stesso. Io sono abbastanza ricco per me, Lia: io ho una buona pensione; ma morto io nulla rimarrà. Che farai tu, allora?
- Non pensate a me, zio! No... no... non ci pensate!...
- Possiedi qualche cosa?
Ella si meravigliò di questa domanda, e rispose sottovoce:
- Mi pare di avervi già detto che ho una casupola e una vigna. Ma adesso la vigna è distrutta e la casetta è quasi in rovina.
- Che cosa fa tua zia Gaina? Ricordo che parlava molto, ma concludeva poco.
- Fa il pane per venderlo. Vive di questo.
- Tu non hai avuto proposte di matrimonio?
- Sì (ella ricordò con ripugnanza i suoi pretendenti). Due... un giovane proprietario, abbastanza ricco ma ubbriacone, e il maestro di scuola... un uomo di cinquant'anni!
- Fosse stato giovane, si poteva ajutare: ma ad un uomo di cinquant'anni, che per di più pensa ad ammogliarsi, non c'è che da porgere una corda perchè si impicchi!
Lia si mise a ridere; ma lo zio Asquer parlava serio, quasi tragico.
- Non ti venga in mente di sposare un uomo vecchio o uno che non abbia una posizione sicura: il matrimonio è l'atto più tragico della vita, e sovente le donne, sposandosi, imitano la farfalla che la fiamma attira e brucia.
Lia, che sognava l'amore senza però sperare in un matrimonio ideale, approvò con un cenno del capo, ma non osò parlare dei suoi sogni. Che lo zio fosse povero o ricco non le importava: bastava ch'egli le volesse bene e si facesse voler bene da lei.
- La povertà non è da temersi, zio; quello che è insopportabile è la solitudine... L-a-g-g-i-ù io ero sola... sola, capite... E se sposavo uno di quei due sarei stata ancora più terribilmente sola... Mentre qui, zio, la vostra bontà... il rendermi utile a voi... la vostra compagnia...
S'alzò, confusa, incapace di esprimere bene il suo pensiero.
- Bella compagnia! - gridò Costantina, che s'era arrampicata sul tumulo per cogliere una foglia d'acetosella.
E anche il vecchio si alzò e minacciò la serva col bastone; ma ella era in alto, nera accanto al cipresso nero, col grembiale colmo di erbe, e rideva inebbriata di verde e di sole, mentre i lembi del suo fazzoletto scuro svolazzavano come ali e pareva accennassero al padrone di calmarsi e lo irridessero anche.

*

Rotto il ghiaccio, lo zio Asquer dopo quel giorno cominciò a parlare fin troppo di quanto fino allora aveva taciuto. Qualche volta era allegro e domandava a Lia notizia dei suoi pretendenti, burlandosi del maestro di scuola; più sovente però tornava sul melanconico argomento della sua prossima fine, della sua scarsa eredità. La primavera calda e ventosa lo rendeva fiacco e nervoso; pareva che a un tratto egli si preoccupasse dell'avvenire di Lia più che del suo. Costantina s'immischiava nella questione, e in segreto diceva a Lia che lo zio Asquer possedeva molti denari, ma davanti a lui ripeteva:
- V-o-s-t-è morrà quando io e s-i-g-n-o-r-i-c-c-a saremo vecchie come le pietre, se prima lei non ci farà morir di bile. Quando resteremo sole metteremo su una pensione, come dicono che farà la vedova qui accanto a noi, e forse troveremo anche marito...
- Ah, certo, - diceva Lia, - a nessun costo tornerò in Sardegna.
Eppure, talvolta, ella sentiva una specie di nostalgia fisica; quando stava per addormentarsi le pareva di star seduta ancora sotto il palmizio, o affacciata alla sua piccola finestra: rivedeva la sua camera, coi quadretti appesi alle pareti bianche, quella della zia, coi vagli e i canestri, e il pozzo del cortiletto con un piccolo specchio verdastro in fondo; sentiva il ronzìo delle api, l'odore delle erbe aromatiche, e si addormentava nella pace selvaggia della landa. Anche in sogno viveva l'antica vita, ascoltava il borbottìo della zia Gaina, provava un senso di desolazione, sognava Roma! Svegliandosi provava la dolcezza di veder il suo sogno già fatto realtà. I gridi dei rivenditori ambulanti risuonavano nell'aria un po' umida del mattino: cominciava quella dell'«acetosaro», un grido melanconico, lungo e cadenzato, che pareva venisse dalla campagna ancora addormentata; seguiva quello della venditrice di ranocchie, poi quello del merciaio ambulante, infine quello del giornalaio che annunziava con una certa calma i giornali del mattino; egli non s'affrettava perchè a quell'ora la gente premurosa dei fatti proprî non s'occupa ancora dei fatti altrui.
A poco a poco le voce s'alzavano, fresche talune, altre rauche e assonnate, alcune fioche e timide, altre prepotenti e quasi minacciose; i rivenditori di frutta e di erbaggi vantavano la loro merce, alcuni gridavano con voce tenorile aggettivi sonori, ma con inflessione ironica, quasi beffandosi del cliente che prestava loro fede.
Verso la nove la strada era tutta un mercato; non mancavano i pescivendoli coi cestini colmi di pesci argentei, scintillanti, quasi ancora umidi d'acqua marina. Lia provava un gusto infantile a contemplare quel quadro colorito, animato da figure volgari ma caratteristiche. I capelli già ravviati delle serve riflettevano la luce azzurra del mattino; grosse donne in spolverina e fornite di valigie, pronte a intraprendere il faticoso viaggio di una giornata di economie, si fermavano davanti ai carretti di frutta e pesavano con la mano ad una ad una le arance mature, e le erbivendole sorridevano egualmente al cuoco dal viso d'imperatore romano e alle vecchiette che compravano esitando due soldini di cicoria. Costantina andava da un cestino all'altro, pesava le arance e sbucciava un pisello, prendeva un grappolo roseo di ranocchie, scuotendolo e arrovesciandolo come un grosso fiore carnoso; tirava su un cefalo argenteo, ne apriva le pinne, l'odorava, lo rimetteva: litigava con tutti.
Al di là del muro un uomo in camicia gialla coltivava un pezzetto di terra, due cagnolini giocavano all'ombra dei salici, e dietro gli olmi fioriti il sole illuminava una fila gialla di palazzi e di conventi.
Una mattina Lia vide alla finestra attigua alla sua un bambino di cinque o sei anni, che sporgeva e ritirava la testa, volgendosi di qua e di là curioso e irrequieto; e stette ad osservarlo intenerita, notando le sue manine affilate e nervose, il visino che pareva scolpito nell'avorio, illuminato da due grandi occhi castani e incorniciato dai capelli biondicci, lisci, lunghi sulle orecchie e tagliati a frangia sulla fronte. Vedendosi osservato egli cominciò a fare il grazioso, buttando in aria alcune briciole di pane e riprendendole con la bocca, e guardando Lia di nascosto come per accertarsi che il gioco le piaceva.
Lia gli sorrise: egli si ritrasse, poi ritornò, le fece vedere una palla rossa, poi un cavallino con tre sole gambe: ed entrambi cominciarono a sorridersi, a guardarsi, a farsi cenni di saluto, attraverso le persiane, finchè una donna non mise anche lei fuor della finestra il viso terreo di mulatta circondato di capelli neri crespi, e dopo aver fatto un cenno di saluto a Lia, tirò dentro il bimbo e socchiuse le imposte. Lia sentì il bambino protestare con lunghi strilli nervosi e andò a chiedere a Costantina notizie dei loro nuovi vicini.
- La vedova che stava qui accanto, nell'appartamento attiguo, è andata via ed è venuto a starci un signore argentino, che scrive nei giornali del suo paese. Anche lui è vedovo; ha un bambino, e una governante che non è nè bianca nè negra; ed è lei che comanda e fa tutto in casa: si chiama Rosario, come un uomo, ha un muso di cane arrabbiato.
Nel pomeriggio Lia incontrò in via Boncompagni il suo piccolo vicino e la governante bassa e grossa, vestita come le bambinaie more: abito d'indiana scura, grembiale bianco e paglietta gialla. Il bambino spariva sotto un gran cappello di paglia col nastro verde: nel veder Lia sollevò il visino e sorrise, mostrando tutti i suoi dentini che sembravano perle, ed ella si fermò, affascinata, come vinta dal desiderio di abbracciarlo: ma la donna salutò e passò oltre tirandoselo dietro. L'indomani Lia lo attese alla finestra e gli domandò come si chiamava.
- Salvador. E tu?
- Lia.
Questo nome gli parve e divertente: lo ripetè parecchie volte, come fra sè, ridendo, poi lo gridò su tutti i toni, finchè la mulatta non chiuse sgarbatamente la finestra.
Era una domenica, e nel pomeriggio Lia e lo zio andarono anch'essi a Villa Borghese. Le strade erano insolitamente animate da gruppi di serve vestite di bianco e d'azzurro, e da buoni padri di famiglia che conducevano i figli a prendere il gelato; buoni padri grassocci e vigorosi, simili, in mezzo alla corona dei loro rampolli, a quercie attorniate da promettenti quercioli.
Don Luigi Asquer brontolava, scettico e diffidente, preoccupandosi per l'avvenire di tanta ragazzaglia, chiamando incoscienti i buoni padri, incoscienti le serve, incoscienti le vecchie mamme che conducevano a spasso le figlie anzianotte e melanconiche: anche Lia si lasciava suggestionare dal malumore del vecchio e guardava con pietà ironica l'umile folla domenicale, quando a un tratto il suo viso s'illuminò di gioia. Nel marciapiedi opposto ella vedeva uno dei tanti buoni padri, che conduceva a passeggio il suo bambino: l'uomo era alto, piuttosto grasso e molle, vestito di nero e con un panama guarnito di crespo da lutto; il suo viso scuro e pensieroso, gli occhi grandi e neri, le labbra grosse sotto i piccoli baffi bruni, e soprattutto l'espressione melanconica del suo sguardo ricordavano a Lia alcuni tipi di uomini del suo paese. Il bimbo era Salvador.
Lungo via Boncompagni fu un continuo sorridersi e guardarsi, fra Lia e il suo piccolo vicino di casa; l'uomo vestito a lutto volse lo sguardo pensieroso e salutò, e lo zio Asquer cominciò a brontolare.
- Per me gli argentini han tutte le brutte qualità dei sardi; la stessa tabe spagnuola nel sangue; boria, beffe, diffidenza, quanta ne vuoi!
Invano Lia protestò; il nuovo vicino di casa aveva anche il torto di essere un giornalista, razza maledetta (diceva lo zio Asquer) che si ficca di continuo nei fatti altrui e non rispetta neanche la santità della vita domestica. Entrarono nella Villa che egli borbottava ancora; tacque solo quando, sedutosi davanti a una fontana, si mise a leggere il giornale. Il luogo era melanconico: altri due vecchi, una giovane signora e due ragazze dall'aspetto malaticcio, sedevano attorno, sul sedile circolare di pietra corrosa; guardavano l'acqua verde della vasca e parevano intenti al pianto monotono dell'acqua che cadeva dal vaso di pietra della fontana. Ma spingendo lo sguardo, Lia vedeva lo sfondo grandioso del parco, il sole che cadeva roseo attraverso gli alberi dorati, i seminaristi che giocavano a «football», rossi, sul verde del prato, come fiamme guizzanti.
Dal Pincio luminoso arrivavano soffi di musica: gridi di gioia, lamenti d'amore; attraverso il verde si vedevan piume rosee e nere svolazzanti sui capelli delle signore, e le carrozze e i pedoni giravano e rigiravano, sparivano in fondo ai viali, riapparivano, come se in lontananza vi fosse una festa, ma in un posto che la gente, per quanto cercasse, non riusciva a trovare.
All'improvviso un piccolo grido risuonò alle spalle di Lia. Ella si volse e vide il visetto di Salvador dietro il tronco di un albero, e più in là, seduto sull'erba e con un giornale in mano, l'uomo vestito a lutto. Lia accennò al bambino di accostarsi, ma egli rideva e si nascondeva dietro il tronco, e solo quando ella volse di nuovo il capo verso la fontana, saltò sul sedile, alle spalle di lei, e le disse:
- Io ti avevo veduto e tu non mi vedevi!
Lia si volse e lo afferrò per la vita, mentr'egli tentava di scappare.
- Fallo ancora, fallo ancora! - egli disse, prendendo gusto al gioco. - Io vengo di nascosto e tu mi prendi.
Ritornò dietro il tronco, saltò di nuovo sul sedile; e continuò il gioco finchè una voce calma e lenta non lo richiamò: allora Lia si volse e incontrò gli occhi pensierosi e malinconici dello straniero. Ottenuto il permesso del padre, Salvador ritornò e andò a esaminare il bastone dello zio Asquer. E lo zio Asquer non sollevò gli occhi dal giornale, ma intuì il pericolo e strinse il bastone fra le gambe. Salvador tornò da Lia.
- È una testa di cane? Perchè non la metti fra i tuoi giocattoli?
- Io sono grande e non ho giocattoli.
- Che cos'hai, allora? Nulla? E perchè il tuo papà non ti compra una chitarra?
- Io non ho papà.
- Ah, io l'ho, sì! eccolo, è quello, lo vedi? Volgiti, dunque!
Ella si volse, per compiacerlo, e di nuovo incontrò lo sguardo profondo dello straniero.
Mentre parlava, Salvador le si aggirava attorno, toccandole il cappello, i bottoni, i guanti; ma ella rispondeva a bassa voce ed egli finì con l'annoiarsi e tornarsene nel prato. Nell'andarsene, lo straniero salutò di nuovo e guardò Lia.
E per tutta la sera ella ebbe davanti agli occhi quel viso scuro, quegli occhi profondi. Nei giorni seguenti rivide spesso, dalla finestra, il bimbo e la governante mulatta; e ben presto si accorse che il vedovo ogni volta che usciva e rientrava, sollevava gli occhi, la guardava, e si volgeva anche, prima di svoltare in fondo alla strada. Allora ella provò una impressione di sorpresa gradevole, come uno che si trovi perduto in un deserto e all'improvviso sull'arida sabbia scopra l'orma d'un piede umano.
Tutto ad un tratto la sua solitudine si animò di sogni. Il vedovo non era il primo che la guardava; altri uomini, per le vie di Roma, la fissavano negli occhi, ma con occhi bestiali, e molti le offrivano di accompagnarla, costringendola ad affrettare il passo: nello sguardo dello straniero c'era invece qualcosa di fraterno, e talvolta ella aveva l'impressione che anch'egli fosse vinto da un senso di abbandono e di solitudine, come lei e come tante altre creature sole in mezzo alla folla. Ma ben presto rincominciò a diffidare. No, egli non era solo, aveva famiglia, amici, era un giornalista, cioè un uomo, secondo lo zio Asquer, conosciuto, ricercato, temuto da tutti, indifferente a tutto.

*

Intanto s'avvicinava l'estate, e lo zio Asquer, che non amava la campagna e non si moveva mai da Roma, col sopraggiungere del caldo diventò più irritabile e strano. Per non prender parte alle discussioni fra lui e la serva, Lia si ritirava nella sua camera e si metteva a lavorare accanto alla finestra, ascoltando i trilli, i canti, le grida del piccolo Salvador. Qualche volta, col lavoro in mano si sporgeva sul davanzale e vedeva il visino del bimbo che le sorrideva attraverso il vuoto fra la persiana e il muro. Un giorno egli le disse che doveva partire per il mare.
- Tu non vieni?
Ella disse di no, sospirando: per confortarla egli le promise di lasciarle in consegna il suo cavallino rotto.
Nel pomeriggio si rivedevano spesso a Villa Borghese, ove lo zio Asquer aveva preso l'abitudine di passare qualche ora al fresco davanti alla fontana. La mulatta accompagnava Salvador: col viso camuso reclinato sul petto lavorava una sciarpa di seta e pareva meditasse qualche cosa di molto fosco, mentre il bimbo giocava sul prato e di tanto in tanto correva a lei per farsi pulire le manine e il naso. Lia e lo zio stavano dall'altra parte del sedile e solo qualche rara volta scambiavano un saluto o poche parole con la signora Rosario. Anche Lia ricamava, ma spesso si incantava guardando la fontana, la cui lingua d'acqua, guizzante in alto, nel centro del vaso, pareva dicesse tante cose strane, spesso allegre, più spesso melanconiche.
Qualche volta Salvador s'avvicinava a lei, appollajandosi come un uccellino sulla spalliera del sedile, e ricominciava i soliti discorsi finchè la mulatta non lo richiamava con un grido gutturale, raccomandandogli di non dare «turbacion» alla signorina, di non essere «desobediente» nè «malo»: ed egli se ne tornava nel prato a cogliere erba per le sue pecorine di legno.
Lia non lo confessava a sè stessa, ma si annoiava: nulla, a pensarci bene, era mutato nella sua vita; l'appartamento dello zio Asquer aveva sostituito la casupola della zia Gaina, e la quercia di Villa Borghese il palmizio della brughiera. Ella si sentiva sempre sola, e si domandava dov'era l'utilità, la pienezza della vita ch'ella aveva sognato. Accompagnava lo zio con un certo senso di protezione, ma questo non le poteva bastare. Essi non conoscevano nessuno e vivevano in mezzo alla grande città come in un'isola disabitata: se qualcuno salutava lo zio, per la strada, ella domandava: «chi è?», e il vecchio rispondeva con un nome. Nomi e null'altro; orme sulla sabbia, che il vento cancellava tosto.
Dal sedile della fontana ella spiava talvolta se una figura d'uomo, alta e un po' grave, s'avanzasse nel viale come un'ombra amica; ma dopo quella prima domenica il vedovo non aveva più accompagnato il bimbo alla Villa.
Ai primi di luglio sparvero anche la governante e Salvador, e le persiane attigue a quelle di Lia furono chiuse. Roma si spopolava. Nel pomeriggio la via, battuta dal sole, ancora coperta di avanzi di erbaggi, pareva la strada di un villaggio; Lia vedeva i venditori di ciliegie che agitavano le bilancie d'ottone lucenti come lune, ricordava i cavalcanti di Gavoi, che portavano le ciliegie fino al suo paesetto, e un'ombra di nostalgia le velava lo sguardo. Ella rimpiangeva i sogni perduti; ma aveva ventitrè anni e nuove fantasticherie seguivano alle antiche. Nella sua cameretta piena di sole le sembrava di soffocare come entro una scatola di cristallo; sognava il mare, le montagne, e per quanto girasse e rigirasse per il vasto appartamento, finiva col tornare davanti al cestino da lavoro, oppressa dai suoi pensieri che pur le sembravano piccoli, frivoli e inutili come i ricami che ella eseguiva.
Un giorno, su un tavolino di caffè, vide un giornale illustrato con fotografie della spiaggia di Anzio, e mentre lo zio Asquer batteva il bastone per terra e contemplava il cielo d'un azzurro metallico, illudendosi che le tende gialle e bianche de negozî, sbattute dal vento di ponente, fossero vele gonfiate dal maestrale, ella guardò le figurine delle donne vestite di bianco, coi lunghi veli svolazzanti, i profili dei bimbi e quelli degli uomini in maglia, alcuni obesi e ridicoli, altri piacevoli a guardarsi, eleganti come statue o, se drappeggiati negli accappatoi, solenni, sullo sfondo marino, come figure di antichi sacerdoti.
Un senso s'invidia la rattristò: le pareva che quei bagnanti dovessero tutti sentirsi felici con l'anima piena di luce, di tutti i riflessi e di tutte le voci del mare. Ella non sperava di poter un giorno partecipare a tanta gioia; ma non poteva impedire alla sua fantasia di cercare, tra la folla della spiaggia, due figure a lei note. Pensava a Salvador con tenerezza materna, e le sembrava di vederlo guizzare tra l'acqua e la sabbia come un pesciolino: e accanto alla figurina del bimbo vedeva quella del padre, alta e grave, taciturna, in mezzo alla folla seminuda e garrula dei bagnanti, come quella di un esiliato.
Allora il ricordo del suo vicino di casa non l'abbandonò più; e piano piano, senza ch'ella lo volesse, l'amore nacque nel suo cuore come nasce il filo d'erba sulla roccia. Una notte sognò di trovarsi ancora davanti al suo mare selvaggio, sotto il palmizio; a un tratto la figura del vedovo apparve in lontananza e si avanzò lentamente su per il sentiero; le si sedette accanto, le prese una mano, avvicinò il viso al viso di lei e la baciò, senza dirle una parola; e rimasero così davanti al mare infinito, finchè la stessa emozione profonda ch'ella provava non la svegliò.

*

Questo sogno fu come il lievito che fermentò la sua passione fantastica. Il veleno dolce ed acre del desiderio le agitò il sangue, e un giorno, in settembre, nel rivedere all'improvviso il suo vicino di casa e nell'incontrarne lo sguardo, provò la stessa sensazione violenta che l'aveva svegliata dal sogno. Le parve che egli l'abbracciasse con lo sguardo e che le loro anime s'unissero come in un bacio. Rimase a lungo immobile davanti al cielo rosso del tramonto, vinta da un sentimento di gioia mai provato; per la prima volta, dopo anni ed anni di solitudine, sentiva il legame che la univa ai suoi simili, e le sembrava che finalmente anche per lei il mondo si popolasse di spiriti amici.
Salvador la salutò dalla finestra, sporgendo il piccolo viso abbronzato, e cominciò a raccontarle mille bugie graziose, e qualcuna anche terribile, come quella, per esempio, che un giorno stava per affogarsi.
- Ma la mia mamma, su in cielo, ha pregato « il » Dio di salvarmi.
- Ricordi la tua mamma? - domandò Lia a bassa voce.
- Sì, sì, - egli rispose indifferente. - Ero piccolo, quando è morta; adesso è in cielo davanti «al » Dio.
- Sai le preghiere?
Egli recitò l'ave-maria in spagnuolo e immediatamente dopo domandò:
- Adesso mi dai lo zucchero?
- Perchè?
- Perchè così fa la signora Rosario.
- Vieni a casa mia e te lo darò.
Egli corse a domandare il permesso, ma subito ritornò alla finestra scuotendo la testa.
- Non posso. Ora deve venire papà.
Ed entrambi attesero il ritorno del vedovo, sorridendosi di tanto in tanto, come uniti dallo stesso pensiero.
Ben presto la portinaia oziosa, Costantina, le erbivendole, si accorsero che Lia e il vedovo si guardavano con tenerezza; e la prima per speranza di lucro, la seconda per bontà naturale, le altre per curiosità cominciarono a spiare con simpatia l'idillio: solo la mulatta fece subito capire che non approvava le aspirazioni del suo padrone. Cominciò a proibire a Salvador di andare da Lia e di affacciarsi alla finestra; a Villa Borghese cambiò posto e un giorno dichiarò francamente a Costantina che il suo padrone cercava una seconda moglie, sì, ma con dote.
Costantina riferì i discorsi a Lia.
- Per farla arrabbiare le dissi, a quella cornacchia, che lei, s-i-g-n-o-r-i-c-c-a, è molto benestante, che ha tanche e bestiame e servi in Sardegna, e che se vuole può sposare i più ricchi proprietari sardi, non un forestiere che non si sa da dove venga, un vedovo con figlio, uno che oggi guadagna, ma che domani può morir di fame.
Lia arrossì e protestò, ma in breve le chiacchiere di Costantina giunsero fino allo zio Asquer e immediatamente la commedia volse in dramma. Il vecchio non domandò a Lia se nelle supposizioni delle serve e delle erbivendole ci fosse ombra di vero; ma diventò più irritabile del solito, e a tavola, a passeggio, per giorni e mesi non fece altro che parlar male degli stranieri, e specialmente degli americani del sud, che dipingeva a sua nipote come altrettanti avventurieri, astuti, beffardi, calcolatori. Ella ascoltava, inquieta e disgustata; capiva le allusioni dello zio, e nel veder il suo segreto divulgato provava come un senso di pudore offeso.
- Io non domando nulla, - diceva a sè stessa, - perchè dunque questa volgare ostilità?
E sembrandole che lo zio fosse animato, come la serva mulatta, da un solo impulso d'egoismo, sentiva un istinto di ribellione e di difesa: non si affacciò più alla finestra, nelle ore in cui sapeva che il vedovo usciva o rientrava, ma le sue fantasticherie si fecero più intense e più luminose, come le nuvole all'appressarsi del sole.



IV


Non vedendola più, Justo Villanueva, che non ostante le cattive qualità affibbiategli dallo zio Asquer era un uomo timido, stanco e nostalgico, credette che ella fosse malata o fosse ripartita: ogni volta che usciva o rientrava, sollevava gli occhi, e la finestra di Lia senza la caratteristica figurina di lei gli sembrava una cornice da cui fosse sparita una immagine prediletta.
Salvador parlava di Lia ma senza preoccuparsene troppo; la mulatta, più astuta del cavaliere Asquer, si guardava bene dal riferire al padrone le chiacchiere della portinaia e di Costantina.
Un giorno, verso la fine di settembre, Justo s'era appena seduto a tavola, nella sala da pranzo la cui finestra era appunto attigua a quella di Lia, quando la mulatta, dopo averlo servito con aria truce, tese l'indice verso Salvador.
- Lo guardi bene, e gli domandi che cosa ha fatto stamattina.
Salvador, di solito sfacciato, chinò la testa e chiuse gli occhi per sfuggire lo sguardo paterno.
- Che hai fatto?
Silenzio, seguìto dalla domanda ripetuta più energicamente. Allora Salvador scoppiò a piangere e mormorò fra i singhiozzi:
- Ho rubato.
Il padre, quasi sempre molle e affettuoso col bimbo, si turbò: guardò la donna come per rinfacciarle la colpa di Salvador, e fu a lei che domandò:
- Che cosa? Dove, come, come?
La storia era breve: passando accanto ad una fruttivendola, Salvador aveva rubato una pera: ma i commenti furono lunghi, e il padre si sdegnò maggiormente quando il bimbo, per difendersi, disse che «aveva veduto un altro ragazzo prendere c-o-s-ì una pera».
- Anche bugiardo! Sì, chi è bugiardo è ladro!
Per castigarlo lo mandò a mangiare in cucina: e tutti rimasero scontenti, la mulatta perchè trovava il castigo troppo mite, Salvador perchè lo trovava troppo duro, il padre perchè una nuvola nera passava davanti alla sua fantasia inquieta.
«Mio figlio ha rubato!» Egli ricordava davvero, fra i suoi ascendenti spagnuoli, qualche tipo di avventuriero: sua moglie era stata una donna nervosa, morta giovanissima per anemia cerebrale: egli quindi vedeva talvolta il suo bimbo come circondato da una fitta caligine, e provava un'angoscia paurosa perchè si sentiva impotente a strapparlo al suo destino fatale. Egli, che nei suoi articoli dava consigli ai potenti della terra e insegnava come si devono governare i popoli, si sentiva incapace di educare un bambino: spesso, come aveva fatto quel giorno, parlava a Salvador di doveri, lo minacciava, lo supplicava come un uomo già fatto; ma si accorgeva che le sue parole gravi cadevano nell'anima lieta del bimbo come sassi nel mare.
Mentr'egli sentiva nella sua modesta colazione un sapore di veleno, Salvador, in cucina, già rideva e rifaceva i versi della signora Rosario.
Justo suonò, sollevò il viso severo e incontrò lo sguardo bieco della mulatta.
- Perchè il bambino fa chiasso?
- Perchè è cattivo.
- Fatelo tacere!
Ma dopo un momento le risate e i trilli gorgheggiarono ancora: per frenare la sua collera paterna, il vedovo passò nel salottino, si mise a fumare e pensò a Lia. Ella gli piaceva: si sentiva attirato a lei quasi da una affinità di razza, e l'affetto che ella dimostrava a Salvador era già un tenue filo che li univa attraverso uno spazio sconosciuto. Come avvicinarla? Come conoscerla? Questi quesiti gli fecero dimenticare il problema dell'educazione di Salvador. Lo calmarono e lo confortarono. Egli era già grato alla sua vicina per il peso che gli toglieva.
Nel cortile melanconico si spandeva il canto di Costantina che lavava i panni alla fontana: la sua voce cadenzata e nostalgica vibrava come un grido di prigioniero, e il suo stornello in dialetto logudorese ricordava i mori, le barche dei pirati, e diceva d'una dona «hermosa» che si affacciava a una «ventana» fiorita di «graveglios».
Justo, ascoltandola, pensava di nuovo ai suoi avi spagnuoli, ma con un senso di nostalgia, col desiderio di cambiar vita, di ricostruire l'edifizio rovinato della sua famiglia.
Anche sopra il cortile, sullo sfondo delle bianche e gialle nuvole di settembre, le rondini passavano e ripassavano, garrendo con gridi di richiamo, quasi per avvertirsi scambievolmente che era tempo di cambiar aria, di partire per lidi lontani.

*

S'inoltrava l'autunno, e Lia si sentiva vincere giorno per giorno da una melanconia insolita. Lo zio Asquer quando non parlava degli stranieri, la fissava con uno sguardo cattivo, e vedendola sempre più magra e pallida muoveva le labbra per dire qualche cosa, ma poi si frenava e nello sforzo il suo viso si contraeva più del solito, con macabra ironia.
Se la nipote usciva sola, al ritorno erano domande aspre, dispettose, allusioni a un suo possibile incontro col vedovo; più di una volta ella trovò le sue poche carte smosse e capì che lo zio aveva frugato in cerca di qualche lettera amorosa. Ella invece evitava Justo, e se incontrava il piccolo Salvador lo abbracciava arrossendo, vinta da un turbamento puerile, come se il bimbo fosse l'uomo a cui ella, senza volerlo, pensava continuamente.
Un giorno, in ottobre, andò sola a Villa Borghese, e sedette accanto alla fontana, nel medesimo posto ove per la prima volta il suo sguardo s'era incontrato con quello di Justo. Nulla era mutato intorno: pareva fosse la stessa stagione, col cielo azzurro sparso di nuvolette bianche, gli stessi preti rossi sul verde dei prati, gli stessi tipi di sognatori attorno allo specchio verdastro della fontana: ma Lia si sentiva mutata e le pareva che l'autunno fosse dentro lei. Quante illusioni cadute! Chiudendo gli occhi le sembrava di vedere la figura della zia Gaina, sotto il palmizio, e ne ascoltava ancora le profezie.
A un tratto, però, una fiamma le colorì il viso e il suo cuore cominciò a battere con violenza. Salvador correva verso di lei e in fondo al viale sparso di foglie dorate si avanzava la figura attesa tante volte invano. Il bambino saltò sul sedile e le disse:
- Sono col mio papà: ti cercavano ed io sapevo ch'eri qui!
Lia lo strinse a sè mormorò qualche parola, ma senza sapere quello che si dicesse, colta da un senso di spavento. Le pareva di sognare: Justo le si era fermato davanti, l'aveva salutata, s'era seduto accanto a lei. Ella vedeva come attraverso un velo i grandi occhi di lui, d'un nero verdognolo, fissarla con curiosità e con bontà, distingueva le labbra di lui, un po' pallide, i denti bianchi e forti ma alquanto irregolari, e pensava con terrore a quel che avrebbe detto lo zio Asquer se avesse saputo...
Ma a poco a poco si rinfrancò: Justo le parlava di cose indifferenti, le diceva che la governante aveva la febbre reumatica e che quindi gli toccava di farne le veci.
La sua voce velata e cadenzata e il suo accento che rassomigliava alquanto a quello dei veneti sembravano a Lia ironici e benevoli nel medesimo tempo, e non le dispiacevano.
- Non le pare che ci sia troppo umido, qui, signorina?
Ella si guardò attorno e rispose gravemente:
- Sì, forse c'è troppo umido.
Justo parve allarmarsi, come per un imminente pericolo; guardò Salvador e disse:
- Cerchiamo un altro posto.
Ma Lia non si mosse, fredda e rassegnata.
- Dovunque vada, in questa stagione c'è umido da per tutto...
- Le viene spesso qui, signorina?
- Sì... cioè no... Qualche volta!
- Questo è il suo posto favorito?
Ella pensò ancora allo zio Asquer, ebbe paura, poi si fece coraggio.
- Sì, - disse sottovoce.
E Justo abbassò gli occhi, timido e pensieroso, mise una gamba sull'altra e col bastoncino cominciò a battere ostinatamente la suola della sua scarpa, come per provarne la resistenza.
Il picchiettìo del bastone risuonava nel luogo solitario. Finalmente egli domandò, con un sospiro:
- Non si annoia, signorina?
- Oh, no! perchè dovrei annoiarmi?
- Perchè la monotonia annoia. Non c'è cosa che guasti lo spirito come l'abitudine di far sempre le stesse cose, di pensar sempre alle stesse cose.
Ripresa da un senso di diffidenza, Lia guardava di sbieco l'uomo non più giovanissimo, grande e indolente, sedutole accanto, e si domandava se era lo stesso a cui pensava: all'improvviso sentì vergogna dei suoi sogni fantastici e riacquistò tutto il suo spirito di contraddizione.
- E lei, - disse con dispetto, - non fa sempre le stesse cose? Sieno pure variate, non sono sempre le stesse?
- Oh no, signorina! S'io farò un viaggio in Sardegna non sarà la stessa cosa come un viaggio in Grecia.
- Viaggio l'uno, viaggio l'altro! - ella ribattè, anche offesa dal paragone che non le pareva lusinghiero per la sua isola.
- Lei è pessimista, signorina!
- Tutt'altro! Le ripeto che non mi annoio, sebbene giudichi la vita monotona, eguale dappertutto.
- Lei giudica così la vita perchè è monotona la s-u-a vita, signorina; noi giudichiamo tutto attraverso il nostro temperamento: spesso ci sbagliamo.
- E lei, scusi, come può g-i-u-d-i-c-a-r-e la mia vita?
- È facile, signorina! Dal suo viso. Ella ha un viso da araba, che riflette, direi, la solitudine del deserto.
Lia arrossì e come assalita da un'angoscia improvvisa sentì le lagrime velarle gli occhi; ma volse il viso dall'altra parte e richiamò Salvador che giocava nel prato.
Justo s'accorse del turbamento di lei e tacque; ma dopo qualche momento le domandò con voce mutata, titubante, come se il trovare le parole italiane gli fosse più difficile del solito:
- Lei dunque non cambierebbe vita?
- E perchè no, - ella disse, scherzando, mentre il cuore le batteva forte. - se mi offrissero di diventar milionaria accetterei subito.
- Crederebbe di diventar felice?
- Non si trattava di questo, ma semplicemente di cambiar vita.
Discussero alquanto sull'eterno tema della ricchezza e della felicità; e Lia ripeteva ingenuamente le teorie dello zio Asquer, contraddicendosi e facendo sorridere spesso il vedovo, che la guardava fisso, e la trovava graziosa, ingenua, semplice, ma non riusciva a spiegarsi quell'espressione di tristezza e di diffidenza che spesso velava gli occhi di lei. Ma ella finì col dire:
- L'uomo o la donna, poveri, sono soli, sempre così soli! Si dà loro l'elemosina, talvolta, ma nessuno concede loro amore.
Egli sorrise.
- Eppure anche i poveri si amano, si sposano, e formano anche numerose famiglie; le più numerose, anzi!
- Non parlo di quest'amore! - ella disse, arrossendo; poi tacque e sfuggì lo sguardo di lui che si era improvvisamente animato.
Dopo quel giorno si rividero spesso, ritrovandosi al medesimo posto, alla stessa ora, quasi si fossero dato convegno. Lia ben presto si accorse che egli voleva s-t-u-d-i-a-r-l-a, e a sua volta non perdeva una parola dei discorsi di lui. Egli le raccontò ch'era d'origine spagnuola: suo padre, medico, stabilitosi a Buenos Aires con la speranza di formarsi una buona clientela era morto giovane, d'un'infezione malarica, lasciando il figlio orfano e solo. Il ragazzetto aveva fatto di tutto; l'operaio, il fattorino, il tipografo, il correttore di bozze, poscia lo stenografo e il cronista. La sua natura un po' indolente lo portava a sognare con nostalgia l'Europa: da dieci anni viveva a Roma, e la sua giornata passava, altrettanto monotona quanto quella di Lia, tra il caffè Aragno e la sala dei corrispondenti. Alla notte scriveva articoli di politica europea per i giornali di Buenos Aires; soffriva d'insonnia, e più che i destini delle nazioni e le loro alleanze e le loro guerre, lo preoccupava l'avvenire di Salvador.
Un giorno, poichè egli si lamentava dell'inettitudine della mulatta a educare il bambino, Lia gli domandò perchè non lo metteva in collegio o non lo affidava ad un'istitutrice.
Il vedovo odiava i collegi; pensava però ad una istitutrice.
- Mi deciderò a cercarla se non riuscirò a farmi amare da una donna che vuol bene a Salvador e che potrebbe fargli da madre.
Ella lo guardò, timida e dolce, ma anche diffidente, e domandò esitando:
- Chi sarebbe?
- Lei lo sa, signorina!
Lia chinò gli occhi, e prima di rispondere parve raccogliersi, interrogando un'ultima volta il suo cuore. Justo non cessava di guardarla, e il viso di lei, illuminato dal sole, gli parve rischiarato da una luce interna.
- Lia, - pregò, timido come un fanciullo, - mi risponda...
- Allora, senta, se non le dispiace, parliamo sul serio, - ella disse finalmente. - Sa lei chi sono? Sono orfana e povera: sono ignorante.
- Se lo fosse non lo direbbe! Ma ella forse vuol dirmi che anch'io non sono un grand'uomo, nè celebre, nè ricco!
Lia si mise a ridere.
- Sarebbe bella che io pretendessi tanto. Lei mi onora fin troppo... volendomi bene, abbassandosi a me!
E il ricordo dello zio tornò ad oscurarle il viso.
- Mio zio, - ricominciò, imbarazzata, - non sarà forse troppo contento che io lo abbandoni così. Ma bisogna scusarlo... È vecchio, è originale e malato... Io non ho altri parenti che lui; sono sola e povera, le ripeto...
- Se non vuol farmi dispiacere non insista! L'essenziale è che ella mi voglia bene, e che voglia bene al mio bambino.
- Questo sì! Questo sì! - mormorò Lia con fervore. - Ho voluto bene a Salvador fin dal primo giorno che l'ho conosciuto. Oh, stia sicuro per questo, saprò educarlo, guidarlo. Sarò felice di aver finalmente uno scopo nella vita: è questo il mio sogno. Da ragazzetta sognavo di diventar maestra perchè, nel mio paesetto, non vedevo altra possibilità di rendermi utile agli altri ed a me stessa. Passavo per un'originale ed ero antipatica a tutti. E forse lo sono ancora...
- A me no!
Lia tacque, sembrandole ch'egli l'ascoltasse, al solito, benevolo ma anche un tantino ironico. Vedendola pensierosa, egli però le disse:
- Io non capisco perchè lei parla sempre di sè con disprezzo: si direbbe ch'ella non conosca sè stessa, le forze occulte, le bellezze, la luce che nasconde la sua anima. Mi dà l'idea di uno che si ostina a tener chiuse le finestre della sua casa, e rimane al buio, mentre fuori una luce meravigliosa inonda l'aria. Apra, apra un po' le finestre, Lia, non dica che è povera e ignorante, mentre è ricca di fede e di intelligenza...
Ella ascoltava, pallida, commossa: se egli le avesse rivolto le più ardenti frasi d'amore non si sarebbe turbata così. E cominciò a raccontargli il suo melanconico passato, e com'era giunta a Roma col sogno di cambiar vita.
- Ma mi trovai come davanti a un muro insormontabile. Mio zio è buono, è intelligente; ma non mi ama abbastanza per capirmi. La mia vita, qui, è simile a quella che conducevo al mio paese: i giorni passano ugualmente inutili...
- Ebbene, non passeranno più così... se ella vorrà!...
- Oh, se lo vorrò! - ella disse, alzandosi.
Era tempo di andarsene: il sole era tramontato, e solo un angolo della vasca brillava, come se dentro l'acqua ardesse un lume. Justo prese Lia per la vita, ed ella, nonostante il terrore che provava pensando a suo zio, lasciò fare: e così se ne andarono, attraverso i viali più solitari, sotto l'occhio della luna che saliva grande e rosea sul cielo verdastro.
Lia non dimenticò mai quella sera: sentiva un'ebbrezza profonda, non perchè aveva trovato un uomo che la amava, ma perchè quest'uomo le prometteva una vita nuova. Le pareva di esser già un'altra donna; di essersi liberata da un laccio.
Ritornarono assieme a casa, passando sotto le mura illuminate dal crepuscolo glauco e rosso; le foglie cadevano dagli alberi, gialle, simile a fiori appassiti; in lontananza i cristalli delle finestre brillavano come lastre di smeraldo; tutto era dolce, luminoso e melanconico come l'amore di Lia.
- Allora a domani, - disse Justo, camminandole a fianco con la sua andatura un po' lenta e quasi stanca. - Porterò a suo zio tutti i miei documenti, perchè prevedo che per lui le sole mie parole non basteranno!
L'ingresso e la scala del palazzo erano deserti: i due fidanzati salirono assieme e quando furono davanti all'uscio di Lia Justo la strinse a sè e la baciò sulle labbra: e lei non protestò per paura che lo zio la sentisse.

*

L'indomani Justo mandò la mulatta a domandare se il cavalier Asquer poteva riceverlo; la donna andò, cupa in viso, e rispose con aria tragica che il cavalier Asquer, sebbene si sentisse poco bene, avrebbe ricevuto il signor Villanueva alle tre pomeridiane.
Lia, in camera sua, aspettava inquieta, oppressa da un triste presentimento: lo zio non aveva aperto bocca; ma ov'egli passava, trascinando il suo piede e il suo bastone, si spandeva come un'aria di temporale: ella pensò di scrivere a Justo pregandolo di rimandare ad un altro giorno la sua visita, ma non ne ebbe il coraggio, e neppure osò muoversi quando egli suonò. Costantina corse ad aprire e fece passare Justo in salotto: subito dopo il picchiettìo del bastone dello zio risuonò nel corridoio. Lia sentì un'angoscia profonda; con uno sforzo di volontà riuscì a calmarsi, e in punta di piedi andò nella sala da pranzo, che comunicava col salottino. Costantina stava già ad origliare; ma appena vide la padrona le corse incontro, l'afferrò per le braccia e le mormorò sul viso:
- Signorina! È venuto per chieder la sua mano!
- Va, va! - supplicò Lia, appoggiandosi all'uscio, con la testa bassa e le braccia abbandonate lungo i fianchi quasi stesse per svenire.
Lo zio Asquer parlava con un accento che Lia non gli conosceva ancora: con voce sorda, che egli invano cercava di rendere fredda e sarcastica.
- Tutto questo va bene: ma, caro signore, pensi che lei ha un bambino e che anche Lia è una bambina. Essa non conosce le difficoltà della via, e tutto perciò le sembra facile: oggi ama il bambino perchè è carino, grazioso, perchè non le dà fastidio e perchè... insomma, i bambini piacciono a tutti. Ma domani... domani, diventando matrigna, il fanciullo le apparirà sotto un diverso aspetto... Non so se Lia potrà assumersi la responsabilità di educarlo, di compatirlo... Lei mi capisce... E non so se Lia sappia...
- Capisco. Ma la signorina sa tutte queste cose, e a sua volta le capisce benissimo, e accetta coscientemente tutte le responsabilità che il suo nuovo stato necessariamente le porterà.
Seguì un inquietante silenzio.
- Ah, Lia sa? Dunque... sa?
- Eh, certo! Vuole che io venissi qui senza prima aver interrogato la signorina Lia?
- Ha fatto bene! mia nipote però, ne convenga, doveva anche avvertirmi. Ci avrebbe forse risparmiato uno sgradevole colloquio. Perchè io, glielo dico francamente, sono contrario a questo progetto.
- Per quali ragioni?
- Anzitutto la differenza d'età. Lia ha poco più di vent'anni, lei avrà passato i quaranta...
- Non ancora, cavaliere! - disse Justo con voce sarcastica.
- Eppoi il bambino, le ripeto! Eppoi la differenza di condizione, di educazione, di abitudini, di principî, fra lei e mia nipote, eh, eh...
A questo punto lo zio Asquer fu assalito da una tosse nervosa e stridente che gli impedì di proseguire; per rispondere Justo aspettò che la tosse cessasse, e così passarono di nuovo alcuni momenti di silenzio imbarazzante, penoso. Finalmente la tosse diminuì, senza cessare del tutto, e il pretendente disse con voce mutata:
- Se si cercassero sempre queste cose, pochi matrimoni si combinerebbero. D'altronde non credo esista questa grande differenza. Io ho sempre fatto una vita modesta, tranquilla, e non credo che la signorina Lia possa, cambiando stato, cambiare abitudini. Sono anzi certo che fra me e lei esiste una grande affinità di gusti, di sentimenti, di aspirazioni. Non si meravigli se... alla mia età... parlo ancora di aspirazioni. Se son qui, - aggiunse con finezza, - vuol dire che ne ho ancora...
- Le condizioni... le condizioni... economiche... - ricominciò lo zio con voce stridente; ma di nuovo la tosse gli impedì di proseguire.
Lia fu assalita da un'agitazione nervosa: le parve che lo zio tossisse apposta per non spiegarsi bene e per non permettere all'altro di spiegarsi.
Infatti Justo taceva di nuovo.
- Ma perchè lo zio non vuole? - ella si domandava. - Perchè? Si direbbe che egli lo faccia per dispetto.
E come un'ombra cupa la avvolgeva.
A un tratto squillò il campanello del salotto e Costantina, che era andata ad origliare all'uscio del corridoio, entrò senz'altro, presa anche lei da un vago presentimento.
- Portami un po' d'acqua, - disse il vecchio.
Ella corse in sala da pranzo, prese il bicchiere, s'avvicinò a Lia.
- Se lo vedesse com'è! È livido in viso dalla rabbia.
Gli portò l'acqua, ma la tosse non si calmò. Justo taceva, e Lia, appoggiata all'uscio, rabbrividiva di angoscia, come se là dietro si svolgesse, non una semplice discussione per una domanda di matrimonio, ma una scena dolorosa.
Finalmente il vedovo, sempre più timido, riprese quasi sottovoce:
- Se ella parla delle condizioni economiche del nostro futuro «ménage», sono in grado di rassicurarlo completamente. So che la signorina Lia non possiede niente. Ma io sono in grado di mantenere decorosamente una famiglia.
- E poi? - domandò il vecchio. - Appunto perchè Lia non ha niente e in caso di sventura non sarebbe capace di guadagnarsi da vivere, appunto per questo essa ha bisogno, per crearsi una famiglia, d'una posizione sicura...
- Io non penso a morire, per quanto non sia giovanissimo come il marito ch'ella desidera per la signorina Lia...
- Non siamo noi che pensiamo alla morte, caro signore! È la morte che pensa a noi... Eh, eh, eh...
Fu riassalito dalla sua tosse strana, che però cessò subito completamente. Ma un'esclamazione di Justo, un suo lieve grido di sorpresa e di dolore, fece sobbalzare Lia.
Qualche cosa di spaventoso doveva essere accaduto dietro l'uscio. Ella aprì ed entrò. Curvo su un fianco, col gomito affondato sul divano, la testa riversa, il bastone fedele abbandonato sull'altro fianco, lo zio Asquer giaceva svenuto. Il suo viso paonazzo e contorto pareva sogghignasse, ad occhi chiusi, a bocca aperta. Si vedeva l'oro dei suoi denti falsi, e alcune goccie di saliva gli inumidivano i baffi.
Curvo su lui Justo cercava di sollevarlo: non parlava, ma un tremito gli agitava le mani.
- Dio, Dio, è morto? - disse Lia a bassa voce, ancora paurosa che lo zio la sentisse.
- No, no. Non si spaventi. Lasci far a me: bisogna che la testa stia giù. Poi correrò per chiamare il medico.
La respinse, slegò la cravatta e tolse il colletto al vecchio; poi cercò di adagiarlo a testa bassa sul divano. Il bastone scivolò sul tappeto e Lia si chinò, lo raccolse, levò i cuscini che ingombravano il divano: nè lei nè Justo pronunziarono più una parola.
Quando il vecchio fu adagiato alla meglio, il vedovo uscì rapidamente per andare a chiamare un medico; allora Costantina entrò, si accorse della disgrazia e il suo grido acuto risuonò per tutta la casa.



V


Lo zio Asquer visse ancora qualche mese, ma quasi completamente paralizzato: non riusciva che a far qualche passo, sostenuto da Lia e da Costantina, e parlava a stento. Spesso, irritandosi contro la sua impotenza, arrossiva, batteva il bastone per terra e piangeva infantilmente di rabbia.
Ormai la maschera era caduta; egli non fingeva più, non lottava più, vinto dalla fatalità misteriosa tanto temuta e invano scongiurata.
Del matrimonio di Lia non si parlava più; pareva che lo zio Asquer avesse completamente dimenticato la visita di Justo, il discorso interrotto in modo così tragico; e i fidanzati, quasi presi dal rimorso di aver causato loro la disgrazia, e d'altronde sapendo l'infermo condannato a morir presto, per non irritarlo non lo molestavano più.
Fu un inverno lungo e triste per Lia. Ella non usciva mai perchè lo zio s'irritava quando ella era assente; e lo stato di lui le dava un senso di oppressione; tutto le appariva triste, pauroso, come se la morte si nascondesse negli angoli della casa; lo stesso suo amore per Justo e la speranza di cambiar presto vita, non la rallegravano più. Protetti da Costantina, i due fidanzati si vedevano di notte, quando il malato era già a letto: Justo entrava e usciva come un ladro, senza far rumore, e siccome lo zio Asquer spesso si svegliava agitato, quasi conscio della presenza di un estraneo in casa sua, e chiamava Costantina domandandole chi c'era, i due fidanzati parlavano sottovoce, seduti in un angolo nella penombra della sala da pranzo. Il loro discorsi non erano sempre allegri; essi non osavano parlare dell'avvenire, e quindi risalivano sempre al passato; ma a Lia pareva che solo i ricordi evocati da Justo fossero interessanti. Quando però egli raccontava qualche sua avventura amorosa, ella provava di nuovo un senso di solitudine, di abbandono: di nuovo, come quel giorno davanti alla fontana, l'uomo sedutole accanto le sembrava uno sconosciuto, un compagno di passaggio; ed ella si credeva una delle figure di cui egli rievocava l'immagine già lontana e sbiadita.
Costantina origliava dietro l'uscio e i suoi grandi occhi neri brillavano nella penombra, maliziosi e sognatori. Quando il padrone la chiamava e la interrogava sospettoso, per vendicarsi della diffidenza di lui ella s'attardava nella camera lasciando liberi gli innamorati: Justo naturalmente ne profittava per stringer a sè la fidanzata riluttante e baciarla sulle labbra. Ma neppure allora Lia si sentiva unita a Justo come aveva sognato; il pensiero dello zio che soffriva, e tutto ciò che v'era di ignoto e di estraneo a lei nel passato del vedovo, la separavano da lui.
In marzo egli stette alcuni giorni a letto con una lieve bronchite, e Lia andò a trovarlo nella sua camera. Allora lo sdegno geloso lungamente represso della signora Rosario scoppiò implacabile: senza dirne il motivo ella dichiarò che se ne sarebbe andata alla fine del mese; e siccome Justo si lamentò con Lia, Costantina al solito si immischiò nella faccenda e dopo aver tentato invano di convincer la mulatta a rimanere, la caricò d'insulti e minacciò di romperle la testa. O per la paura delle minaccie o per vendicarsi delle offese, la governante se ne andò all'improvviso, prima del giorno fissato.
Costantina s'incaricò di accompagnare Salvador a scuola, e si aggirò tutto il giorno nelle strade attorno a via Sallustiana con la speranza d'incontrar la mulatta: ma la donna era sparita e non si seppe più nulla di lei. Bisognava pensare alle faccende più urgenti. Lo zio Asquer brontolava accorgendosi che qualcosa di spiacevole succedeva intorno a lui. Fremente, con gli occhi torvi scintillanti, Costantina lo aiutò ad alzarsi, lo lavò, lo vestì, e dopo averlo adagiato sulla poltrona gli fece un inchino, coi pugni sui fianchi.
- A quanto pare v-o-s-t-è non può fare a meno di me! Costantina m-a-l-a, Costantina stupida,
e intanto non si può andar avanti senza Costantina. E se io scappo, come si fa, v-o-s-t-è, dica, per piacere?
- C'è Lia, - egli rispose infantilmente.
Ella replicò gli inchini, facendo cenni di saluto con la testa.
- C'è Lia, vero? sì, c'è Lia! V-o-s-t-è se l'ha fatta venir qui per riserva, sì; ma crede lei che s-i-g-n-o-r-i-c-c-a sia un pezzo di sughero? È di carne e d'ossa, anche lei, ed è giovane, ed è bella, e ha il diritto di fare quello che fanno le altre. Quanto vuol scommettere v-o-s-t-è, che scappa s-i-g-n-o-r-i-c-c-a? Qui non si può più vivere.
Il vecchio non sopportava queste scene; cominciò a battere il bastone per terra, e il suo viso si contrasse tutto da un lato, dolorosamente.
- Se essa sca... poichè... poichè... scappa, - gridò con angoscia e con rabbia, - la colpa sarà tua!... e, e... io...
- La colpa sarà mia? - ella disse ridendo con inconscia crudeltà. Ma il vecchio proseguì, tragico e minaccioso:
- Io mi accorgo di tutto, sai! Vedo tutto: so tutto quello che fate. Vi siete incontrate bene, le due capre selvatiche. Vi siete messe in mente di farmi morire prima del tempo; ma una cosa ti dico, Costantina. Tu credi ai morti. Ti tormenterà il mio fantasma.
Ella credeva ai morti. Cadde in ginocchio davanti al padrone e gli baciò la mano.
- Mi perdoni, padrone mio! Sono fuori di me dalla rabbia. La mulatta, quel cane nero rabbioso, è fuggita senza neanche dire addio al bambino... E quelle son le serve fini, pagate come maestre: e quelle son le donne di fiducia! Ma Costantina non appartiene a questa genìa. Io non lascerò il mio padrone, no, a costo di crepare. Ma anche v-o-s-t-è sia buono. Perchè non vuole che s-i-g-n-o-r-i-c-c-a si sposi? Quando si tratta di simili faccende non bisogna aspettare perchè non si sa mai quello che può succedere... S-i-g-n-o-r-i-c-c-a è brava, è buona, ma v-o-s-t-è non le vuol bene, lei non vuol bene a nessuno.
Il vecchio, già calmatosi, brontolò:
- Perchè nessuno mi vuole bene...
- F-a-u-l-a! (1) Se non le volessimo bene non staremmo qui, ai suoi ordini. S-i-g-n-o-r-i-c-c-a si consuma in silenzio, piuttosto che darle dispiacere, ma v-o-s-t-è è cieco e sordo.
Con meraviglia ella vide che il padrone non solo non s'inquietava oltre, ma chinava la testa, come colpito dai rimproveri e dalle osservazioni di lei. Finalmente mormorò:
- Anche la madre di Lia ha voluto sposare un uomo che non amava: poi s'è pentita, ma era tardi. Lia non può amare quell'uomo...
- F-a-u-l-a! - ripetè la serva. - S-i-g-n-o-r-i-c-c-a è innamorata.
- Va chiamarla!
Quando Lia entrò, fermandosi davanti a lui come in attesa di ordini più che di parole amorevoli, egli sollevò il viso e i suoi occhi smorti ripresero per un momento la loro antica felicità. Ella era più bella del solito: un attillato vestito di flanellina rossa e una catenella d'oro al collo bastavano per renderla elegante e dar risalto alla sua grazia orientale: lo zio parve guardarla con meraviglia e accorgersi solo allora del cambiamento di lei.
- Te l'ha regalata lui? - domandò, accennando alla catenella.
E subito, mentre Lia toccava il piccolo dono e arrossiva, egli tornò a curvare la testa e disse:
- Perchè, Lia, mancate di confidenza? Mi considerate già come morto?
- Zio, zio! - ella gridò con impeto, ma tosto si dominò, e aggiunse: - voi non volete... voi avete respinto la domanda...
- Che domanda?
- Non ricordate, zio? - ella disse, sorpresa. - Quel giorno che... vi sentiste male?... Volete che egli ripeta la domanda?
- Eh, c'è bisogno? Non fate già quello che vi pare e piace?
Ella s'irrigidì: avrebbe voluto parlargli con dolcezza, ma non poteva.
- Zio, - disse, fredda e sincera, - vi domando perdono: sì, è vero, ci siamo fidanzati. Egli è buono e mi vuol bene: che devo aspettare, che devo pretendere di più?
- Pensa bene a quello che fai, Lia! - egli riprese, a testa bassa, come parlando al suo bastone. - Sei certa di amarlo? Potresti pentirti, dopo, pensaci bene.
- Io lo amo, zio! Lo amerò sempre.
- E suo figlio?
- Sarà mio figlio.
Egli sollevò gli occhi e scosse la testa; solo dopo un lungo silenzio disse:
- Forse era meglio che tu non fossi venuta a Roma.
- No, no, zio! Laggiù sarei morta!
- Si muore anche qui! tutto finisce.
Battè il bastone sul pavimento, abbassò le palpebre e non parlò più: e a Lia parve che col suo stesso aspetto egli volesse dimostrarle la realtà delle sue parole.
- Si muore sì... ma... dopo aver vissuto... - ella mormorò, e avrebbe dato un anno di vita per poterlo confortare, chiedergli perdono e con carezza fargli dimenticare ch'egli era già morto, mentr'ella cominciava appena allora a vivere; ma non poteva, come se un cristallo infrangibile le impedisse di aver contatto con lui. Uscì, rientrò, per tutto il giorno fu inquieta e triste. Finalmente verso sera riordinando alcuni oggetti, lo zio Asquer all'improvviso le domandò con dispetto:
- E dunque... si può almeno sapere quando vi sposate?
- Niente è deciso, zio!
- Giacchè dovete farlo, fatelo subito; non aspettate la mia morte.
Ella uscì nel corridoio e si mise a piangere di rabbia e di dolore: egli la seguì con gli occhi, senza sollevare la testa, mentre un tremito gli torceva la bocca; poi riprese a battere ostinatamente il bastone sul pavimento e quel picchiettìo eguale, quasi ritmico, parve calmarlo.

*

Justo e Lia si sposarono verso la fine di aprile. Accompagnati solo da due corrispondenti di giornali esteri si recarono a piedi alla chiesa di San Bernardo e di lì presero una carrozza e andarono al Campidoglio.
Era una mattina dolce, velata; Lia, mentre la carrozza attraversava le vie e le piazze inondate di una luminosità argentea, si guardava attorno con curiosità, sentiva l'odore delle gaggie e delle rose, e ricordava il giorno del suo arrivo. Roma le era ancora sconosciuta, e così il mondo e la vita. I due testimoni e lo sposo parlavano in inglese e spagnuolo; ed ella, che capiva solo qualche parola di quest'ultima lingua, si sentiva, anche in quel giorno, lontana da tutti, abbandonata a sè stessa. Per confortarsi pensava a Salvador sembrandole di vederlo, saltellante e gorgheggiante nella casa del moribondo zio Asquer, come un uccellino in un cimitero. Il bambino infatti dava molto da fare a Costantina mentre questa preparava la colazione: appunto come gli uccelli egli provava una speciale ripugnanza a posare i piedi per terra; le sedie, i divani, i tavolini e i cardini degli usci erano i suoi punti d'appoggio preferiti. Per farlo star quieto Costantina lo incaricò di sgranare i piselli, e per qualche momento regnò una pace profonda, quasi inquietante.
- Salvador, cuoricino mio, che fai?
Egli taceva: ella andò a vedere e trovò un mucchio di buccie e nel grembiale turchino del bimbo solo due o tre granellini di piselli...
- Ah, - gridò disperata, meglio aver a che fare con le bestie feroci che con bambini della tua età!
Meno male che il padrone, quella mattina, se ne stava quieto in camera, a testa bassa, con le mani appoggiate al bastone. Ogni tanto Costantina correva da lui, chiudendo l'uscio del corridoio perchè i trilli di Salvador non arrivassero fin laggiù.
Una forte scampanellata la fece trasalire, mentre appunto mandava indietro il bambino che voleva introdursi nella camera del malato. Già gli sposi di ritorno? Aprì e una macchia rossa, un forte profumo di rose la colpirono.
- Manda la signora Bianchi, - disse un giovine cameriere vestito come un damerino. Salvador gli sorrise e Costantina dovette spalancare la porta, tanto il cestino delle rose era grande.
- Son vere? - ella domandò a Salvador che già odorava e toccava le belle rose di velluto rosso più grandi del suo viso. Alcune pendevano fuor del cestino e parevano curvate dal peso stesso dei loro grandi petali carnosi come labbra.
Costantina le portò in camera del padrone, spingendo l'uscio col piede: all'urto il vecchio si scosse; sollevò gli occhi smorti e all'improvviso, come riflettendo la porpora delle rose, il suo viso si colorì e persino il bianco dei suoi occhi si venò di sangue.
- Le manda una signora ricca, la signora Bianchi...
- È amica n-o-s-t-r-a, - disse Salvador con orgoglio, senza però avanzare dall'uscio.
- Le lascio qui?
Il vecchio non rispose, come còlto da uno stupore: per paura che Salvador entrasse, Costantina si affrettò a deporre il cestino sul tavolo accanto al padrone e corse via trascinandosi addietro il bambino.
- Da noi, in Sardegna, - cominciò a raccontargli per distrarlo, - sì, da noi si mandano mazzolini di fiori, agli sposi, ma sai come? Per tappo a belle bottiglie di vino forte. Se si mandassero fiori soli, così, per quanto belli, la gente riderebbe: e che in uno sposalizio si mangiano fiori?
Lo zio Asquer intanto fissava le rose, e come destati dal loro profumo quasi irritante, ricordi e fantasmi sorgevano intorno a lui. Una figura di donna, alta e bruna come Lia e vestita come lei nei primi giorni dopo il suo arrivo, entrava lieve nella camera bianca e triste, si curvava a scegliere una rosa e gliela porgeva.
Vera immagine di un cuore di donna, dalle cento foglie piegate e ripiegate, dai cento angoli misteriosi, rossa di tutti gli ardori, bruna di tutte le ombre, coperta di rugiada e di polvere, pronta a macchiarsi, a sfogliarsi, a mutar il profumo in cattivo odore, e inaridirsi e imputridire, la rosa vellutata aveva sempre destato nello zio Asquer un fascino doloroso. La figura dell'unica donna da lui amata sorgeva dalla rosa, come la fata della leggenda, e il ricordo lo colmava ancora di tenerezza e di umiliazione. Egli era stato amato e rifiutato: la donna aveva tradito un altro uomo per lui e lui per quell'altro: e nello stesso modo s'era comportata verso di lui un'altra amante che egli aveva adorato con tutte le sue forze, senza mai riuscire ad ottenerne i favori: la vita.
Ed ora anche Lia lo abbandonava, anche lei senza aver mai capito di quale amore egli fosse capace, e per un uomo che ella non amava. Sì, come quell'altra; e per una raffinata ironia del caso ecco le rose fatali riapparivano, grandi, moltiplicate, tutte unite lì davanti a lui con le loro pieghe, le loro ombre, le loro labbra fredde e crudeli.
I suoi occhi si riempirono di lagrime, e una di queste scivolò lungo la sua guancia e cadde sull'anello della sua mano morta. Bastò questo per richiamarlo dal suo sogno: asciugò l'anello sul tappeto del tavolo e ricominciò a battere il bastone sul pavimento, di qua e di là, fin dove poteva arrivare, come se schiacciasse qualche insetto che gli sfuggiva. Il suo viso esprimeva ironia e ribrezzo: ma dopo alcuni momenti anche questa crisi nervosa passò, e quando Costantina rientrò egli era calmo, di nuovo con la testa bassa e le mani appoggiate al bastone.
- Come tardano! - disse la serva. - devo lasciarlo qui, questo cestino? Le dà noia?
Egli accennò di lasciarlo: andata via lei trasse di saccoccia una chiavetta dorata e aprì a stento il cassettino del tavolo, guardandovi dentro a lungo. Era pieno di carte, di lettere, di plichi: egli prese uno di questi, giallo, coperto di grandi sigilli rossi, lo volse, lo pesò con la mano, lo rimise: sollevò poi l'angolo di un'altra busta e ne trasse un involtino di carta velina. Eccola, la rosa morta era lì, coi petali ridotti in cenere rossiccia, il gambo e il calice simili a frammenti di legno corroso: le spine soltanto erano ancora intatte!
Dopo la rosa fu la volta di un foglio azzurrognolo, ingiallito dal tempo, che conservava le traccie delle ostie color di rosa con cui era stato chiuso in forma di busta. Il vecchio lo svolse, piano piano, con la mano non inferma, e rilesse le poche righe scritte con minutissimi caratteri gotici:

«Caro Luigi,

«È inutile e doloroso insistere. La fatalità ci ha rivelato troppo tardi i nostri sentimenti...
«Io mi considero già come legata all'uomo che ha la mia promessa di fedeltà, e morrei prima di tradirlo. Addio, addio; perdonami; tutto dev'essere finito in questa vita! Forse c'incontreremo in una vita migliore; questa è l'unica speranza che m'incoraggia a vivere.
«Addio per sempre.
«SIMONA».


Aveva appena finito di leggere quando sentì rientrare gli sposi: Salvador rideva, nascosto dietro un uscio, Costantina gittava alcuni chicchi di frumento sulla sposa, gridando:
- Buona fortuna, buona fortuna!
Egli si affrettò a rimettere il foglio dentro la busta, ma per quanti sforzi facesse non riuscì a chiudere il cassetto. Un fruscìo attraversò come un lieve soffio di vento il corridoio, e Lia, vestita di bianco e con un cappello di violette, s'avanzò rapida e si curvò per baciarlo. Ma egli, arrabbiato col suo cassetto, non le badò, ed ella ebbe tempo di vedere il plico giallo coi sigilli rossi: pensò che quello fosse il testamento di lui, e ancora una volta si sentì come respinta da un soffio gelido e si sollevò senz'aver potuto baciarlo.

*

Nel pomeriggio gli sposi e Salvador partirono per Anzio. Fu un viaggio di nozze molto sereno; solo di tanto in tanto Lia s'inquietava perchè il bambino si sporgeva dal finestrino dello scompartimento, e Justo pensava allo zio Asquer che si era mostrato, anche in quel giorno, indifferente e quasi ostile e non aveva badato alle proteste di affetto e alle promesse del suo nuovo nipote.
Ad Anzio andarono ad abitare in una casetta sul molo. Il luogo era dolce e romantico: un balcone della casetta guardava sul porto verde e quieto come un prato chiuso dalla cornice della riviera violacea disseminata di ville bianche e rosee: dal lato opposto una terrazza si sporgeva sul mare melanconico le cui onde luminose si frangevano contro i blocchi bianchi del molo e più che infuriarsi pareva si divertissero per l'ostacolo che metteva fine al loro monotono andare. Le case nere, con le loro piccole finestre irregolari, i balconi di ferro arrugginiti, la torre che sorgeva allora in principio del molo, davano a quell'angolo di spiaggia un aspetto romantico; Lia si sporse alla terrazza e le parve di essere in un vecchio castello in riva al mare, luogo propizio a un idillio melanconico.
Verso sera mise a letto Salvador, chiacchierando e scherzando come se in vita sua non avesse fatto altro che trattar bambini, e s'indugiò presso il lettuccio vinta dall'arcano timore di trovarsi poi sola con suo marito.
Suo marito! Ella non poteva convincersi ancora di non esser più sola davanti alla vita.
Salvador chiacchierava addormentandosi, e i suoi occhi si spegnevano come stelle al tramonto mentre il suo visino delicato, le sue manine brune, tutto il suo corpicino agile e liscio aveva alcunchè di molle e di tenero, come un fiore che comincia ad appassirsi.
Justo andava dal lettuccio al balcone, e quando la sua figura si disegnava nera sullo sfondo glauco, nel vano della finestra. Lia sollevava gli occhi e lo guardava con inquietudine. A che pensava egli? Non ricordava un'altra sera lontana, un'altra donna amata? Quando Salvador chiuse gli occhi, ella s'avvicinò in punta di piedi al balcone, quasi paurosa d'interrompere i sogni di suo marito: egli la prese per la vita, ma continuò a fissare i lumi che si accendevano qua e là e si riflettevano nell'acqua verdognola del porto, tra la rete degli alberi dei velieri e l'ombra delle paranze. Figure nere sorgevano sull'orlo chiaro della banchina, come disegnate sullo specchio dell'acqua: una fisarmonica suonava in lontananza, con un motivo monotono e nostalgico che ricordava a Lia il suo paesetto, la sua brughiera; e le stelle apparivano ad una ad una sul cielo verde sempre più chiare e numerose come se la terra si avvicinasse lentamente a loro nell'infinito.
E Lia ricordava il palmizio, le notti della landa, il cielo sardo, il silenzio del paesaggio pieno di grandiosa desolazione. Tutti i suoi sogni s'erano avverati. Ella era davanti a uno dei più bei paesaggi del mondo; aveva uno sposo, una famiglia. Ma un crepuscolo strano, fatto di luminosità sul mare, le velava l'anima. Ella era certa che il pensiero di Justo, in quel momento, non le apparteneva intero. Egli pensava certamente al passato, a un'altra donna: e anche fra le braccia di lui ella sentiva un s-e-n-s-o di abbandono e anelava a qualcosa di ignoto come quando fanciulla, sognava nel crepuscolo della brughiera.



VI


Giorni quieti e deliziosi passarono.
I due sposi si amavano senza eccessiva passione, e Lia non si faceva illusioni su Justo, il quale d'altronde si mostrava qual era, un uomo cioè non più giovane, un po' esaurito cerebralmente e fisicamente, ma bonario, calmo, lavoratore: il vero capo di famiglia.
Una cornice di poesia rallegrava la loro modesta luna di miele, e Salvador distraeva Lia dalle sue prime impressioni di sposa, dandole con le sue carezze, le sue moine e le sue monellerie un senso di freschezza, di giocondità e talvolta anche di sorpresa.
Ella vedeva nel bimbo tutto un mondo nuovo: le astuzie, le bugie, e nel medesimo tempo la logica e le pretese morali di Salvador la interessavano quasi quanto i discorsi di Justo. E lo amava come una vera madre, cioè anche fisicamente, e tutte le supreme bellezze di quel piccolo corpo nuovo, lo splendore degli occhi, dei dentini, della pelle purissima, il profumo dell'alito che sapeva di latte e di vainiglia, la grazia del sorriso e del pianto, tutto le dava un senso di gioia e pareva volesse ricompensarla di quanto mancava allo sposo già un poco appassito. Salvador li accompagnava nelle loro passeggiate lungo la spiaggia o sui rialzi erbosi coperti di fiori: e rideva con le onde e il suo grido si confondeva con quello delle allodole: era come uno spirito di gioia che rendeva più bello e più vivo il paesaggio, e rianimava e riallacciava gli sposi quando la noia di quei giorni insolitamente oziosi cominciava a distrarli e a dividerli.
Un giorno, mentre scendevano alla spiaggia, il postino consegnò a Justo una lettera col bollo di Roma, era di Costantina, che dava cattive notizie del padrone. «Dopo la partenza di s-i-g-n-o-r-i-c-c-a egli è molto abbattuto; non parla più e sta sempre a testa bassa. Sarebbe forse bene che s-i-g-n-o-r-i-c-c-a venisse a vederlo; poi potrà tornarsene ad Anzio».
- Devo andare? - domandò Lia inquieta.
- Torneremo tutti assieme.
Lia lesse e rilesse la lettera, diventò pensierosa, ma non parlò più finchè non arrivarono agli scogli sotto le grotte di Nerone. Era una sera luminosa; dalle colline arrivava il profumo della nepitella, e il mare d'oro e di viola era così calmo che rifletteva nitidamente le paranze simile a grandi fenicotteri argentei con un'ala in aria e l'altra immersa nell'acqua.
- Egli ha paura di morir solo. - disse Lia, sottovoce, curvando la testa quasi per imitare l'atteggiamento dello zio. - Lo conosco. Avrei rimorso se egli morisse mentre noi siamo assenti. Dev'essere orribile finir la vita sole, abbandonati...
- Eppure è il destino di quasi tutti gli egoisti.
- Egli con me non è stato egoista, no, bisogna riconoscerlo! Non ha acconsentito a quanto volevo io? ed io non devo mostrarmi libera sempre che egli avesse bisogno di me... e di fargli un po' di compagnia in questi ultimi giorni... Dopo... dopo che egli non ci sarà più, io sarò tutta per voi, Justo; per te, per Salvador... Te lo prometto.
Justo le accarezzò le spalle con un gesto paterno.
- Se vuoi, cara, torniamo stasera stessa.
Ella si calmò e gli strinse la mano.
- Grazie. Mi perdoni, vero? ma, tu lo devi capire, io sono riconoscente allo zio per molte ragioni. Egli può aver dei torti verso di me, ma anch'io ne ho verso di lui... Devo considerare che s'egli non m'avesse chiamata a Roma io non t'avrei conosciuto, Justo! Eppoi io ho sempre in mente che noi lo abbiamo giudicato male. Forse non era egoista, come sembrava: ma la solitudine fa diventar quasi cattivi... io lo so. Ed egli è vissuto sempre solo, e nessuno gli ha voluto bene sul serio. Neppure io ho saputo affezionarmi a lui, neppure io, che avevo bisogno di protezione e di affetto...
- Dopo morte, tutte le persone ci sembrano buone! - egli disse per distrarla, col suo accento bonario non privo d'ironia. - Anch'io, quando sarai vedova, ti sembrerò un eroe. Tu dirai: egli era un grand'uomo e non l'ho saputo conoscere! E a Salvador e ai nostri figli dirai: voi non immaginate neppure di qual grande uomo siete figli!
- Lo dirò, sì, se non morrò prima di te!
- Ma figli, ne avremo? Quanti? Dieci?
- Io non lo so! - ella disse, quasi indispettita per l'accento di lui. - Per adesso mi basta Salvador.
Egli continuava a batterle la mano sulla spalla, e dopo un momento di silenzio riprese a scherzare:
- Salvador, Salvador! Si direbbe che tu hai sposato lui, non me, o che mi abbi sposato per lui!
- E perchè no? tu stesso affermi che la donna è madre ancor prima di essere amante: i nostri primi giocattoli sono le bambole, mentre per voi sono i cannoni e i soldati...
- Le bambole vengon poi... - egli ribattè, senza mai prender troppo sul serio le parole di sua moglie. - Vedrai quante ne sceglierà Salvador.
Il bambino giocava sulla spiaggia, piccolo e nero davanti al mare infinito: raccolse una perlina e la portò a Lia.
- Grazie, - ella disse, baciandogli la palma della manina.
Salvador rise per il solletico, e Justo guardò con piacere il bel gruppo della donna curva sul bimbo ridente.
- Lia, gli vorrai bene lo stesso quando avremo altri dieci figli?
- Dieci o dodici, egli sarà sempre il primogenito!
E continuarono così lungo la spiaggia dorata, un po' sorridendo, un po' ricordando lo zio che moriva, tessendo, fra le parole scherzose e pensieri gravi, la tela misteriosa dell'avvenire.
Al ritorno trovarono un telegramma di Costantina. Lo zio Asquer s'era aggravato, ed essi ripartirono la sera stessa.
Benchè assistito amorevolmente da loro il vecchio morì scontento come era vissuto, e Lia rimase con la penosa impressione ch'egli se ne fosse andato senza perdonarle i suoi torti.
Prima di lavare e vestire il cadavere, Costantina, che non piangeva e non parlava, ma era livida in viso e di tanto in tanto emetteva un grido funereo come l'aveva appreso dalle prefiche del suo villaggio, consegnò a Lia le chiavi che il padrone teneva sempre con sè. Quando il morto fu portato via e la casa rientrò in ordine, aprirono i cassetti, ma trovarono sole carte inutili e un foglietto nel quale il vecchio dichiarava la sua volontà: mobili, biancheria, gioielli, tutto doveva esser diviso in parti eguali fra Lia e Costantina.
Il plico giallo coi sigilli rossi che Lia aveva intraveduto nel cassetto, il giorno delle sue nozze, era sparito: ella si sentì umiliata per la disposizione testamentaria dello zio, che l'aveva messa al pari della serva, ma non si lamentò, anzi offrì a Costantina di rimanere al suo servizio. La serva era cupa, inquieta, come se la visione della morte l'avesse profondamente colpita; ringraziò s-i-g-n-o-r-i-c-c-a, ma dichiarò che non vedeva l'ora di tornarsene al suo paese e di ricomprare la casupola paterna, e mentre Lia conservava con cura i vestiti, gli anelli, tutte le piccole cose che lo zio, in mancanza di altri affetti, aveva amato gelosamente, ella vendette la sua parte di mobili e di gioielli, pur, come aveva ben detto Justo, piangendo e rievocando la memoria del defunto come quella di un eroe.
- Egli era buono e generoso, sì, sì; era come quelle piante storte e bistorte e dal tronco ruvido, e che danno i più buoni frutti...
- Vuoi dire di quelle piante dal cui legno si fanno i buoni mobili? - le disse Justo, canzonandola senza acredine.
Ella lo guardò selvaggia.
- Lei scherza sempre, si sa, come fanno i giornali, che scherzano anche quando succede una disgrazia. Ma il mio padrone era buono. Lei non può sapere tutto quello che lui ha fatto, no, non lo può sapere...
- Forse non lo sai neppure tu!
Ella rimase ancora qualche giorno a Roma, decisa, per quante preghiere Lia le rivolgesse, a ritornarsene al paese. La somma ricavata dai mobili era meschina; Lia però pensava che lo zio avesse, prima di morire, consegnato alla serva qualche somma, o che Costantina, il cui contegno era oltremodo strano, se ne fosse impadronita senza permesso.
Partita la ragazza, parve a Lia che si chiudesse tutto un periodo, il più importante, della sua vita: ma un po' per volta i ricordi si velarono, ed ella smise di guardare la porta e le finestre dell'appartamento ove era morto lo zio Asquer, e si lasciò portare dalla corrente della nuova vita.

*

La nuova vita era dolce, tranquilla: tanto dolce, tanto tranquilla, che qualche volta sembrava quasi monotona, come un bel paesaggio veduto tutti i giorni e sotto una luce sempre mite ed eguale. Spesso Lia usciva dalla cerchia dorata ma ristretta delle sue abitudini, e seguiva Justo a teatro, alle prime grandi rappresentazioni, o in qualche salotto, o in qualche banchetto rumoroso di artisti e di letterati, ma non si eccitava, nè si divertiva molto. Ella aveva vissuto troppo a lungo con sè stessa per non dominare le sue fantasticherie, e aveva, come tutti i solitari, una visone della vita che andava al di là, al disopra delle apparenze. Justo le diceva che ella doveva scendere da una razza di eremiti; ella infatti vedeva il mondo come dalla cima d'una montagna; ma si spaventava alla sola idea di scendere, di mescolarsi alla folla, e il suo antico sogno di una vita attiva e proficua le appariva sempre più inafferrabile. La sua vita non mutava. Riordinando l'ebbrezza dopo il suo primo colloquio con Justo a Villa Borghese, ne provava quasi vergogna. Che aveva fatto, dopo? Nulla; si lasciava cullare dalla vita; e se Justo e Salvador erano felice, lo dovevano più alla indolenza che alla volontà di lei.
Un giorno le arrivò una lettera della zia Gaina: era la terza, dopo la sua partenza dall'isola; nella prima la donna si meravigliava della resistenza di sua nipote a vivere presso lo zio Asquer; nella seconda dichiarava di non esser contenta del fidanzamento di Lia, che ella avrebbe preferito veder sposa ad un impiegato governativo; adesso le chiedeva come passava la vita, se suo marito guadagnava abbastanza, se aveva bisogno di qualche cosa.
«Se hai bisogno, dimmelo: per il poco che posso aiutarti sono sempre tua zia, quella che ti ha fatto da madre!»
Quest'offerta umiliò e commosse Lia: le parve di esser ingrata verso la zia Gaina e per ricompensarla in qualche modo promise di andarla a visitare. In settembre, infatti, tornò nell'isola. Aveva preso con sè Salvador, e senza di lui si sarebbe forse annoiata nelle poche settimane che rimase presso la zia.
Lungo il viaggio ricordava la sua scatola legata con la cordicella, la cassettina dell'aranciata, i sogni che aveva portato dall'isola al continente... Dolci e semplici anch'essi come l'aranciata, erano stati egualmente derisi e cacciati a muffire in un cantuccio.
Sul villaggio polveroso e sulla brughiera, fino all'orizzonte, gravava il silenzio desolato che ella ben conosceva: le voci umane vi si smarrivano come gridi di uccelli, e Lia provò di nuovo l'impressione del deserto; ma le parve d'esser diventata più alta; le cose eran piccole, davanti a lei, e lo stesso palmizio s'era incurvato, rimpicciolito come un vecchio.
I gridi di Salvador riempirono di vita il luogo triste e morto: appena arrivato andò a molestare le galline, poi si ficcò in mezzo ai cespugli, come una lepre liberatasi da un luogo chiuso, e Lia capì subito che la sua più grande occupazione sarebbe stata quella di corrergli appresso.
La zia Gaina, nera e jeratica, col viso inquadrato dalla banda nera e le mani sotto il grembiale, ritta sulla soglia della casetta guardava quasi con ostilità il bambino e trovava ridicolo che Lia si preoccupasse tanto per un monello simile, suo figliastro per giunta.
- Egli ti darà del filo da torcere, - le disse, raggiungendola sotto il palmizio. - Ah, i figli altrui! Non bisogna mai occuparsene.
- Voi però ve ne siete occupata!
- Era altra cosa. Raccontami, adesso...
Lia le raccontò ingenuamente tutte le sue avventure dopo l'arrivo a Roma, la storia del suo matrimonio, la morte dello zio: e con sorpresa osservò che al ricordo di questi la zia Gaina, che aveva un gran rispetto dei morti, non solo non brontolava più, ma non trovava nulla a ridire neppure per il generoso lascito alla serva.
- Eh, tu lo avevi abbandonato, e in quello stato, poi! È già molto se egli si è ricordato di te! Egli poi, mi hai detto, era scontento del tuo matrimonio. Ed io, sia lodato la sua memoria, non so dargli torto: non si sposa un uomo con figli, che non ha patrimonio sicuro!
Lia ricordava lo spirito di contraddizione della zia, e non volle discutere: solo domandò:
- E con chi mi sposavo, allora?
- Partiti non te ne sarebbe mancati, rosa mia. Persino qui qualcuno pensava a te.
- Ah, sì, il maestro? È ancora vivo?
- E perchè dovrebbe esser morto? Non, è poi tanto vecchio; a quel che posso capire, anche tuo marito non ha vent'anni.
- Li ha passati, certo! - disse Lia, animandosi. - Ma è ancora giovane, forte, vigoroso.
Ella esagerava, per amor proprio, perchè veramente Justo era sempre malaticcio e stanco. Del resto la zia non pareva convinta: con le mani sotto il grembiale, rigida e impassibile in apparenza, fissava Salvador che costruiva una casupola di sabbia, e continuava a brontolare:
- Tuo marito quanto guadagna?
- Cinquecento lire.
- All'anno?
- Al mese.
La donna allora parve colpita: cento scudi, al paesello, rappresentavano una grossa rendita annua. Ma poi ricordò che il maestro diceva: «a Roma, per vivere bene, occorrono cento lire al giorno», e nascose la sua meraviglia.
Lia aggiunse:
- Come vedete, non moriamo di fame.
- Di fame non muoiono neppure i mendicanti, consolazione mia. Certo, però, per comprare tutto, dal sale all'olio, ce ne vuole. Le provviste non abbonderanno, in casa tua. Dimmi un poco, ti avanzano molti denari alla fine del mese?
- Non molti, è vero.
- Se voi viveste qui, forse, potreste risparmiar bene; - riprese la zia; ma subito ella stessa capì che per un corrispondente di giornali americani quel soggiorno non era il più indicato, e aggiunse, non senza rancore: - ma qui il paese è troppo meschino, tanto che tuo marito non ha neppure creduto bene di farci l'onore di venire con te...
- Egli ha tanto da fare, zia; verrà un'altra volta.
- Io morrò senza conoscerlo. Bene, non importa; l'essenziale è che viva lui, non che viva io. Ma, dimmi, quando sarà vecchio potrà scrivere lo stesso? Al nostro parroco trema la mano.
- Quando sarà vecchio? - disse Lia, che cominciava ad irritarsi. - Dio ci penserà. Eppoi, non c'è il figlio?
- Quell'uccellino lì? Quello vi pianta, appena mette le ali, se pure non farà di peggio.
- Salvador? - chiamò Lia.
- Aspetta: faccio la porta.
- Vieni subito.
- Aspetta, ho detto.
- Vedi, non ti ubbidisce neppure. Egli dirà sempre «aspetta» e non verrà mai.
- Raccontatemi adesso voi le notizie del paese, - disse Lia, tanto per cambiar discorso; e la zia Gaina raccontò: il maestro, dopo il matrimonio di colei che egli amava, era diventato misantropo e beone; leggeva sempre i salmi, come i sacerdoti, ed anzi si diceva che egli volesse farsi prete: Simone Salis aveva vinto la lite e sua moglie s'era messa la dentiera; il parroco aveva fatto testamento a favore della Chiesa.
- Tanto valeva che egli avesse fatto il servo gratis; poichè non intendeva lasciar i suoi guadagni ai nipoti.
Nei giorni seguenti Lia, non sapendo come passare il tempo, andò a far qualche visita: Salvador l'accompagnava e in breve diventò popolare, acquistandosi però cattiva fama perchè ovunque entrava frugava ogni cantuccio e in casa di donna Rosalba Borrotzu domandò un fico d'India e in un'altra casa mangiò pane e formaggio assieme coi servi che facevano colazione: egli dunque era un bambino sfacciato; e a Roma non doveva mangiare abbastanza frutta, e probabilmente si nutriva di cibi grossolani.
Dovunque andava, Lia subiva lunghi ed abili interrogatorî sulle sue condizioni finanziarie, e tutti le lasciavano capire la loro compassionevole inquietudine per il suo avvenire: che avrebbe ella fatto se suo marito si ammalava o moriva? Un giornalista, per tutta quella buona gente, era quasi come un g-i-o-r-n-a-l-i-e-r-o, cioè uno che lavora a giornata: persino i loro nomi si assomigliano, ed entrambi mangiano solo quando lavorano! Invano il nipote del parroco, che era corrispondente della «Nuova Sardegna» difendeva i suoi colleghi e diceva che certi giornalisti guadagnano quanto i ministri: donna Rosalia Borrotzu e le altre donne benestanti sorridevano pietosamente e dicevano:
- Uno può guadagnare quanto vuole, se non ha le provviste in casa, venutegli dalle sue terre, non sta mai bene, non mangia mai a sazietà!

*

Tutti i giorni Lia scriveva a Justo.
«Sono qui, nella cameretta solitaria ove ho passati gli anni desolati della mia inutile fanciullezza. Salvador, dorme, in un lettuccio che la zia Gaina aveva già preparato accanto al mio: il suo sonno è profondo; eppure egli di tanto in tanto si scuote e ride, d'un riso flebile, sereno, che par venga da un mondo remoto ove tutto è gioia. Era ben stanco, e durante la giornata ha fatto quasi impazzire la zia, che tuttavia è venuta poco fa a vederlo, ed ha appeso alla finestra una falce perchè i vampiri s'indugino a contarne i denti e così non entrino in casa nostra. Anche in questo momento essa mi avverte di smorzare presto il lume perchè non entri la Tentazione. Mio caro Justo, nulla qui è mutato, dunque; mi par di vedere ancora una figurina nera disegnarsi sullo sfondo azzurrognolo della finestruola: la luna nuova le pende sul capo come un diadema, e le stelle scintillano attraverso i suoi capelli. È Lia che sogna guardando il mare lontano. Io sono un'altra e non rimpiango quella mia sorella immobile e triste; però mi sembra che qualche cosa di lei rimanga ancora attorno a me, come appunto rimane il ricordo di una persona morta. Io vorrei completamente dimenticarla, essere un'altra non solo con l'intenzione, ma anche con le opere. Ricordi il nostro primo colloquio a Villa Borghese? Che ho fatto, dopo? Nulla, nulla; ho amato, mi son lasciata amare. È poco, davvero. Io penso con terrore a ciò che sarebbe avvenuto di me se non ti avessi incontrato: sarei dovuta tornar qui, in questa infinita solitudine! Ricordo la lettera che scrissi al povero zio Asquer, e che non ebbi il coraggio di mandargli mai. Quanti bei propositi! E il tempo è passato senza che io me ne ricordassi neppure. E adesso quei bei propositi, rimasti, in questa cameretta, par che si sveglino e saltellino intorno a me e ronzino intorno alla finestruola, come i folletti della notte. Purchè anch'essi non si fermino a contare inutilmente i denti della falce!
«Ho ricevuto la tua carissima e ti ringrazio delle tue tenere parole; anche il mio cuore è presso di te: provo rimorso pensando che tu lavori per noi tutti, mentre io passo qui oziosamente i giorni. Sento un bisogno prepotente di far qualche cosa anch'io, e questo bisogno mi rende talvolta inquieta e triste, come se dentro di me fermenti un male a cui sia necessario uno sfogo esterno. Capisco adesso come certi individui intelligenti, bisognosi di attività, costretti all'ozio dalla mancanza di iniziativa, dall'ambiente, dalle circostanze della vita, compiano il male: è la loro energia rientrata, depressa, che scoppia come un ascesso maligno. Che fare, pertanto? Io penso e ripenso, e bisognerà che mi decida: pensaci tu, carissimo; bisogna dar lavoro a tua moglie.
«Qui la vita è sempre la stessa. Io continuo a ricever visite, e soprattutto a farne. Io e Salvador siamo diventati di moda, e tutte le famiglie fanno a gara per riceverci: i paesani e le paesane ripetono e commentano ogni parola di Salvador, ed egli ha già imparato a cavalcare ed a guidare il carro tirato dai buoi! Ogni momento riceviamo regali: frutta, formaggio, vino, galline ornate di nastri e con anellini di scarlatto alle zampe. I paesani si riempiono le tasche di arance e di pere, come fanno per la Pasqua, e aspettano che passi Salvador per regalargliele.
«I presenti di certe famiglie hanno però un significato che dovrebbe umiliarci: molti qui credono che la vita a Roma sia così difficile da non permettere a persone come noi di saziarsi di frutta e d'altre cose prelibate; essi quindi ci mandano l'uva moscata, le trote, le pernici, i dolci di mandorle, affinchè possiamo, intanto che siamo qui, godercene fino alla sazietà!
«Anche il mio ex-pretendente ricco mi ha mandato un cestino d'uva. L'altro giorno andai a visitare sua madre, che mi ricevette in una camera terrena adorna di arche antiche scolpite, umida e tetra come una cappella mortuaria; le galline entravano ed uscivano liberamente, e Salvador, avvertito da me, si contentava di guardarle e di sorridere, mentre negli occhi gli splendeva il desiderio di molestarle. Quella che avrebbe dovuto esser mia suocera mi fissava con curiosità, domandandomi i prezzi dei viveri a Roma; il mio antico pretendente stava nel cortile e non osò presentarsi finchè non mandai Salvador a chiamarlo. Allora entrò, mi salutò goffamente, ed io mi accorsi che tremava. È completamente abbruttito dal vino, ma conserva ancora qualche sentimento gentile: prese con sè il bimbo e gli diede un garofano, e oggi gli mandò un carrettino sardo, coi buoi scolpiti nella ferula, lavorato da lui. Chi vuol conservarsi disinvolto e apparire un uomo civile ed evoluto è l'altro ex-pretendente, il signor maestro, che venne a visitarmi alle cinque precise e se ne andò dopo un quarto d'ora. Abbiamo parlato di politica e di religione! È l'unico che non mi abbia mandato un regalo di frutta o di uova, e che non mi abbia rivolto domande indiscrete sul conto tuo: anzi non mi ha chiesto nulla, come se tu non esistessi affatto.

«La zia Gaina entra ancora in camera, guarda Salvador, e adesso depone su questo foglietto due zampe di zanzara.
«- Viene la Tentazione, rosa mia; e anche le zanzare, vedi, pungono Sarbadoreddu.
«Questa religione mi convince a smorzare il lume: buona notte, dunque, mio carissimo, e un bacio della tua Lia.

«... Mio buono, mio amatissimo Justo! Ho passato una notte agitata. La Tentazione? I vampiri? Le zanzare? Mille ronzii misteriosi riempivano il chiaroscuro della notte, e vagavano nuvole e brillavano raggi attorno al mio letto. Adesso capisco il mio malessere dei giorni scorsi, la mia inquietudine, la mia nervosità. Sì, qualche cosa era dentro di me, è dentro di me, - una c-o-s-a grande, divina. Salvador avrà un fratellino».



PARTE SECONDA


I


Gli anni passarono. Una mattina verso la metà di maggio un uomo ancora giovane, alto ed elegante, si fermò davanti all'ingresso sempre polveroso del palazzo ove abitava Lia, e lesse con attenzione i cartellini d'affitto inchiodati al muro; poi si tirò un po' indietro per guardar bene la facciata della casa, si volse di qua e di là, osservò la strada, osservò i dintorni. Il posto gli piaceva: la casa doveva essere piena di luce e d'aria; graziosi villini, alcuni già terminati, altri in costruzione, sorgevano di fronte, nei terreni che pur conservavano qualcosa d'agreste con le loro file d'alberi, i cespugli, i ciuffi di canne: ma i gridi delle erbivendole, ritiratesi più in là verso la piazza Sallustio, il rumore dei carri colmi di materiale da costruzione e gli urli dei carrettieri che spingevano i cavalli attraverso i varchi fangosi praticati nei muri dei giardini, tutto quell'agitarsi di uomini e di bestie intorno alle pietre e alla terra smossa, gli dava una certa inquietudine. Tornò a guardare le finestre della casa, si battè a lungo nervosamente il pomo del bastone sulla palma della mano, e infine si decise a entrare.
Sì, le finestre guardavano verso ponente: ed egli voleva questo; una camera solitaria, un rifugio ove al mattino il sole non lo irridesse con la sua luce di gioia, ma che al tramonto lo salutasse fraternamente, ricordandogli che tutto, nella giornata e nella vita, tutto, gioia e dolore, ha fine.
- Portiere, che camere ci sono?
L'uomo, grasso e rosso, in camicia turchina e grembiale di cuoio, stringeva fra le ginocchia una scarpa e tirava lo spago senza mai sollevare gli occhi.
- Al numero tre, camera e salotto.
- È una pensione?
- No.
- Che famiglia?
- Una vedova con due bambini.
- Allora niente.
L'uomo sollevò gli occhi verdi: vide nel vano dell'uscio il bel giovane alto al cui viso bianco i capelli castanei divisi sulla fronte, gli occhi glauchi e socchiusi, la fossetta del mento e le labbra un po' carnose e d'un rosa pallido, davano un'aria dolce, quasi feminea, e accorgendosi d'aver a che fare una persona distinta da cui c'era molto a sperare, decise di sostenere validamente la causa della vedova.
- Sono bambini beneducati che d'altronde non stanno quasi mai a casa. La camera è bella, ariosa, il salotto è di lusso. Vada a vedere. La signora non ha mai affittato e non prenderà che un solo inquilino; è una signora molto per bene, onesta e seria. Poveraccia, fin troppo... Il marito era un giornalista, bravo, dicono; scriveva per i giornali d'America. È morto nel novembre scorso, di polmonite; in tre giorni, taffete, a terra: molto sano però non era...
Adesso il bel giovane si batteva lievemente il pomo del bastone sulla guancia: e pareva ascoltasse con interesse la breve storia dolorosa, ma i suoi occhi non esprimevano che una dolce indifferenza.
- Un giornalista? Come si chiamava?
- Villanueva.
- Uhm! Bè, andiamo a vedere.
Per un caso straordinario la scala era pulita e deserta: dalle finestre spalancate penetrava un profumo agreste d'erba e di terra smossa, e arrivava, simile a un lontano mormorìo d'acque, un canto incessante di passeri.
Salvador, seguito dal fratellino, corse ad aprire. Entrambi indossavano lunghi grembiali neri che facevano risaltare il pallore diafano del visetto di Salvador e la tinta rosea delle guancie paffute dell'altro bimbo: ma il lutto dei due fratellini non intenerì l'estraneo anzi entrò guardandoli con diffidenza. Il salotto ove Salvador, sempre seguito dal fratellino, lo introdusse, era modesto e melanconico; e quei due bimbi, poi, uno magrolino e sdentato come un vecchietto, l'altro troppo roseo e grasso e con una capigliatura così abbondante e ricciuta che pareva una parrucca, lo fissavano con tale curiosità ch'egli si pentì di essere salito. Ma la vedova entrò, alta e pallida, vestita di nero, coi capelli così lisci e scuri che sembravano anch'essi una benda da lutto: il dolore, ma un dolore nobile e fiero, traspariva da tutta la persona, soprattutto dal suo sguardo, dalla piega della bocca, dal movimento delle sue mani fini e nervose: l'estraneo fu colpito dalla figura di lei, dalla luce limpida e triste di quei grandi occhi rimasti infantili, e la salutò come una dama.
- Favorisca, - ella disse precedendolo.
La camera vasta e signorile aveva alcunchè di allegro e di verginale: carta azzurra, mobili bianchi laccati, una copia di una Madonnina del Dolci sulla parete sopra il letto. Il fruscìo incessante dei passeri penetrava come un soffio di gioia attraverso le tende di mussola dorata.
- Se il letto le sembrasse troppo grande, si può cambiare, - disse Lia, passando quasi con lenta carezza la mano sulla coltre azzurra.
Egli volgeva attorno i suoi dolci occhi d'egoista: guardò il quadretto, sollevò le tende, vide lo spazio verde di piante e d'erba e le costruzioni su cui gli operai si arrampicavano come su piccole montagna. Il cielo azzurro, sopra i palazzi gialli di via Boncompagni, era sparso di nuvolette bianche che parevano colombi; e non ostante i gridi degli operai e delle erbivendole una pace serena regnava in quell'angolo di città nuova, ancora vergine.
L'estraneo decise di restare.
- Il salotto, - disse Lia spingendo l'uscio, - lo farei qui. Adesso è la nostra sala da pranzo.
I bimbi, accanto alla finestra, guardavano silenziosi: Lia vide il volto dell'estraneo oscurarsi e disse con fermezza:
- I bambini non le daranno fastidio.
Allora egli trasse la sua carta da visita e gliela diede.
- Se non le dispiace, tornerò più tardi per darle una risposta definitiva.
Ella prese la carta senza guardarla, e solo dopo che egli se ne fu andato lesse il nome stampato sul cartoncino:

Cav. Pietro Guidi
Capo Sezione nel Ministero del Tesoro

I due fratellini si alzarono sulla punta dei piedi, appoggiandosi a lei.
- Fa vedere! Fa leggere...
- Piano! Io non ho mai veduto bimbi così curiosi. Ma che v'importa?
Ma cos'è che non importava a loro? non si staccarono da lei finchè non ebbero il cartoncino: e il nome e la persona dell'estraneo riempirono il loro mondo.
- Ma lui non ha casa? - domandò Nino.
- Quanti anni avrà? - domandò Salvador.
- Forse dieci, - rispose l'altro pensieroso. Dieci anni erano per lui già un'età avanzata.
- Eh, forse trentatrè o trentaquattro, - corresse la mamma: e Salvador, pensieroso anche lui, cominciò a contare con le dita.
- Allora, se muore come papà, ha altri otto anni da vivere.
Lia tornò in cucina senza rispondere, con gli occhi pieni di lagrime. La serenità dei bimbi, che, pur sapendolo morto, parlavano del padre come se fosse vivo e dovesse da un momento all'altro riapparire fra loro, era il suo strazio maggiore.
D'altronde ella si faceva un dovere di non turbarli col suo dolore; ma non aveva ancora la forza di parlare di lui come d'un caro lontano che deve ritornare o che si deve raggiungere.
Si rimise a preparare la modesta colazione, e le sue lagrime caddero sulle vivande. Da tanti mesi lei e i bimbi mangiavano spesso il desiderio condito così: ed erano lagrime di dolore, d'inquietudine, qualche volta anche di rimorso.
- Ecco, ecco - ella pensava - tutta l'orribile profezia s'è avverata, ed io non credevo, io chiudevo gli occhi! Che faremo, dunque, io e loro?
E riviveva continuamente nel passato, in quei brevi anni che erano stati come un'oasi nel deserto. Adesso ella aveva ripreso il viaggio, non più sola, ma peggio che sola, e i suoi occhi erano colpiti da un bagliore accecante, dall'immensità spaventosa di un deserto ancora più grande e arido di quello che prima la circondava.
E ciò che più l'atterriva era il ricordo delle sue inquietudini, dei suoi presentimenti, delle avvertenze dello zio Asquer e degli altri. Ricordava la visita al paesetto, i brontolii della zia Gaina, i suoi propositi di lavoro. Gli anni erano passati inutilmente. Ella aveva allevato il bambino suo, ed educato il bambino altrui: poca cosa invero contro le insidie del destino che si divertiva a tormentarla. Ella lo odiava, questo destino maligno, ed era pronta a combatterlo; ma si sentiva ancora fiaccata dai terribili colpi avuti, e le pareva di procedere a stento, barcollando.
- Che avverrà di noi, che avverrà? Farò dunque l'affittacamere, sì; ma se io morrò, che avverrà di loro? - È impossibile; tu non morrai, le rispondeva una voce interna, più disperata che convinta. - Anche per lui dicevo così. Ed egli è morto! Egli è morto! - ripeteva l'altra voce.
Allora il ricordo che, nonostante le sue inquietudini e le previsioni sue e degli altri, l'orribile avvenimento s'era compiuto, le dava impeti di disperazione profonda. Non è vero che le cose prevedute non succedono: sono anzi inevitabili, come dopo il giorno la notte e dopo l'autunno l'inverno.
Ella ricordava le confidenze, le preghiere, le raccomandazioni di suo marito, negli ultimi suoi giorni.
- Io ti ho sposata per amore. Lia, mia gioia, - le diceva baciandole le mani e aggrappandosi a lei come un naufrago all'asse fragile che la corrente trasporta assieme con lui, - ma anche per dare una madre al mio piccolo orfano. Tu non lo lascerai, vero, tu non lo abbandonerai, Lia... Io ho sempre avuto paura di morir presto e di lasciarlo solo al mondo...
Ed egli era morto presto e Salvador non era rimasto solo. Ma perchè Justo, così amante della famiglia, non aveva preveduto anche il resto? Sì, aveva cercato di prevederlo: e negli ultimi anni, dopo la nascita del secondo bambino, per assicurare alla famigliuola un piccolo capitale egli aveva lavorato giorno e notte come uno schiavo, logorando la sua vita come un panno troppo usato.
Ma cos'è un piccolo capitale di diecimila lire in una grande città? mucchietto di paglia che il vento disperde in un attimo.
- Noi non morremo di fame. - pensava Lia. - ma se io non riuscirò a guadagnare qualche cosa morremo di inedia, il che è peggio ancora...
I bimbi avevano bisogno di nutrimento sano, di spazio, di moto; ella non aveva paura della povertà, ma si sentiva soffocare all'idea di doversi ritirare con loro in una camera stretta e senz'aria; d'altronde e-r-a n-e-c-e-s-s-a-r-i-o. Tutte le cose più tristi da lei prevedute succedevano: ella aveva già intaccato il piccolo capitale, e adesso, ecco, doveva piegarsi ad accettare in casa un estraneo, un ignoto, a cederglielo il s-u-o letto, la s-u-a camera, a ritirarsi coi bimbi in uno spazio limitato.
Aveva dunque ragione di piangere, invece di rallegrarsi; e rimescolava i piselli nel piccolo tegame rivolgendosi la domanda che da tanti anni la perseguitava:
- Che posso fare?
Un grido di Salvador e il pianto di Nino la richiamarono dai suoi torbidi pensieri: vigile e pronta tornò alla realtà e corse e trovò i due omini che litigavano per un pezzetto di carta rossa.
- È mio, ti dico, è mio!
- È mio, invece, è mio!
Salvador scuoteva il fratellino; ma l'istinto della proprietà dava a Nino una forza di Ercole infante: il suo visetto rosso appariva, attraverso il velo dei capelli frementi, come un pomo in mezzo al fogliame d'autunno; coi dentini brillanti stringeva la lingua tesa nello sforzo, e i suoi pugni, non del tutto innocui, piovevano rapidi sul fratello maggiore.
Lia piombò in mezzo a loro e li divise.
- Vergogna! Per un pezzo di carta!
- Mamma, senti, il fatto è stato questo: la carta era mia, lui, che è dispettoso, tu lo sai, l'ha stracciata.
- No, no, no! - gridava Nino, che era il più prepotente, e negava tutto, negava sempre, negava anche la luce del sole. Per lui non esisteva che la sua volontà; quando si trattava di difenderla, tutte le armi, e specialmente quelle della bugia erano buone.
- Sentite, - disse Lia, minacciandoli ed esortandoli assieme. - Vi ho detto mille volte che non dovete litigare. Siete fratelli, non siete nemici. Se non vi volete bene fra di voi, fratellini, chi amerete dunque? Chi vi vorrà bene? se poi sarete cattivi, peggio ancora. Tu poi che capisci già, Salvador, tu dovresti compatire il tuo fratellino e dargli il buon esempio. Spero poi che quando verrà a star qui quel signore non farai chiasso. Lo sai che siamo poveri e abbiamo bisogno di affittare le camere, adesso. Ma se tu farai così, gl'inquilini scapperanno; e allora?
Egli ascoltava pensieroso, rosicchiando la cocca del grembiale, mentre Nino, contento che la mamma non lo sgridasse troppo, le baciava la mano.
- Quando sarò grande lavorerò, - promise Salvador. - Anzi adesso farò il còmpito!
Andò a cercare la sua cartella e «illustrò una vignetta».
«A pagina 46 del mio libro di lettura io vedo un bambino seduto davanti a una tavola, davanti a una finestra dalla quale si vede un bel paesaggio coi buoi che arano la terra e il contadino che ci va dietro; e un altro contadino lavora col badile, e in aria c'è un uccellaccio che va in cerca di mosche da portarle ai suoi piccini. Il bambino seduto davanti alla tavola deve fare il suo còmpito ed io penso che lui dice fra sè: tutti lavorano, e devo lavorare anch'io se voglio vivere tranquillo. E quindi si mette a lavorare con piacere e fa il suo dovere e rende contenta la mamma».
Finito di scrivere rimase alquanto pensieroso; pulì con le dita una macchia d'inchiostro, rosicchiò la punta della penna, infine, per render completamente contenta la mamma, «fece» anche un problema.
«Una povera donna deve pagare settanta lire al mese per la sua casa: affitta una camera a un signore e prende trecento lire: quanto rimane alla povera donna?»
Un sorriso di gioia illuminò il suo visetto di madreperla: prese il quaderno e corse in cucina. La mamma lesse, corresse, e in ultimo sorrise anche lei.
- Se continua di questo passo, la povera donna diventa milionaria.
- È meglio, allora! - disse fervidamente il fanciullo. - Anche noi possiamo fare così, e diventar ricchi anche noi.
E in attesa di questa fantastica fortuna andò ad apparecchiare la tavola: mise la sedia davanti alla credenza, ci salì d'un balzo, a piedi giunti, prese i piatti i bicchieri, la bottiglia, la saliera, porgendo mano a mano ogni cosa a Nino e dandogli ordini severi.
Durante la colazione si parlò continuamente di «quel signore», e furono, da parte dei bimbi, promesse di non disturbarlo mai, progetti e castelli in aria, ma anche osservazioni e critiche non prive di finezza. Il naso, i baffi, i bottoni, le scarpe, il bastone dell'estraneo avevano già preso un gran posto nel mondo dei due fratellini: come non occuparsene e non scovarne i difetti e i lati ridicoli? Come non imitate il suo modo di parlare e di camminare? La mamma, al solito, mise fine alla commedia, di cui naturalmente Salvador era spesso l'attore e Nino lo spettatore che rideva fino a farsi venire il singulto: il piccolo dovette andare a letto, mentre Salvador s'affaccendava in cucina e nella saletta da pranzo, sparecchiando, scopando, aiutando ad asciugare i piatti, svelto e chiacchierone come una donnina. Ma quasi sempre i discorsi fra lui e la mamma erano elevati e spesso anzi si aggiravano intorno a cose sublimi. Mentre la mamma, curva, con le sottane fra le gambe, lavava per terra, egli con lo strofinaccio in mano, fissava gli occhioni luminosi nel vano infocato della finestra, su quel lembo di cielo azzurro lontano e ardente come un cielo tropicale, e domandava:
- Quanti metri cubi può essere grande il cielo?
- Il cielo è infinito, lo sai; non si può misurare.
- Nessuno ha provato, però. Se uno provasse?
Egli si slanciava verso la finestra, agitando le braccia, sembrandogli già di nuotare all'infinito; ma una savia osservazione di Lia lo richiamava alla realtà.
- Bada di non cadere, intanto.
- Mamma, che cos'è la vertigine? Tu sei mai stata in dirigibile?
- Io no. Ci andrai tu, spero!
- Io no, veh! Io non voglio cadere e lasciarti sola. Io non voglio aver vizi. Non voglio fumare, non voglio portare il bastone nè gli anelli.
Tutto ciò che era superfluo già rappresentava per lui un vizio.
Nino, intanto, nel suo lettino, non poteva addormentarsi. Sentiva la mamma ed il fratellino a chiacchierare ed era geloso; di tanto in tanto sollevava la bella testa riccioluta e tendeva le orecchie, e ogni parola di Salvador o di Lia rappresentava per lui un mistero. Egli viveva una meravigliosa vita di sognatore; ogni riflesso, ogni ombra, ogni gioco di luce era per lui un fenomeno; fantasmi luminosi e mostri, contro i quali del resto bastava la sola protezione della mamma, animavano il suo mondo.
Quando Salvador e Lia entrarono in camera, abbandonò la testa sul cuscino e chiuse forte gli occhi; ma come la mamma si curvava a guardarlo scoppiò a ridere, e dopo che ella, per convincerlo ad addormentarsi, ebbe raccontato la storia di un bimbo del suo paese, che, per non voler mai riposarsi, era diventato gobbo, egli a sua volta disse con serietà:
- Anche al m-i-o p-a-e-s-e un bambino mio amico incontrò un lupo, in riva a un fiume rosso, e cominciò a gridare «al lupo, al lupo». Allora...
Salvador rideva: la mamma disse:
- Adesso, basta; dormiamo.
Per un momento tutto fu silenzio, nella camera buia; ma a un tratto Salvador disse, inquieto:
- E se quel signore suona? Se non lo sentiamo?
- Lo sentiremo. Non pensarci.
Ma egli non potè addormentarsi.
E in attesa di «quel signore» Lia e i bimbi dovettero passare il pomeriggio a casa. Essa lavorava accanto alla finestra del salottino, un po' seguendo il corso dei suoi ricordi, un po' abbandonandosi già al presente e pensando al modo di disporre la casa se «quel signore» si decideva a prender la camera e il salotto; i bimbi intanto si rincorrevano nelle altre camere, giocando e litigando, un po' nervosi per la forzata clausura. Salvador ne capiva il perchè e non si lamentava; ma Nino entrava ogni tanto dalla mamma e le baciava la mano, le ginocchia, o si alzava sulla punta dei piedini mormorando:
- Un p-a-c-i-o, un p-a-c-i-o, - e lei reclinava la testa ed egli la afferrava al collo e la baciava sulle guancie, come sempre quando desiderava qualche cosa.
- Che cosa vuoi, Nino?
- Andiamo fuori, mamma!
- Più tardi, anima mia. Aspettiamo quel signore, poi usciamo.
Ma le ore del lungo pomeriggio luminoso passavano inutilmente, e una volta Nino, che era sempre l'ambasciatore delle cause che il fratello non osava perorare, andò a dire in segreto alla mamma:
- Anche Salvador vuole uscire!...
Lia chiamò il fanciullo. E lo abbracciò, stringendogli forte le spalle magroline. Egli era già alto come lei quando stava seduta e le rassomigliava in modo strano: il suo visetto dai grandi occhi dolci e ardenti esprimeva ansia, desiderî, fantasticherie superiori alla sua età.
- È vero che hai mandato tu Nino?
Salvador negò; ma siccome Lia lo fissava negli occhi dicendo che gli vedeva un punto giallo nelle pupille, segno di bugia, egli, sebbene non credesse al punto giallo, chiuse gli occhi e strinse le labbra per non ridere.
- Sì, ho detto la bugia.
- Usciremo più tardi, anima mia. Tu capisci, abbi pazienza.
Ma i bimbi erano stanchi di giocare; entrarono nel salottino e sedettero sul divano, sospirando e sbadigliando. Dopo un momento di silenzio Salvador domandò:
- Mamma, cosa mangiano le tartarughe? Tu, al tuo paese, avevi qualche tartaruga? Qualche biscia?
Allora ricominciarono i racconti del paese lontano, ai quali i bimbi s'interessavano in modo straordinario. Salvador ricordava ancora la brughiera, la casupola, i giorni di libertà goduti laggiù; e Lia, a misura che gli anni passavano, che la vita le mostrava sempre la stessa faccia di sfinge, ripensava anche lei alla brughiera, alla casupola, ai giorni del passato, con quella nostalgia infantile che colorisce le cose lontane e le rende belle, come la nebbia rosea del mattino rende belli i più aridi paesaggi.
Talvolta la pareva di sentir ancora il grido dell'assiuolo e di veder lo specchio delle paludi. Nulla era cambiato nell'animo suo: le pareva d'essere ancora la fanciulla melanconica che all'ombra del palmizio sognava il mondo bello e grandioso. Dov'era questo mondo? Ella era partita una mattina di primavera, in cerca della vita: e la vita l'aveva irrisa, gettandole appena qualche briciola per saziare la sua fame, e l'aveva percossa e buttata a terra. Eppure ella conservava, in fondo al suo cuore, un senso d'attesa e di speranza. Gira e rigira si trovava allo stesso punto dond'era partita: sola in mezzo ad una solitudine desolata; ma l'orizzonte non era chiuso, e al di là qualcosa doveva pur esistere: qualcosa d'ignoto e di grande, ch'ella non conosceva e neppure indovinava, ma verso cui anelava con tutte le forze represse della sua anima, come il cieco alla luce.
Cammina, cammina, dunque voleva andar oltre, non tornar indietro, e sebbene la pace morta della landa la richiamasse, resisteva all'invito, e andava avanti.
- Sai cosa dobbiamo fare? - disse a un tratto Salvador. - Andiamo ancora a star là. Tanto adesso papà è morto. Là c'è da correre, eppoi ci fanno tanti regali.
- Ah no, - disse subito Lia. - Là non ci sono scuole. E voi dovete studiare, carini miei, e abituarvi a lavorare, a vivere fra la gente.
- Ma là ci sono anche i contadini. A me piacerebbe molto fare il contadino.
- A me il cavallino! - disse subito l'altro, che ascoltava avidamente.
- Tu non sai quello che dici! - gridò Salvador, spingendolo sul divano.
- Quando si è intelligenti come voi bisogna studiare e diventare grandi uomini.
- Il papà era un grande uomo?
Ella disse pietosamente di sì.
Uno squillo di campanello li fece trasalire.
- È lui! - disse Salvador balzando nel corridoio. Ma la mamma lo richiamò con un gesto, lo fece rientrare in salotto e impose:
- Silenzio, eh? e niente domande.
Andò ad aprire, e non sapeva perchè le batteva il cuore.



II


Nei giorni seguenti ebbe molto da fare per la nuova disposizione dell'appartamento. Ma la fatica non la spaventava; e il portinaio grasso e bonario, aiutandola a trasportare i mobili, le diceva parole d'incoraggiamento e di speranza che la commovevano.
- Coraggio, signora Lia! Sa di che cosa si deve aver paura soltanto? Della vecchiaia. Quella, veh, ammazza anche i morti; ma per il resto, i dispiaceri cadono, paffete, come le frutta quando son marce. Il signorino ha un'aria da buon ragazzo.
Egli strizzava gli occhi celesti ingenui mentre Lia s'asciugava il sudore con la punta delle dita e sperava. Salvador e Nino aiutavano, strofinando con cura le gambe delle sedie; sottovoce pronunziavano qualche parola proibita, - di quelle parole che più son proibite, più son misteriose e piacevoli a dirsi, - e ridevano, sotto il divano, come due grilli sotto un tronco; poi, ebbri e stanchi di gioia, litigavano, piangevano si rincorrevano carponi come cagnolino stizziti.
Finalmente tutto fu in ordine; la sala da pranzo trasformata in salotto, questo in sala da pranzo: per la mamma e i bimbi rimaneva la camera in fondo, la più piccola, ove stavano appena due lettini e un armadio.
Lia si riposò; ma dopo l'eccitazione dei primi giorni sentì una tristezza profonda: di nuovo provò l'umiliazione della sua impotenza, si vergognò di non aver cercato ancora lavoro, di aver accolto in casa un estraneo. Gli aveva ceduto la s-u-a camera, la camera ove era morto Justo, s'era ritirata in fondo all'appartamentino che aveva conosciuto la sua felicità, come uno che balza indietro sgomentato, sulla spiaggia dorata, all'avanzarsi del flutto. Un sentimento di rancore verso l'estraneo, che per lei rappresentava tutto il p-r-o-s-s-i-m-o indifferente e pericoloso, cominciò a tormentarla. Il m-e-s-t-i-e-r-e di affittacamere le sembrava un grado di decadenza morale; ma questa stessa umiliazione le dava, a sua insaputa, una forza occulta: il desiderio di lottare, di sollevarsi, di tentare la sorte. Qualcosa doveva pur fare: ella non sapeva ancora che cosa, ma si sentiva pronta alla lotta.
La donna di servizio, che ella aveva dovuto prendere per le più urgenti faccende della mattina, la esasperava coi suoi racconti e la sua filosofia volgare. Era una donna di ottimo cuore che amava i bambini per un istinto quasi animale, e compativa Lia perchè conosceva la miseria di altre famiglie decadute. Piccola e grassa, con un gran petto rotondo e duro che pareva un bastione di offesa e di difesa, buono a farsi largo tra la folla, paffuta e grigiastra in viso, con gli occhi azzurri e i capelli così radi che sembravano pennellate d'inchiostro sulla cute pallida del cranio, correva di qua e di là come una palla elastica e in un attimo rimetteva silenziosamente a posto ogni cosa: aveva un nome dolce che Lia pronunziava con piacere: Rosa, e parlava dei suoi padroni con pietà materna.
- L'altra signorina dove vado a servire alla mattina, quando ho finito qui, quella sì, può dirsi disgraziata, non lei, signorina mia. Lei è in paradiso, in confronto: lei è bella, è sana, è intelligente: quell'altra è una povera anima. Pazienza! È un filo, un soffio, e deve lavorare per la nonna paralitica e tre sorelline piccole. Nè babbo nè mamma, pazienza, ma far lei da babbo e da mamma a diciott'anni, signorina mia, pensi!
- Come lavora? - domandò Lia.
- Scrive a macchina. La macchina gliel'ha comprata una signora benefica, che va a trovare la povera paralitica: si chiama la signora Bianchi.
Lia trasalì. La signora Bianchi era la stessa che aveva mandato le rose rosse, a lei ed a Justo sposi; che li aveva sovente invitati alla sua tavola scintillante di cristalli e di sorrisi, e che ancora di tanto in tanto mandava a prendere Nino e Salvador per offrire la loro compagnia gaia e semplice al suo bimbo malaticcio.
- La signora Bianchi, io la conosco... Sono stata a pranzo da lei...
La serva le balzò davanti, fissandola in viso con occhi scintillanti.
- Anche lei la conosce? È stata a pranzo? Allora...
Lia scosse la testa con fierezza.
- Ma io non ho bisogno di nessuno! Rosa!
- Non si sa mai, signorina mia; non si sa mai!
- Tacete! - disse Lia irritata. - Meglio morire che viver di elemosine.
Una mattina arrivò l'inquilino. Salvador era già a scuola, e Nino, relegato nella saletta da pranzo, si contentava di sporgere la testa dall'uscio, stringendo sotto il braccio la sua pecorina sporca e raccomandandole sottovoce di non belare.
- Altrimenti quel signore scappa via.
Il bambino provava per quel signore un sentimento arcano, misto di curiosità, di terrore, di odio e di stima. Eccolo che arriva! Come è alto! Come i suoi baffi son dorati e belli! Salvador ha un bel ridere: il bastone dal pomo lucente, l'anello con la goccia d'acqua che quel signore tiene al dito, lo scricchiolìo delle sue scarpe, il colore violaceo della cravatta, tutto desta in Nino ammirazione e timore. Il bastone specialmente attira la sua curiosità e il suo desiderio, come un oggetto il cui possesso può dare una grande felicità. Ma questa felicità bisogna sapersela guadagnare, con la pazienza ed anche con l'astuzia.
Un uomo grande e nero segue quel signore, portando sulle spalle un baule giallo: la voce velata della mamma dice: qui, qui, - e si sente un rumore di passi e di oggetti che stridono sul pavimento: poi l'uomo, il signore, la mamma spariscono, e per qualche minuto Nino non vede più nulla.
- Non miagolare, - egli ripete al suo pecorino, - altrimenti quel signore scappa via, ed io ti metto in castigo.
Ma intanto egli preme il braccio e il pecorino così stretto, bela per forza.
- Ed io l'ho detto che disubbidivi! In castigo, adesso...
Per metterlo in castigo, cioè nell'angolo dietro la porta d'ingresso, uscì nel corridoio; così vide l'uscio della camera aperto, e la mamma vestita di nero come sempre, ma insolitamente rossa in viso, che apriva i cassetto del canterano e consegnava una chiave quel signore dicendogli:
- Qualunque cosa le occorra...
- Grazie, - disse quel signore, con la sua voce calda e sonora.
Nino s'avvicinò alla porta e quindi all'attaccapanni, dal quale pendeva il bastone color nocciola col pomo verdognolo che pareva un fico: impossibile non esaminarlo da vicino e non tentare di toccarlo; ma egli aveva appena teso al manina, quando la mamma e quel signore uscirono nel corridoio.
- E questa è la chiave del portone.
- Va bene, grazie; allora, se crede, lei può metter la roba a posto.
- Non dubiti: subito.
Fortunatamente quel signore uscì, senza veder Nino che aveva fatto a tempo a ritirarsi nell'angolo. Ma la mamma lo vide, sì, e lo prese per il braccio, dicendogli le cose che più lo umiliavano:
- Subito subito hai disubbidito: sei più cattivo di Salvador. Come si fa?
Egli chinò la testa e ripetè fra sè: - Come si fa? - e ritornò nella saletta da pranzo; ma dopo un momento, dimenticate le sue pene, curiosava di nuovo nel corridoio. La mamma rimetteva nel cassettone e nell'armadio i vestiti e le camicie di quel signore; e ad un tratto si curvò ed estrasse dal baule un quadretto che guardò e poi depose sul marmo del comodino. Allora il bimbo non potè più tenersi: entrò, in punta di piedi, s'avvicinò, guardò: dal quadretto gli sorrisero tre figure; un vecchio dalla lunga barba e dall'aspetto nobile e fiero; una donna di mezza età, rubiconda, coi piccoli occhi azzurri e i capelli tirati come quelli di Rosa, e una giovinetta che rassomigliava a quel signore, così bianca e con la fossetta sul mento.
Incoraggiato dal silenzio della mamma, che continuava ad estrarre oggetti dal baule, Nino domandò:
- Chi è questa bambina? Di chi è?
- Sarà forse la sorella del signor Guidi.
- E questo vecchio?
- Sarà suo padre.
- Suo padre? Ah, ah, tu mi fai ridere!
- Perchè, insolente?
- Perchè tutti i padri sono morti.

*

L'estraneo era metodico e taciturno: usciva tardi alla mattina e rientrava tardi alla notte, sempre alle stesse ore: e se per caso rientrava durante la giornata non faceva chiasso, ma pretendeva che anche intorno a lui regnasse il silenzio più profondo. La sua camera era sempre in disordine, impregnata da un forte profumo di sapone fino.
Dopo il primo giorno egli non aveva più rivolto la parola a Lia, contentandosi di dare qualche ordine alla serva: e le domande, i sorrisi, le offerte e le investigazioni di questa s'erano spuntate come contro una pietra.
- O non capisce l'italiano, sebbene lo parli o è sordo, - disse Rosa: e i bambini risero e fecero tesoro della scoperta. Se alla mattina Salvador faceva chiasso e la mamma lo sgridava, egli diceva con aria perfidamente ingenua:
- E tanto è sordo!
I due fratellini covavano una sorda antipatia contro l'estraneo: Salvador, più cosciente, aspettava ancora un segno di benevolenza da lui, e vedendosi trascurato provava un'ostilità invincibile; l'istinto primitivo del debole contro il forte da cui viene spostato e cacciato in un angolo.
Anche Lia provava lo stesso sentimento: di notte aveva paura e si chiudeva in camera e trasaliva ad ogni minimo rumore. Chi era là, nella sua casa? Un ignoto, un uomo che ella non aveva mai veduto nella sua strada. Egli poteva farle del male e andarsene come un ladro notturno. Che fare, che fare? Ella si stringeva ai suoi bambini, ma aveva paura anche per essi.
Una mattina Rosa, che divideva l'ostilità della sua padrona per l'estraneo, portò misteriose notizie su di lui.
- È da poco a Roma. Era impiegato in un altro posto, chissà dove; ha cambiato con uno qui del Ministero, uno che aveva perduto al gioco e s'è come venduto il posto: sì, pazienza; e anche questo nostro signorino non si sa chi è: non parla mai con nessuno, ma il portiere del Ministero, che è mio amico, dice che dev'essere ammogliato. Ma la moglie dov'è? pazienza: se si potesse domandarlo a lui; ma non capisce l'italiano.
Ammogliato? Diviso dalla moglie? Il suo aspetto non era certo quello d'un uomo felice. E d'un colpo il rancore e le paure di Lia caddero, ed ella si sentì legata all'estraneo dal filo sottile che unisce un infelice all'altro, anche se essi non lo vogliono, come il filo del ragno unisce le spine del cespuglio attorno a cui si aggira.
Allora la sua vita riprese, in apparenza, il suo corso se non lieto, tranquillo: fra la sua piccola rendita e quello che le dava il Guidi, ella riusciva a pagare il fitto di casa e a mantenere la famigliuola. È vero, però, che lei e i bimbi si contentavano del puro necessario: vivevano di latte, di uova, di erbe. La domenica ella faceva un dolce molto economico, di ricotta e di zucchero, ed i bimbi rimanevano contenti per tutto il resto della settimana, o fino al giorno in cui la signora Bianchi mandava a prenderli e faceva servir loro una merenda da novella di fate. Ma verso gli ultimi di maggio la pietosa signora partiva e le feste finivano.
Col primo di giugno Salvador andava a scuola alle otto meno un quarto, per tornare alle dodici e mezza: rientrava stanco e nervoso; e vedendolo così, Lia, anche lei sfinita, s'inquietava e si rattristava.
Ella doveva alzarsi presto, alla mattina, per accudire a tutto, preparava il caffè, scaldava l'acqua per l'estraneo; lavava i bambini e li chiudeva nella saletta da pranzo, perchè non facessero chiasso, sorvegliandoli come carcerati. Ma anche Salvador si ribellava; nella lotta quotidiana fra lei e i bambini ella vinceva sempre a forza di volontà e talvolta di rigore eccessivo.
Un giorno dovette dare uno scapaccione a Salvador che incitava Nino ad andare a picchiare all'uscio del Guidi; e il fanciullo si mise a piangere sconsolatamente.
- Tu mi maltratti perchè non mi vuoi bene. Nessuno mi vuol bene, nessuno, perchè io non ho papà e non ho mamma...
Per un senso di giustizia e per cancellare dall'anima di Salvador la triste impressione, ella percosse anche Nino.
Allora accadde una scena comica e pietosa: Nino cercò protezione nel fratellino; piansero assieme, e anche il piccolo ripeteva:
- N-i-c-c-i-u-n-o mi vuol bene p-e-c-c-h-è non ho papà nè mamma!...
Lia diventò nervosa. Sopravveniva il caldo, spesso soffiava lo scirocco e turbini di polvere velavano l'aria, rendendola irresponsabile. Tutti i giorni, dalle quattro alle sette, ella conduceva i bimbi a Villa Borghese, e mentre essi giocavano nei prati ove l'erba cominciava a inaridirsi, ella ripensava al passato, seduta davanti alla fontana, nello stesso posto ove Justo le aveva dichiarato il suo amore. E cadeva in una specie di sogno sembrandole di riveder la figura dello zio, melanconica e tetra, e la figura melanconica e dolce di suo marito.
Quel luogo era per lei quasi sacro, come un tempio ove fossero sepolti i suoi cari; i loro spiriti le si aggiravano intorno, le parlavano con la voce monotona della fontana, col mormorio degli alberi. Le pareva di aver sognato e di sognare ancora: ecco, bastava alzarsi, volger la testa, per vedere ancora la mite figura di Justo stesa sull'erba, intenta ai giochi del piccolo Salvador. Sembrava ieri, sembrava un secolo!...
Ma ella si voltava, vedeva i bimbi vestiti di bianco, con una fascia nera al braccio, e trasaliva come svegliandosi di soprassalto; e un nodo le stringeva la gola, costringendola a curvare nuovamente la testa oppressa dal peso dei ricordi.
L'illusione tornava. Ella si rivedeva là, due anni prima, un anno prima: là, allo stesso posto, quieta, tranquilla, come assopita nella sua felicità quotidiana diventata abitudine. Bastava alzarsi, chiamare i bimbi, tornare a casa per trovare la tavola apparecchiata, il pranzo pronto, Justo che aveva finito il suo lavoro e aspettava i suoi figli e sua moglie e i loro baci, come un compenso al suo sforzo e alla sua tenacia di lavoratore.
Povero Justo! Nell'ultimo anno era diventato un po' nervoso, più taciturno ma meno calmo del solito: e s'era vieppiù ingrassato, ma d'una pinguedine molle, pallida, quasi vuota. Qualche volta Lia, che aveva studiato lo spagnuolo, provava una strana impressione nel leggere gli articoli di suo marito: le pareva che anch'essi fossero sempre più abbondanti di parole, ma scialbi, morti: riflettevano, per così dire, la stanchezza e l'esaurimento del giornalista.
Lia non s'illudeva: Justo era in decadenza, come uomo e come scrittore, ed ella talvolta, accorgendosi di valere poco per lui, provava un senso di umiliazione. Un'altra donna forse avrebbe tenuta desta l'intelligenza di Justo, dedicandosi tutta a lui, eccitandone l'ambizione: neppure questo ella aveva saputo fare; non era riuscita a farsi amare da lui come un'ispiratrice, di quell'amore che è fonte di creazione artistica, e lo aveva legato a sè, nella cerchia della modesta felicità domestica, in modo ch'egli non cercasse fuori di casa altre ispiratrici ed altre inspirazioni.
Adesso si rimproverava tutto questo; ma nei momenti di rassegnazione pensava che, spinto a fare di più, Justo si sarebbe egualmente esaurito, e sarebbe morto poichè la sua ora era giunta.
Allora si scuoteva e si guardava attorno come l'uccello che si sveglia sul nudo ramo, d'inverno. Rabbrividiva ma pensava a vivere, e la visione del presente le si svolgeva attorno desolata ma nitida.
Una notte Salvador si svegliò piangendo, tormentato da un forte dolore ad un orecchio. Era una notte burrascosa e calda; soffiava un forte scirocco, di tanto in tanto la grandine batteva ai vetri e il rombo del tuono dava la lugubre idea che la città crollasse.
I nomi delle malattie più fatali le passarono in mente: un folle terrore la invase al pensiero di trovasi sola davanti a un pericolo oscuro. Ah, ella conosceva già quel terrore, e il ricordo delle ore passate al capezzale di Justo morente aumentava la sua angoscia. Tutto il mistero di una solitudine infinita, di una notte in mezzo al deserto la circondava.
Prese Salvador fra le braccia, lo cullò, gli parlò come ad un bimbo di due anni; egli piangeva, ma capiva il dolore di lei e, pur lamentandosi, cercava di confortarla.
- Domani sarà passato, mamma. Mamma cara, non può durare, se no, come vado a scuola? Ho fatto da cattivo, ho fatto chiasso, mentre il signor Guidi dormiva, e così ti ho recato dispiacere... e perciò Dio mi castiga... Ma tu mi perdoni, mamma, e anche Dio mi perdonerà...
Finalmente all'alba il dolore diminuì ed egli si riaddormentò.
Anche il tempo si rasserenava: Lia era stanca, affranta, ma non tornò a letto.
L'alba la chiamava. Aprì la finestra e sentì il profumo dei giardini, il canto degli uccelli. Guardò il cielo solcato da piccole nuvole di argento che si rincorrevano e parevano dirette verso un orizzonte ove tutto era pace e freschezza e sentì la nostalgia dei luoghi solitari, delle spiaggie marine e desiderò prendere con sè i suoi bambini, portarli fuori da quella stanzetta che sembrava una gabbia e seguire con loro le nuvolette che andavano verso le montagne e verso il mare. Ma ben presto s'accorse che tutto questo era poesia. La realtà sogghignava alle sue spalle, e la richiamò con lo squillo del campanello del signor Guidi.
Era la prima volta che egli suonava a quell'ora insolita. Lia corse contrariata ed inquieta, provando, come sempre, un senso di umiliazione e di pudore offeso nel vedere un estraneo nel suo letto, al posto di Justo.
Egli stava sollevato sul gomito ed era pallido in viso, coi baffi spioventi, gli occhi cerchiati di nero.
- Scusi, - disse con voce rauca. - Mi sono sentito poco bene stanotte. Vorrei una tazza di caffè... se non le dà noia...
- Subito! - ella rispose, placata all'idea che anche lui soffriva.
- Anche il suo bambino è stato poco bene? - egli domandò quando Lia portò il caffè. - Era il piccolo?
- No, era Salvador che aveva male ad un orecchio.
- Lo porti dal medico, - aggiunse il signor Guidi con premura, mentre Lia lo guardava sorpresa, - perchè non ha chiamato, signora Lia?
- Ma le pare? E lei come sta, adesso? Le occorre niente?
- Grazie, nulla. Senta. Ha il medico, per i suoi bambini? Se no, posso darle un biglietto per un mio amico, il dottor Fontana, che ha un ospedalino infantile in via Mecenate. Vada, signora Lia; il male del suo bambino potrebbe anche essere un'otite e non bisogna trascurarla.
Lia lo fissava, stupita: negli occhi di lui brillava una luce di pietà, ed ella uscì dalla camera con l'impressione che i loro rapporti fossero a un tratto divenuti amichevoli: e tanto si sentiva sola, nella vita, che bastò quest'idea per confortarla.
Più tardi, sebbene Salvador non sentisse più alcun disturbo, cedendo alle premure del signor Guidi ella prese il biglietto e assieme coi bimbi andò dal medico. Fu quasi una gita di piacere perchè attraversarono a piedi tutta la via Merulana allagata di sole e di azzurro, fecero il giro del mercato di piazza Vittorio Emanuele, comprarono un mazzettino di ciliegie e sostarono nel giardino, davanti al laghetto verde solcato dai cigni neri che si lasciavano addietro un nastro d'oro.
Ma il luogo pareva assediato da una folla agitata e urlante; attraverso il verde si vedeva, sui marciapiedi ancora lucenti per la pioggia della notte passata, un luccicare di mercanzia di latta, di bicchieri di vetro, di specchi e di quadretti dalla cornice dorata. Tutto un popolo multicolore s'agitava attorno alle erbivendole le cui teste emergevano dal verde umido degli erbaggi, diaboliche e irrequiete come teste di Medusa: e accanto ai carretti colmi di ciliegie d'un rosso livido, i grandi mazzi di gigli già languenti sembravano più bianchi, d'un candore anemico di fiori malati.
Lia osservò che tutto era un po' guasto o di qualità scadente, in quel mercato popolare; le fragole erano pallide, le ciliegie troppo mature, come piene di sangue malato: l'odore del pesce guasto si mischiava al profumo acre dei fiori che marcivano. Lo scirocco aveva sciupato ogni cosa, non tanto però da allontanare la povera gente mediocre le cui condizioni - pensava Lia - rassomigliano in qualche modo a quelle della roba che compra.
Ella si vedeva nel gran numero, e un brivido di pietà e di disgusto l'assaliva. Anche il giardino era invaso da una folla misteriosa di giovanotti pallidi dall'eleganza equivoca, vestiti di verde, con le scarpe gialle; alcuni si abbandonavano a una fosca contemplazione del lago e dei cigni; altri sorridevano e gridavano parole insolenti a una donna bruna e scarmigliata che attraversava il viale sollevando le gonne sulle scarpine bianche infangate.
Lia riprese per mano i bimbi pensando con terrore che se voleva spender poco doveva abitare nelle case ove si rifugiavano quei disgraziati.
In fondo a via Mecenate si fermarono davanti a una casetta silenziosa alla cui porta batteva una striscia di sole e al cui fianco, come in certe vignette romantiche, un albero protendeva i suoi rami un po' scuri. Aprì un'infermiera grassa e candida come una colomba e sorrise ai bimbi che la fissavano con curiosità. Lia porse il biglietto, ma dovette egualmente aspettare a lungo, nel salottino dalle pareti smaltate e dai sedili di vimini. Si udiva nell'ambulatorio attiguo un sommesso chiacchierio di donne povere e il pianto d'un bimbo malato: e mentre Lia si confortava pensando che esistevano miserie più grandi della sua, Salvador leggeva i diplomi d'onore dell'Ospedalino, attaccati come quadri alle pareti. A un tratto diede un grido di sorpresa:
- Mamma, qui c'è scritto il nome della signora Bianchi, leggi!
Ella s'alzò, ma prima di leggere i nomi dei benefattori dell'Ospedalino, sentì il dottore entrare a passi lievi e ricordò allora di aver altre volte veduto quel viso calmo quasi immobile, quella testa marmorea dai folti capelli bianchi scarmigliati, alquanto rigettata all'indietro: gli occhi sporgenti e velati, con le palpebre grevi, fissavano un punto lontano. Sembrava distratto; ma quando Lia gli ricordò che s'erano già conosciuti dalla pia signora, e gli spiegò il perchè della sua visita, curvò la testa leonina ed i suoi occhi si fecero luminosi e attenti. Mise Salvador accanto alla finestra, gli esaminò la gola, gli palpò la nuca, gli diede un colpettino sulla testa.
- Andiamo a scuola?
- Son già in terza! - esclamò Salvador, ridendo dell'ingenua domanda.
La mamma lo guardò corrugando le sopracciglia, e anche Nino, che aveva già aperto la bocca per interloquire, rimase silenzioso.
- Sì, fa la terza. L'orario è lungo; cinque ore di seguito, e poi còmpito a casa, e troppa aritmetica. Il bambino si stanca, forse...
- E quindi l'anemia scolastica. Il bambino è debole. Lo conduca al mare, ma non quando fa troppo caldo.
Salvador guardò la mamma, sicuro di sentirle ripetere che per quell'anno non si poteva andare al mare perchè il papà era morto e nessuno più, in casa, guadagnava soldi; ella invece domandò se i bimbi dovevano fare il bagno tutti i giorni, o star soltanto sulla sabbia, e avuta la risposta porse la mano al dottore, ringraziandolo e promettendo di tornare.
Egli era ricaduto nella sua apparente distrazione, ma quando Lia s'avviò per andarsene si scosse e parve ricordarsi di qualche cosa.
- La signora Bianchi mi disse che lei voleva tornarsene al suo paese: s'è invece stabilita qui?
- Sì! non era possibile andar via... per i bambini... che devono studiare...
- Bene, bene!... ma non li faccia studiar troppo!
Lia trasalì. La signora Bianchi aveva parlato di lei? Perchè? conosceva le sue condizioni? Per un momento ebbe l'idea di rivelare al dottore le sue inquietudini, domandargli aiuto e pregarlo di intercedere per lei presso la pia signora, onde questa le procurasse lavoro e guadagno; ma egli aveva già aperto l'uscio, e come un mormorio triste di preghiera, di lamento e di minaccia, venne su dall'ambulatorio, dove le madri povere coi bimbi malati in braccio aspettavano; ed ella pensò che le altre miserie incalzavano, e uscì.
Nell'attraversare l'ambulatorio le parve che il suo dolore, confuso col dolore di tutta l'umanità povera, fosse meno distinto, meno vivo, come una macchia su un fondo scuro.
Appena furono nella strada, Salvador domandò con malizia:
- Dunque i soldi li abbiamo? E tu dicevi...
- Non li abbiamo, ma li troveremo.
- E come si fa? I soldi non si trovano mica per terra; lo hai detto tu.
- La mamma trova sempre i soldi per i suoi bambini, purchè questi sieno bravi. Anche per terra, se occorre.
Allora egli, rassicurato, si mise a ridere; e stringeva la mano alla mamma, gliela baciava, camminava con una gamba sola. Nino, invece, che pareva non avesse capito nulla della visita al dottore, camminava pensieroso e taciturno, a testa bassa.
- Ma che guardi, Nino?
- Guardo se per terra si trovano i soldi.



III


Per nulla al modo Lia sarebbe tornata ad Anzio, in quella spiaggia che aveva conosciuto la sua felicità e la cui sabbia le pareva dovesse ancora conservare le orme del suo povero Justo. D'altronde la vita ad Anzio costava troppo, ella quindi cercò altrove, e la serva le indicò una spiaggia poco frequentata e la casetta d'una donna che era stata sua compagna di servizio. Lia decise di partire agli ultimi di giugno, e la domenica prima della partenza entrò Guidi che in quei giorni, forse a causa del caldo, era molto nervoso e non dimostrava più alcun interesse per la sua padrona di casa.
- Bisogna che l'avverta, - disse, fermandosi timida e corrucciata accanto all'uscio, mentr'egli, che stava ancora a letto e leggeva, sollevava gli occhi guardandola con una certa sorpresa. - Io e i bimbi partiamo il ventinove. Andiamo un po' al mare. Al donna verrà puntualmente tutt'i giorni per il servizio.
Egli non protestò: solo disse:
- Avrei bisogno anch'io un po' di aria di mare. Pazienza: dove va, signora Lia? Ha trovato una bella casa?
- Andiamo in una casetta modestissima: due camerette ed una piccola cucina, si figuri! Ma il luogo è quieto, pittoresco e si spende poco.
- Verrò a trovarla, una domenica, se non le dispiace.
- Oh, venga pure! - ella esclamò con gioia. - Mi avverta, prima, se crede.
- Vediamo l'orario, - egli disse, cercandolo nella terza pagina del giornale che teneva in mano. - Ah, va bene: dal primo luglio c'è il diretto che si ferma. E così, quando partirebbe lei, signora Lia?
- Io giorno ventinove, alle dieci del mattino.
Dalle sette, il giorno della partenza, Salvador e Nino tenevano già pronte in mano le due piccole valigie ove la mamma aveva raccolto le loro vestine, le maglie, un quaderno per Salvador e persino qualche giocattolo.
Alle nove ella entrò per salutare il Guidi; egli stava per recarsi all'ufficio, e accompagnò la famigliuola fino al cortile del Ministero delle finanze. In quell'ora del mattino, il vasto cortile sembrava una piazza di città di provincia: solo qualche impiegato in ritardo l'attraversava, e il rettangolo di cielo chiaro che lo copriva era dolce e mite come un cielo di campagna; la fontana pareva spruzzasse per scherzo le sue scintille d'acqua sui piccolo palmizi e sugli oleandri dell'aiuola centrale, e nella cornice dell'arco d'ingresso, verso via Volturno, s'intravedeva uno sfondo lontano azzurro e vaporoso, come se laggiù sorridesse già il mare.
Lia si sentiva quasi felice: aveva sorriso, passando, al suo antico amore, il buon colosso di bronzo che vigilava sulla folla indifferente, e le pareva di andare verso una nuova vita.
L'uomo invece era tediato, con un'aria di disgusto sul viso pallido; domandava se la donna di servizio era fidata e guardava lo sfondo azzurro con uno sguardo freddo e triste.
- Bè, - disse, arrivati davanti alla scalinata dell'ingresso. - Buon viaggio, signora Lia. Beata lei che va a respirare un po' d'aria buona!
Lia fermò Salvador per l'omero.
- Saluta il signore.
I bimbi si fermarono e il più espansivo fu Nino, che porse la sua manina e fece due o tre inchini.
- Arrivedella, arrivedella!
I suoi grandi occhi neri, dal bianco azzurrognolo, scintillavano come due stelle, mentre gli occhi dolci e limpidi di Salvador fissavano quasi ostili il Guidi.
Ben presto il gruppo della mamma nera coi bimbi bianchi all'ombra dei larghi cappelli gialli orlati di nero, s'allontanò per la via Volturno, verso lo sfondo luminoso. Salvador disse:
- Perchè lo hai invitato? Anche là, allora bisogna che stiamo zitti.
- No, no, - disse Lia. - Là c'è molto spazio!

*

Spazio ce n'era; ma la casetta, che in maggio e giugno era stata abitata da cacciatori, conservava ancora un odore di selvaggina, sebbene l'aria entrasse a fiumi per i due ingressi, uno dei quali dava sul sentiero della brughiera, l'altro su un cortile attiguo alla spiaggia. Lia fu colpita dalla rassomiglianza del luogo col suo paesaggio natìo; solo, la spiaggia era meno lontana, e più in giù dalla casetta sorgeva una fila di ville circondate di giardini, rosse e bianche sullo sfondo turchino di un piccolo golfo, e più giù ancora la torre di un castello medioevale appariva nera tra il verde di una pineta, il cui mormorio pareva ripetesse quello delle onde.
La padrona della casetta serviva in uno dei villini, ma consegnando le chiavi a Lia le offrì di farle la spesa, alla mattina, poichè l'unica rivendita di generi alimentari era lontana, al di là del castello.
Lia accettò, e partita la donna si trovò di nuovo sola coi bimbi in mezzo alla brughiera; ma durante la giornata non si accorse della sua solitudine, occupata a riordinar la casetta ed a rincorrere i bambini che ogni momento scappavano verso la spiaggia. La loro felicità riempiva di luce la sua anima inquieta, come la luminosità del mare e dell'orizzonte rallegrava la povera abitazione. Ma al cader della notte i bimbi stanchi e beati si addormentarono, ed ella andò a sedersi come una povera serva stanca sul limitare della porta. Il mormorio del mare e il profumo della brughiera riempivano di poesia la notte: il cielo era chiaro, stellato; ed ella provò una strana meraviglia nel contemplarlo.
Le stelle! Dunque le stelle esistevano ancora? Ella le aveva dimenticate, ed ora, ritrovandole, provava una dolcezza triste, un senso di sorpresa, quasi ritrovasse degli amici di infanzia.
A un tratto fu ripresa dalle sue antiche inquietudini, dalla stessa melanconia che la affliggeva nella casetta del palmizio, dallo stesso desiderio di rompere le catene con cui la sorte l'avvolgeva. Ah, non era più tempo di sogni! Per condurre i bimbi al mare aveva intaccato di nuovo il suo piccolo capitale; domani forse, in caso di malattia o di altra sventura, sarebbe rimasta senza niente! Le pareva di essere già caduta molto in basso, poichè ricordava le villeggiature ad Anzio, la casa sul molo, i bimbi addormentati in una bella camera ariosa, e lei sul balcone vestita di merletto.
Neppure allora era stata pienamente felice... eppure a poco a poco i ricordi tornarono a vincerla, così dolci e belli che il presente le parve un incubo. Justo era ancora vivo; era assente, ma vivo. Ella lo aspettava. Fra poco sarebbe tornato; la sua figura bianca e lenta attraversava la spiaggia, saliva silenziosa fino alla casetta, si fermava davanti a lei... La sua mano dolce e morbida le accarezzava i capelli; ma nella notte incerta, al vago chiarore che veniva dalle stelle e dal mare, ella non riusciva a distinguer bene il caro viso...
Un passo risuonò davvero dietro il muro del cortile, ed ella trasalì; ebbe paura di qualche malvivente e ricordò che era sola nella solitudine della brughiera. Anche gridando, laggiù dai villini non avrebbero sentito: così nella sua vita!
Balzò dentro e chiuse la porta.

*

Un giorno il postino le diede una cartolina del Guidi e una lettera della zia Gaina. La zia Gaina, alla quale ella faceva credere di trovarsi in ottime condizioni finanziarie, si lamentava perchè Lia non pensava di tornare, almeno durante l'estate, in paese, e concludeva con le solite frasi: «se tu hai bisogno di qualche cosa dimmelo: sono povera, ma la buona volontà non mi manca».
Il Guidi annunziava il suo arrivo per la domenica. Lia aveva sperato che egli si dimenticasse: ma poichè veniva bisogna farsi onore.
Diede quindi un cestino a Salvador, destando così l'invidia del piccolo, che voleva portare qualche cosa anche lui; e tutti assieme andarono in cerca d'uova e di polli, dirigendosi verso la collina giallastra che chiudeva la brughiera, a ponente, e sulla cui cima, in mezzo a una vigna, sorgeva un cascinale, bianco nel verde come un colombo in cima ad un albero.
Il tramonto circondava con un'aureola d'oro la collina. Lia e i bimbi percorsero il sentiero fino a una casetta tappezzata di glicine, passarono il ponte sopra la strada ferrata, salirono al cascinale e trovarono le uova e i polli, e una donnina gobba, bella in viso come una fata, e gattini, canini, capre e un vecchio con una lunga barba bianca, e un bimbo scalzo che conduceva una vacca e un vitellino nero al pascolo. Sembrava un mondo fantastico, e i bimbi non volevano tornare indietro. Ma bisognò decidersi; il sole era tramontato; un velo di nebbia rosea copriva la brughiera e al di là il mare sembrava una gran coppa di latte. I monti d'Abruzzo, rosei nell'azzurro lontano, parevano a Lia i monti della sua isola.
Nino piangeva perchè voleva il cestino grave d'uova che parevan di marmo, e di una gallina gialla e nera sgozzata ma ancora calda: ma poi tacque, poi si fece portare lui dalla mamma e si addormentò sulla spalla di lei. E Salvador rideva, canzonando il fratellino; ma a un tratto diventò pensieroso, guardò la gallina e disse:
- Poverina, quando siamo andati cantava e adesso è morta. La sua anima dov'è?
- Quante volte ti dissi che le bestie non hanno anima?
- Sì; ma io credo che anche loro l'abbiano! Perchè no?
La sua piccola mente era già affaticata da grandi problemi che Lia s'affannava invano a risolvere. Rifecero la strada discutendo così profondamente che entrambi non s'accorgevano neppure del peso che li gravava.
La domenica mattina, mentre i due fratellini giocavano nel cortile sabbioso, Lia cominciò a preparare la colazione affacciandosi ogni tanto alla porta verso il sentiero per spiare l'arrivo del Guidi.
Non sapeva neppur lei se era contenta o no di questa visita che portava un certo squilibrio alle sue abitudini ed anche al suo bilancio quotidiano. A un tratto le parve che i bimbi litigassero: corse alla porta verso il cortile e si sentì battere il cuore. Un uomo vestito di bianco, - come il suo Justo, - col panama calato sulla fronte, - come il suo Justo, - stava in mezzo ai bimbi e distribuiva loro qualche cosa. Sì, anche Justo faceva così, quando arrivava alla spiaggia di Anzio. Ella non potè pronunziar parola, tanto quella visone improvvisa le fece male.
Ma quando l'uomo la salutò da lontano, ella si scosse e sorrise: ah, non era colui che non poteva tornar più; non erano i dolci occhi stanchi, il buon viso scuro, no; era un viso estraneo, bello di salute e di giovinezza, due occhi chiari, egoisti, una bocca fresca, gonfia di vita sotto l'ombra dei baffi dorati. Per la prima volta egli le parve bello, ma d'una bellezza che le destava antipatia e quasi un senso di rancore. Ah, egli era forte, era un uomo, era padrone della sua vita: ella era fragile, sola, legata a una misera sorte!
Egli 'avvicinò, agile e sorridente, e pareva si compiacesse a mostrarle i suoi bei denti bianchi di fanciullo.
- Come va, signora Lia? Si diverte?
- Oh, moltissimo, - ella disse con un sorriso ironico. - S'accomodi, ecco il nostro villino!
Egli sedette sulla povera ottomana grigia che alla notte serviva da letto, e guardò a destra, guardò a sinistra, dando in esclamazioni di gioia e d'invidia. Nello sfondo della porta brillava, sopra la linea gialla del muro del cortile, la linea violetta del mare; nella cornice del finestrino si disegnava, come in un quadretto di maniera, il sentiero rossiccio fra le macchie verdi, e in lontananza la collina bionda con la vetta verde e il cascinale bianco, in cima, sul cielo lilla. Egli quindi non badò alla stanzetta, la cui povertà era come inondata e quindi nascosta dalla luce meravigliosa che veniva di fuori: vedeva le macchiette bianche dei bimbi nel sole del cortile, il profilo arabo della giovine vedova sullo sfondo del quadretto del finestrino, e una espressione di piacere quasi infantile ammorbidiva i suoi lineamenti troppo fini.
- Signora Lia! - disse, abbandonandosi sui cuscini dell'ottomana. - Ma come ha fatto a scovare questo posto? È bellissimo; è meraviglioso!
Lia taceva, come s'egli la canzonasse. Gli versò il caffè in una tazza turchiniccia slabbrata e gliene domandò scusa.
- Qui tutto è preistorico: bisogna adattarsi...
- Ma se tutto è bello, signora Lia! O lei è incontentabile?
La guardò, sollevando gli occhi dalla tazzina, attraverso il vapore profumato del caffè, e Lia si accorse che lo sguardo di lui era mutato. Egli la guardava finalmente come una donna, non come una «padrona di casa», e doveva trovarla bella, come tutte le cose intorno, perchè l'avvolgeva nella stessa ammirazione.
Dopo il caffè Lia gli offrì una tazza di latte, e poichè egli accettava gli diede dei biscotti e infine accostò allo spigolo del tavolo il panierino del pane: come senza accorgersene egli bevette e mangiò, e anche dal viso di Lia sparve l'ombra della diffidenza e del sarcasmo. Ella sembrava felice di scoprire nel suo elegante inquilino un semplice mortale.
- Fa caldo a Roma, signor Guidi?
- Non tanto, ma certo qui si sta meglio. Oh, certo meglio!
- Ma le piace tanto davvero? È un luogo melanconico e solitario, un rifugio da gente sconsolata. Anche i villini, che da lontano sembrano pittoreschi, da vicino sono quasi brutti, coi loro orticelli mal coltivati e i giardini selvatici. Si direbbe che chi li abita sia gente infelice, afflitta da disgrazie che non permettono, a chi ne è colpito, di curarsi oltre della vita.
- Oh, Dio, potrebbe anche essere il contrario!
E come Lia lo fissava, egli aggiunse:
- Quella gente potrebbe invece esser così felice da non curarsi delle cose che la circondano.
Ella fece un segno di diniego.
- Non credo, signor Guidi! Le persone felici amano circondarsi di cose belle. Sono gl'infelici che non si curano più di nulla.
- Ah, cara signora, lei non conosce abbastanza la vita. Noi spesso giudichiamo infelici solo le persone che si curano di dimostrarcelo: questi invece non sono i veri infelici, perchè sono ancora vivi, si cullano nel loro dolore, provandone magari voluttà, e aspettano e sperano ancora. Essi non si curano più del loro giardino, ma si curano molto di loro stesso: mentre il vero infelice, signora Lia, ha cura del suo giardino, e cammina e parla e ride anche, come un attore sul palcoscenico, e fa la p-a-r-t-e di vivo mentre è morto, ben morto e sepolto...
S'era alzato e, con le mani in tasca, un po' curvo e accigliato, guardava attentamente un quadretto appeso al disopra dell'ottomana.
- Sì, anche lui dev'essere infelice, - pensava Lia. Ma a un tratto egli staccò il quadretto e lo guardò da vicino, sorridendo.
- È una stampa del Settecento e riproduce il castello, la pineta, il golfo solcato da velieri simili a barche di pirati.
I bambini intanto s'erano più volte avvicinati alla porta, e Nino, consigliato da Salvador, disse:
- Mamma, non si va a fare il bagno?
Ella gli accennò di tacere; ma il Guidi, dopo aver riattaccato il quadretto meravigliandosi di trovare un oggetto artistico in un simile luogo, uscì per lasciar libera la famigliola.
Dopo aver girovagato per la brughiera e lungo la spiaggia, si sdraiò su una specie di duna d'alghe e di sabbia e s'abbandonò alla contemplazione del mare. E a poco a poco, quasi vinto da una specie di fascino, sentì i suoi soliti pensieri abbandonarlo e provò un senso di conforto come un malato che un benessere improvviso solleva.
Allora cominciò a guardare con attenzione e con meraviglia le onde, quasi le vedesse per la prima volta. Alla linea verdastra del mare lievemente mosso s'univa la linea color lilla dell'orizzonte, e l'albero della paranze pareva toccasse il cielo: le onde laggiù erano eguali, tutte d'un colore lividognolo, ma arrivate verso la spiaggia si dividevano e si slanciavano le une sulle altre, feline e feroci. Alcune si spingevano fin sui banchi di sabbia e di alghe, avanzandosi verso la terra con insistenza nemica; altre si spandevano con una certa grazia, come veli scintillanti, e altre ancora si ritiravano appena toccata la sabbia, e pareva avessero fretta di tornarsene indietro. Ma giù lungo la linea degli scogli tutte saltavano di continuo, senza tregua, con agilità feroce, e poichè il vento taceva parevano agitate da una forza interna, come cosa viva. Gli scogli brillavano come il cristallo, e alcuni, alti e concavi, davan l'idea di enormi coppe colme di vino spumante.
Piero Guidi provava una gioia infantile nel seguire il gioco delle onde: il paesaggio gli sembrava coperto da un velo iridato, oro verde e viola, e il profumo delle alghe calde su cui giaceva gli ricordava cose tenere, lontane.
La città, la monotonia dei suoi giorni, talvolta agitati, talvolta calmi, sempre eguali però, simili a quelle onde che lo divertivano appunto perchè gli apparivano come il gioco della vita, tutto gli sembrava lontano, facile a dimenticarsi. Ecco, bastava restar lì e non muoversi più, per sentirsi tranquillo, formar parte di quel paesaggio grandioso e solitario cullato dal rombo del mare.
Immobile, quasi addormentato, egli ricordava le vicende della sua vita come non le aveva mai ricordate: con calma, senz'odio per i suoi nemici, senza paura del loro odio. Perchè tormentarsi? Bastava chiudere gli occhi, lasciarsi coprire dall'oblio...
L'arrivo di Lia e dei bambini lo scosse dal suo dormiveglia: tuttavia rimase immobile, nella sua nicchia d'alghe, e senza esser veduto seguì con gli occhi i movimenti della giovane vedova. Tanto lei che i bimbi erano scalzi e indossavano lunghi accappatoi bianchi: e bastò che Lia lasciasse cadere il suo per apparire in un costume da bagno scollato e senza maniche: la tela nera aderiva come una seconda pelle al suo corpo agile, ed ella sembrava meno alta del solito ma più giovane, bella d'una bellezza senza artifici, quasi primitiva.
Salvador si buttò subito nell'acqua, scomparve, riapparì, guizzante come un pesce, coi capelli sul visetto pallido e lucente: Nino invece aveva paura e Lia dovette prenderlo per mano e bagnargli le spalle e tirarselo addietro aggrappato a lei come un piccolo naufrago. Ella rideva e gli versava l'acqua sui capelli che si coprivano come d'una crosta d'argento: egli gridava di piacere e di terrore e a misura che l'acqua diventava più alta s'aggrappava più su fino al collo di Lia.
Piero Guidi osservava il grazioso gruppo, e la sua padrona di casa gli sembrava un'altra, una bella donna ch'egli non conosceva. I suoi capelli neri, inargentati dal riflesso dell'acqua, le fossette dei gomiti dorati, e soprattutto il collo lungo e gli omeri sfuggenti come nei ritratti delle principesse del tempo di Carlo Alberto, lo colpivano gradevolmente. Egli la guardava senza desiderio, ma con vivo piacere.
Quando ella uscì dall'acqua, e dopo aver rimesso l'accappatoio prese Nino fra le braccia, alta e svelta fra l'oro della sabbia e il verde e il viola del mare e del cielo, egli pensò a una madonna del Morelli e s'alzò per osservarla meglio: e accorgendosi che Lia lo vedeva e arrossiva, si domandò se ella piaceva a lui, se egli le piaceva; ma subito ricordò che una domanda simile un uomo se la rivolge quando una donna comincia a piacergli, e un senso di diffidenza lo riprese.

*

Rientrando nella casetta trovò Salvador che apparecchiava la tavola e si mise a chiacchierare con lui.
- Quanti anni hai? che classe fai? Sei passato senza esame?
Salvador, intento alle sue faccende, rispondeva con un certo sussiego.
- Ho fatto l'esame di proscioglimento, perchè quello lo fanno tutti, anche i bravi. A me han concesso di farlo prima degli altri, per poter partire. Mi han domandato quanti chilometri ci sono da Roma a Parigi. Sì, diss'io, ve lo saprò dire quando sarò direttore delle Ferrovie. Come hanno riso! Ma io non lo sapevo: come si fa a rispondere quando non si sa?
- Oh, ma che brigante che sei! E ginnastica te ne fanno fare?
- Sì; guardi che muscoli! - esclamò il fanciullo, sollevando la manica del grembiule e piegando il braccino esile e bruno come una corda.
- Eh, non c'è male! sembra uno stecchino!
Salvador rise, anzichè offendersi, ma subito riprese a pulire i bicchieri col tovagliuolo, e continuò:
- I miei muscoli son d'acciaio. Chissà che non diventi un gladiatore! Eh, se io, per esempio, voglio diventarlo, posso, vero, mamma? Si può tutto quello che si vuole.
- Non sempre, bambino mio, - disse il Guidi; ma Lia, che lo invitava a mettersi a tavola, aggiunse rivolta al fanciullo:
- Sì, sì, caro, si può tutto ciò che è possibile. Certo, se tu ti metti in mente di diventare un gigante, per esempio, ad onta di tutta la tua buona volontà, non ci riuscirai mai: diventar forte ed agile, sì, se lo vorrai, lo potrai. E così tante altre cose.
- Io voglio diventare un albero! - disse Nino con aria tragica.
- Un ciliegio, vero? così potrai mangiar le tue frutta senza incomodo.
E Nino fece atto di staccarsi di dosso le belle ciliegie e di mangiarle con avidità, e Salvador e la mamma risero, dimenticando la presenza dell'estraneo. Ma questi era serio, aveva voglia di discutere e domandò a Lia:
- Crede lei davvero a quanto dice? Educare la volontà, va bene; ma non è dare un'illusione ai fanciulli il far loro credere che basta volere per potere?
Lia non voleva discutere davanti a Salvador, sulla cui anima ogni parola lasciava un'impronta: rispose quindi che credeva fermamente a quanto diceva, escludendo sempre i casi della vita che sembrano combinati da una fatalità contro cui è inutile lottare.
- Tutta la vita è una serie di questi casi! - egli disse, animandosi. - E la nostra volontà è come la verità: è relativa. È spesso istinto e ci sembra volontà, è spesso ostinazione e ci sembra volontà...
- Appunto, bisogna educarla, piegarla verso il bene.
- Dov'è il bene e dov'è il male, signora Lia? Lo sa lei? Il bene e il male sono anch'essi relativi...
Continuarono a discutere, ed egli negava tutto, ma senza troppa convinzione, e Lia ripeteva cose che aveva letto sui libri o aveva sentito dire, ma di cui neppur lei era convinta: Salvador fissava con ostilità l'estraneo che osava metter in dubbio gli insegnamenti della mamma, e Nino guardava con malizia il fratello invitandolo a ridere per i gesti nervosi e il modo di parlare del signor Guidi.
Nel pomeriggio la famigliuola tornò alla spiaggia. L'ospite l'accompagnava, e mentre i bambini costruivano un acquedotto nella sabbia, egli si sdraiò sulle alghe, accanto a Lia che tagliava un paio di scarpette di tela, e domandò chi abitava i villini.
- Non so, non conosco nessuno. Soltanto so che in quella villa rossa, giù verso il castello, abita un ricco americano con due sue figlie. Fin qui non arriva nessuno, - ella aggiunse con malizia. - Se vuol vedere donne belle ed eleganti vada laggiù allo stabilimento.
- Stamattina c'erano solo due balene vestite di bianco: saran state le ricche americane; mi basta però di averle vedute una sola volta...
Lia sorrise, ma accorgendosi che egli la guardava fisso non rispose e si fece seria.
- E lei passa tutta la giornata qui? come non si annoia, signora Lia? Perchè non è andata ad Anzio?
Ella curvò la testa sul suo lavoro, e i ricordi del tempo felice la rattristarono: le pareva di rivedere la spiaggia luminosa, il suo Justo fermo a contemplare i bimbi sepolti nella sabbia: e un prepotente bisogno di lamentarsi le fece pronunziare parole dolorose.
- Io non tornerò mai più ad Anzio, - disse come parlando alla scarpetta che tremava fra le sue mani brune. - Sono stata troppo felice laggiù. Del resto - aggiunse fiera, nonostante le parole umili che pronunziava, - ormai son troppo povera per andare in una spiaggia di lusso. Il povero deve contentarsi della solitudine, nella quale, d'altronde, egli è condannato a vivere.
- Adesso è lei che fa la parte di pessimista, signora Lia! Forse perchè i suoi bambini non la sentono!
- È vero, - ella ammise sorridendo di nuovo. - Ma non creda che io nasconda a loro le mie opinioni sulla povertà, purtroppo basate sull'esperienza. La povertà! È forse davvero uno stato di perfezione, per chi è solo e vive secondo le leggi di Cristo. Ma quando non si è soli, signor Guidi! Io per me non mi lamento; ma che farebbero i miei poveri bambini se io venissi a mancare?
- La società provvederebbe a loro!
- Lei sogghigna, ed ha ragione! - disse Lia, deponendo la scarpetta sulla sabbia, e rivolgendosi con fierezza: - la società li travolgerebbe come quell'onda lì, vede travolge i fili delle alghe. Ma fortunatamente c'è qualcosa da cui si può sperare più che dalla società.
- Che cosa, signora Lia? - egli disse con finta curiosità.
- C'è un misterioso potere che ci guida anche se noi cerchiamo di resistergli. Dio? il destino? Chissà. Certo io che sono povera, che sono la più umile delle donne, sento di dover la mia rassegnazione e, diciamolo pure, la mia fierezza, a questa speranza in un aiuto che non viene dagli uomini. Io spero sempre in una giustizia superiore. Essa non abbandonerà me nè abbandonerà i miei bambini. Questo mistico senso di speranza non mi ha mai abbandonato, neppure nei momenti più neri della mia vita: è una luce che come quella del sole traspare anche attraverso le nuvole più cupe. Io spero sempre, signor Guidi, non so in che cosa, ma spero. Gli stessi avvenimenti della mia vita m'insegnano che noi siamo padroni della nostra sorte: c'è una mano che ci guida, e anche se noi vogliamo andare a destra ci spinge a sinistra, e par si diverta ad ammucchiare davanti a noi gli ostacoli per aiutarci a varcarli, e tende davanti a noi un velo che ci dà l'illusione dell'orizzonte, mentre l'orizzonte vero è al di là, al di là, e noi lo intravediamo solo nei momenti di elevazione, quando appunto questa misteriosa mano ci solleva, come la mano della mamma solleva il bambino curioso...
Parlando ella s'era animata: i suoi occhi splendevano e sembrava una fanciulla. Ma l'ospite sorrideva quasi con scherno.
- Lei parla così perchè è giovane e spera in sè, nelle sue forze, non in un potere sovrumano, signora Lia!
- Io non spero nulla da me, - ella disse, ricadendo nella sua tristezza. - Non ho fatto mai nulla di buono nè di utile, neanche quando me lo sono proposto fermamente. Ma la colpa non è mia. Non mi hanno insegnato a lavorare: sono sempre vissuta come un essere passivo, inerte.
- Me se mi pare che lei lavori anche troppo! dalla mattina alla sera!
- E che è questo? - ella disse con amarezza; e fu per aggiungere: - e che è questo, se son costretta a far la serva ad un estraneo?
Sì, di nuovo estraneo, anzi più che è estraneo nemico, poichè egli s'era alzato a sedere e le sfiorava il braccio e la guardava con gli occhi nuovamente pieni di una luce di scherno, sebbene la voce fosse carezzevole, vibrante di desiderio e di eccitamento al peccato.
- È giovane, è bella, signora Lia! Possibile che non se ne accorga? Lasci le idee melanconiche. Oh, Dio, noi volgiamo tutto in dramma, mentre la vita passa meno brutta del come ce la vogliamo ad ogni costo formare. Ma è la moda! Anche la vita noi camuffiamo alla moda; e la gonfiamo e la leghiamo con vesti sempre ridicole. Sentir lei parlare così, come parla, di provvidenza divina, di aiuto sovrumano, vien voglia di ridere: la vita è bella, signora Lia, ma bisogna denudarla di tutte le sue vesti goffe, dei suoi gioielli falsi...
Lia riprese la scarpetta e si rimise a lavorare. Avrebbe voluto dirglielo che egli si contraddiceva, poichè fino a quel momento aveva sostenuto che la vita è un dramma continuo, di cui noi siamo gli eterni personaggi; ma perchè continuare? Egli non la capiva ed ella si sentiva sola, accanto a lui, e si pentiva di avergli aperto per un attimo, sia pure con vaghe parole, l'anima sua. A che rivelare le proprie inquietudini? L'uomo è sempre indifferente ai dolori del suo simile, e spesso consiglia la pazienza o la ribellione per non porgere aiuto...
Ma il Guidi voleva lasciare in lei una buona impressione, e continuando a chiacchierare le disse fra le altre cose che egli del resto ammirava le anime semplici e soprattutto la donna forte, sana e lavoratrice.
- Donne così non ne esistono più! - disse Lia con dispetto.
- Lei dà prova del contrario!
- Oh, grazie! Si vede che la spiaggia è deserta.
- Fosse pure affollata di migliaia di donne, lei sarebbe fra quelle che più ammirerei, - egli concluse, guardando l'orologio. - La prova ne è che mi dispiace di lasciarla; ma continueremo a discutere un'altra volta...
Lia non gli disse di rimanere: ed egli salutò i bimbi e se ne andò su per la spiaggia. Da lontano si volse e salutò ancora, mentre Salvador domandava sottovoce:
- Non tornerà più, vero?
- Speriamo di no, - disse Lia, e le pareva di essere offesa per i complimenti del Guidi, ma in fondo provava un vago turbamento, e ripeteva fra sè ed esaminava ogni parola di lui, ricordandosi che in tutta la giornata egli non aveva mai parlato di sè. Anche lei dopo tutto non gli aveva detto nulla che potesse interessarlo o confortarlo se era infelice.
- Anch'io gli sono estranea come egli a me.
S'alzò, e come scosse la sabbia dalle sue vesti così le parve di liberarsi del fugace ricordo di lui.
Ma al tramonto, mentre andava coi bimbi a passeggiare verso la brughiera, passando davanti alla casina delle glicine si sentì chiamare dalla guardiana, una vecchietta abruzzese chiusa in un busto che le arrivava fino al collo.
- Signorina, non volete vedere la casina? Vostro fratello l'ha visitata, poco fa, e disse che l'anno venturo, forse, la prenderete in affitto...
- L'anno venturo... la casina... mio fratello?...
- Quel signorino che era da voi oggi...
I bambini cominciarono a ridere.
- Il signor Piero, sai mamma! Tuo fratello!
- Voi non volete vedere? - insisteva la vecchietta. - Egli passava di qui, per andare alla stazione; io lo invitai a visitare la casina, ed egli entrò e disse: allora per l'anno venturo! C'è una bella terrazza, sei camere, i bicchieri di cristallo, le posate, la ghiacciaia, il bagno... il letto matrimoniale...
- Andiamo a veder, mamma!
Salvador le tirava la manica, ma ella sorrise alla vecchia e le disse:
- Troppo lusso per noi!
- L'anno venturo... Egli pensa all'anno venturo... - mormorò poi fra sè, seguendo i bambini che correvano su per il sentiero della collina. E come un'ombra luminosa di crepuscolo, fatta di paura, di diffidenza, di orgoglio offeso, ma anche di una gioia torbida e di un confuso sentimento di speranza, l'avvolgeva.

*

Nei primi giorni, dopo il ritorno a Roma, fu ripresa da un senso di timore che di notte la spingeva a chiudersi in camera coi bambini prima che l'inquilino rientrasse e la sorprendesse sola nelle altre stanze.
Ma in breve si rassicurò: egli non badava più a lei nè ai bambini, anzi un giorno si lamentò perchè alla mattina Nino e Salvador strillavano come aquilotti. La libertà della spiaggia li aveva resi indisciplinati, e tutti i giorni, a causa di un cucchiaino con la cifra dorata, erano liti, pugni, lotte continue. Lia nascose il cucchiaino e chiuse Salvador in camera per quattro ore; ma si sentiva umiliata per l'osservazione e le lamentele del signor Guidi.
Egli d'altronde pareva sofferente; era nervoso, soffriva d'insonnia, soffriva per il caldo, e spesso all'alba suonava per farsi portare il caffè. Lia entrava, apriva gli scurini, metteva qualche oggetto a posto: e vedeva l'estraneo così pallido e disfatto che ne sentiva pietà e ricordava i discorsi di lui, quel giorno nella casetta dei cacciatori. Ah, sì, anche lui doveva essere uno dei tanti che non si curano più del loro giardino! Ma dopo qualche momento, assorbita dalle sue cure, ella non pensava più a lui, o ci pensava ma senza pietà. Che le importava, dopo tutto? Egli si circondava di mistero; non le aveva mai confidato nulla del suo essere, del dramma della sua vita: nè lei si curava di saperlo. Pur così vicini, procedevano ciascuno per conto proprio, viandanti smarriti nella landa del dolore umano.
In ottobre egli partì: andò nella Spagna, le mandò cartoline illustrate, con donne che le rassomigliavano: ma al ritorno non le parlò che fugacemente del suo viaggio: era sempre l'inquilino, l'estraneo che rivolge la parola all'estraneo che incontra nella via, quando ha bisogno di una indicazione o per dar sfogo a un impulso momentaneo.
Una mattina ai primi di novembre Lia entrò per portargli il caffè e come al solito s'avvicinò alla finestra per aprire gli scurini. Attraverso i vetri appannati brillava, come attraverso un velo di perle, lo sfondo luminoso del cielo; era una pura giornata dell'autunno romano e anche i rumori che vibravano chiari nell'aria avevano qualcosa di allegro. Nel tepore del suo letto Piero Guidi ebbe per un momento l'impressione di dolcezza provata in riva al mare, e la figura di Lia, tutta nera nel mattino azzurro, col suo bel viso pallido chiuso dalle bende dei lucidi capelli bruni, gli apparve di nuovo circonfusa di poesia.
- Comincia a far freddo, - ella disse, avvicinandosi per versargli il caffè.
Allora egli le prese la mano e gliela strinse mormorando:
«Che gelida manina...»
Pareva scherzasse: ma i suoi occhi cercavano quelli di Lia e lo sguardo era carico di dolcezza e di desiderio: ella corrugò la fronte, lo guardò minacciosa e uscì. Ed egli non ritentò la prova.

*

Cominciarono le giornate fredde, ed egli si lamentò perchè nelle sue camere penetrava la tramontana: Lia ricordò allora che dall'eredità dello zio Asquer le era rimasto un braciere di ottone; lo trasse, lo accese e lo mise nel salotto.
Quando era sola in casa sedeva accanto a quella specie di focolare antico, ed eseguiva l'orlo a giorno di immense lenzuola o di minuscoli fazzoletti di batista, lavoro che la serva le avea procurato da una cucitrice di biancheria.
Il guadagno era meschino ma a qualche cosa serviva; la monotonia del lavoro, quei punti sempre eguali, su quel fondo sempre bianco, accrescevano però la sua tristezza; le pareva talvolta di cadere in un cupo torpore, come se il lenzuolo che le copriva le ginocchia fosse un mucchio di neve sotto il quale doveva morire assiderata.
Solo qualche rumore alla porta la scuoteva: aveva paura che l'inquilino rientrasse all'improvviso, e s'alzava in fretta e ritornava di là, nel salottino freddo e grigio. Il cuore le batteva, e di nuovo si lasciava vincere da un senso d'ostilità contro l'intruso che entrava liberamente nella s-u-a casa e, volendolo, poteva farle del male.
S'egli poi entrava davvero ella si chiudeva nella sua camera: dopo ch'egli le aveva stretta la mano con desiderio, la sua paura non le sembrava più infondata. Sentiva che l'uomo la desiderava e lo fuggiva per non diventar la sua preda. Ah, all'interesse che egli talvolta le dimostrava era preferibile l'indifferenza e anche il disprezzo: meglio la solitudine e la miseria che una vita di ansie e di oscuro turbamento. Era decisa a pregarlo di andarsene quando una sera rientrò in compagnia di un giovane pittore suo compaesano, un fanciullo pallido e delicato che somigliava a Salvador e godeva quindi le simpatie di Lia.
Ella stava nel salottino e copriva il fuoco con la cenere prima di portar via il braciere. La luce del crepuscolo illuminava ancora il salotto; attraverso le tende fiammeggiava, sul cielo verdognolo, una nuvola rossa, e nella strada umida vibrava il lamento di un organetto. Il Guidi entrò nella sua camera per cercare qualche cosa, e il pittore ristette colpito a contemplare Lia, ripiegata sulle ginocchia davanti al braciere, triste e nera, ma con la fine testa circondata da un'aureola di luce rossa.
- Stia ferma un minuto secondo! - disse il pittore. - Stia lì, stia lì! - E richiamò il Guidi, lo prese per il braccio, lo costrinse a guardare Lia contro luce.
- Sembra la regina di Saba davanti a un braciere di profumi...
E poichè Lia si alzava, col braciere fra le mani, ricominciò a gridare:
- Stia lì, stia lì; un minuto secondo!
Ma Lia aveva da fare e se ne andò: di là li sentì a discutere e a parlare d'arte; poi uscirono assieme. Ma il Guidi risalì subito dopo e la chiamò:
- Sa che devo partire, signora Lia? Mi mandano in missione in Sicilia: starò assente due mesi, forse tre, forse più...
Ella lo guardava con diffidenza: le pareva di provare un senso di sollievo, quasi di gioia, per l'improvvisa notizia che combinava così bene coi suoi desiderî; eppure sentì ad un tratto come un vago rimpianto. Egli se ne andava: forse non sarebbe più tornato: forse non si rivedrebbero più. Perchè questo le dispiaceva?
Ma egli fissò sul viso di lei i suoi occhi in quel momento duri e freddi, ed ella non pronunziò le parole gentili che le venivano alle labbra.
- Senta, signora Lia, io terrò impegnate le sue camere: se però la missione si prolungasse molto la avvertirò in tempo onde possa affittarle ad altri. Le dispiace?
Ella disse di no: no, non le dispiaceva. Perchè non si disimpegnava, come aveva deliberato? Le pareva d'essersi ingannata sui sentimenti dell'uomo a suo riguardo: egli era lì davanti a lei, freddo, più estraneo che mai. Che egli parta, e se vuol tenere impegnate le camere le tenga pure: ella vede innanzi a sè alcuni mesi di libertà e pensa ai suoi bambini che possono godersi un po' di spazio e gridare a loro piacere.
- Dove va? - domanda umilmente, rabbonita all'idea della momentanea liberazione. - E quando partirebbe?
- Domani sera.
- Domani sera? Di già?
- Di già.
E mentr'egli comincia a raccogliere le sue carte e gli oggetti indispensabili, e parla di una piccola città della Sicilia, di cui deve riordinare lo scombussolato Ufficio del registro, chiedendo a Lia notizie della vita in Sardegna, - quasi che le due isole ne formino una sola, - ella ascolta taciturna e pronta agli ordini come una serva e ripete fra sè:
- Domani sera... Di già!...
E prova un senso di attesa, come se egli debba da un momento all'altro parlarle di altre cose.

*

Solo pochi momenti prima della partenza egli fu di nuovo gentile e la ringraziò di tutte le cure avute per lui.
- Mi dispiace di lasciar la sua casa, signora Lia, sia pure per qualche tempo. Ho goduto giorni di pace, presso di lei, e la ringrazio della sua bontà e della sua pazienza. Mi scusi se spesso l'ho seccata: sono nervoso, lo sa, e tante volte siamo sgarbati senza volerlo. Bè, adesso, se non altro, sarà contenta perchè i bambini godranno un po' di libertà. Arrivederci.
Ella arrossì, poichè egli indovinava il suo pensiero, ma protestò e si lasciarono da buoni amici.
Ma appena egli fu partito, Rosa la serva, alquanto danneggiata nei suoi interessi, poichè Lia non avendo per sè e per i bimbi bisogno di servizio l'aveva licenziata, disse con sdegno esagerato:
- Oh, sa perchè tiene impegnate le camere? Perchè è geloso e non vuole che lei affitti ad altri uomini. Pazienza fosse scapolo: ma così com'è, che gl'importa dei fatti altrui?
- Tu ti sbagli: egli non tornerà più qui, - disse Lia per farla tacere, ma l'altra continuò; e allora tacque lei, ma senza perdere una delle maliziose parole della donna.



IV


E le parole della serva e tutti i ricordi di quegli ultimi tempi fermentarono in lei, nei seguenti giorni di solitudine e di calma, come il seme nella terra durante l'inverno. Tutto sembra morto e triste, tutto è grigio e l'orizzonte sembra chiuso da un velo di lutto che nulla varrà a dissipare: ma non per questo la terra cessa di palpitare, e così il cuore umano sotto la nebbia del dolore.
Un giorno il portiere le diede due lettere: una era del pittore che le faceva una proposta per lei strana, pregandola di posare per un quadro la cui ispirazione gli era venuta appunto da lei china sul braciere ardente. Ella non avrebbe perduto invano il suo tempo; anzi l'artista la pregava di fissar lei il compenso. Lia non rispose.
L'altra lettera era del Guidi; egli le descriveva il paese, il paesaggio, si lamentava perchè non si vedevan donne a passeggio e l'unico punto di ritrovo della piccola città era un caffè frequentato solo da uomini. Lia non rispose.
Egli scrisse di nuovo, triste e sconfortato: e la vedova non si meravigliava di queste lettere che le pareva venissero dalla sua isola. Nessuno meglio di lei poteva capire la malinconia quasi morbosa a cui si lasciava andare il giovane funzionario sbalzato a un tratto dalla capitale a un luogo d'esilio.
Ma perchè egli si rivolgeva a lei per dar sfogo alla sua nostalgia? Non conosceva altri? Perchè le scriveva frasi che a lei sembrava puerili, dicendole che «il suo pensiero volava spesso a lei» che «sovente desiderava la sua compagnia» e infine pregandola di scrivergli?
Un giorno le mandò dei fiori secchi: un altro un pacco di mandarini. Meno male i mandarini che riempirono di gioia i bimbi: ma i fiori, e secchi anche? Lia cominciò a considerare il Guidi sotto un nuovo aspetto: le sembrò un uomo romantico.
Ma ella viveva ancora con la memoria del suo povero Justo, e aveva sempre l'impressione ch'egli fosse ancora vivo e dovesse tornare: e più i giorni passavano più ella idealizzava la figura di lui, rimproverandosi di non averlo amato come forse meritava. Pensare ad un altro uomo le sarebbe parso tradire la memoria del morto; d'altronde la povertà e la solitudine la circondavano come di una nebbia, attraverso la quale le figure che tentavano di avvicinarsele prendevano forme paurose.
Eppure le lettere dell'assente le davano un senso di conforto; quasi di gioia. Si accorse che pensava a lui più di quanto era necessario, e la curiosità di conoscerne il passato la punse. Un giorno incontrò il pittore che le corse incontro come un bambino e l'afferrò al braccio.
- Pensavo a lei, sa: proprio in questo momento pensavo a lei!
- M'avrà visto da lontano!
- No, no; senta. Venga al mio studio, posi per me! Ho bisogno di lei. Venga, venga! Non le farò perdere inutilmente il tempo! Sia buona, su! Venga adesso!
Le parlava carezzevole, stringendole famigliarmente il braccio e trascinandola con sè.
- Venga, venga; venga adesso.
- Ma le pare? Vado a prendere i bimbi da scuola.
Egli l'accompagnò un tratto, fino a via Paglie attaccato a lei, fermandosi e facendola fermare davanti al bel paesaggio chiuso a sinistra da un albero rossastro, con le mura in fondo, dorate dal sole, e la sagoma violetta di una chiesa sul cielo bianco e azzurro di gennaio, davanti alle scuole il largo marciapiede chiaro era coperto di punti gialli neri e di scintille: bucce d'arance, scorze di castagne, pennini e pezzettini di vetro: segni del passaggio d'un formidabile esercito di eroi della penna e del cestino. L'edificio bianco al sole ronzava come un alveare.
Lia domandò timidamente:
- Sa nulla del Guidi?
Ma al pittore non importava nulla dell'amico lontano; voleva lei, e insisteva, e la fissava in viso coi grandi occhi avidi, come un amante folle di desiderio.
- Non le ha scritto? ella insistè, più ardita. - Pare non sia contento.
- Ma se è sempre stato, scontento? Ma se ha voluto andar lui, cosa sta adesso a seccare?
- È così nervoso...
- Peggio per lui. È come i bambini, lei lo sa, che vogliono i giocattoli per romperli... Dunque, viene, signora Lia?
- Mi dica... è vero... che il Guidi è separato dalla moglie?...
- Come, non lo sa?
Ella si volse così vivamente, coi grandi occhi spalancati, che il pittore sorrise.
- Ah, già, lui non ne parla mai: ha anche questa fissazione: la vergogna del suo passato
- Vergogna, perchè? - domandò Lia; e la sua voce tradiva già un'ansia, un dolore segreto. Capì il giovine artista e volle profittare della curiosità non del tutto innocente di lei? La lasciò e le disse:
- Bene, venga da me e le racconterò quanto so. Altrimenti nulla. Viene?
Lia non promise: ma i giorni passarono, le arrivò un'altra lettera dell'assente, e la sua curiosità si fece acuta, quasi tormentosa come un'idea fissa.
Una mattina di febbraio, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, andò allo studio del pittore.
Il tempo era mite, primaverile. Sopra i giardini di via Boncompagni, nuvole bianche e rosee ondulavano come bandiere di velo, e su dalla Villa delle Rose, giù in fondo, saliva sul cielo azzurro, come un'immensa coda di pavone fatta di altre nuvolette d'argento, d'oro e di rosa. Lia guardò in lato e provò un senso di gioia: ah, il bel tempo tornava, Dio sia lodato; i bambini stavano bene, ella si sentiva agile e sana. E va e va, in mezzo ai gruppi di donne straniere, che pareva uscissero da un giardino, cariche di grandi mazzi di giacinti e di fiori di mandorlo. Anche lei si sentiva un po' straniera: e se il suo modesto t-a-i-l-l-e-u-r pareva, per l'eleganza naturale della sua persona, un vestito da inglese, il suo cappello ricordava quelli delle impavide tedesche: ma il suo viso pallido, i suoi capelli e i suoi occhi pieni di luce tradivano la sua origine, e che erano belli glielo disse sottovoce un vecchio signore in soprabito con collo di pelo, che nonostante l'ora mattutina doveva aver ben poco da fare perchè le propose anche di accompagnarla.
Ella affrettò il passo, rapida e svelta come una scolaretta a cui la mamma ha raccomandato di non fermarsi per strada. Nè le vetrine, davanti alle quali le pareva sempre di riveder lo zio Asquer, nè i bei cappelli, i bei vestiti, i merletti, i fiori, attiravano più i suoi sguardi: ella aveva talvolta l'impressione di vivere al di sopra del livello della città, o almeno al di sopra di tutte le cose inutili e belle che par ne formino la base, poichè riempiono quasi tutti i piani terreni delle case.
Arrivata in via Margutta cominciò a cercar il numero dello studio del pittore. Il lastrico bagnato scintillava, come riflettendo l'azzurro del cielo e l'argento delle nuvole immobili al di sopra delle casette silenziose e dei cortili pittoreschi. Una pace di piccola città regnava nella strada deserta; operai taciturni, vestiti con lunghi camiciotti giallastri, lavoravano nell'interno delle strette officine, tra frantumi di marmo, mucchi di gesso e di creta; un gatto passava lungo i muri umidi e dai cortili usciva un odore d'erba e di terra bagnata.
Lia entrò in un vecchio portone in fondo alla strada, attraversò un androne rischiarato da un lontano sfondo di verde e d'azzurro e provò un senso di diffidenza. Il luogo era strano; a destra dell'andito, entro una specie di grotta illuminata da una fiamma rossa, una figura nera e possente d'uomo nerboruto sollevava con ambe le mani un martello infocato e lo batteva su una incudine scintillante; una scaletta nera conduceva a un giardino pensile circondato di porte, di scalinate, di terrazze, e dai cui alberi cadeva qualche goccia argentea. Lia battè ad una vetrata internamente coperta da una tenda gialla e il pittore in persona aprì.
Come sempre, ella pensò al suo Salvador, tanto il piccolo artista, col suo camiciotto scuro, la sua personcina esile, i capelli chiari rialzati sulla fronte e il viso pallido illuminato dai grandi occhi castagni rassomigliava al fanciullo.
- Buon giorno, - ella disse con semplicità, ed egli rispose:
- Buon giorno.
E si sorrisero come vecchi amici.
Ella entrò nello studio, vasto e pieno di luce, ma desolato e freddo; i pochi mobili sparsi qua e là, l'ottomana di ferro coperta da un drappo rosso, alcuni avanzi di vivande sul tavolo, le diedero l'impressione che l'artista fosse molto povero.
Egli l'accolse con entusiasmo, la pregò di collocarsi in fondo allo studio, poi in qua, poi in mezzo, e le girò attorno, le passò e ripassò davanti, allontanandosi, riavvicinandosi, guardandola come una figura già dipinta.
A poco a poco, nel trovarla come egli la desiderava, s'animò, diede in esclamazioni di gioia. Le fece togliere il cappello, le scompigliò le trecce, le avvolse attorno alla persona un drappo bianco, poi uno nero, le fece indossare un costume orientale, le mise il velo, glielo tolse, le annunziò infine che voleva fare un quadro di vaste proporzioni, con una figura di donna araba su uno sfondo di deserto. Lia sorrise con tristezza ed egli tese le mani verso il viso di lei quasi volesse fermare quel sorriso.
- Stia così; un momento! Ah, così non va! Ho bisogno della sua espressione nostalgica e triste.
Ella non sorrideva più e aveva preso un'aria disgustata. «Perchè son qui?» si domandava. Per il desiderio di parlare dell'assente e di conoscere qualcosa del suo passato, o per posare da modella? In tutt'e due i casi le pareva di far male, e si pentiva d'esser andata.
- Non sempre si è tristi e nostalgici, - disse, rimettendosi il cappello. - Perchè esserlo oggi che è una così bella giornata?
Egli non cessava di osservarla, coi suoi occhi chiari e lucenti come il rame: quello sguardo le faceva male, le penetrava dentro le carni, e quando l'artista chiese, come per far seguito alle parole di lei:
- E dell'amico Guidi ha notizie? - ella ebbe l'impressione che egli indovinasse anche la causa per cui era venuta e decise di non parlare dell'assente. Dopo tutto, che le importava? Se Piero Guidi le scriveva per amicizia, toccava a lui confidarle i suoi affanni: se era spinto verso di lei da un altro sentimento era meglio non occuparsi più di lui.
- No, - mentì, - da qualche tempo non ho più avuto sue notizie.
Aspettò che il pittore tenesse la sua promessa: ma egli cambiò discorso, e poichè ella aveva fretta d'andarsene, la pregò di tornare l'indomani e di corsa le fece vedere alcuni studi ove già aveva abbozzato la figura di lei, o meglio di una faccia spettrale e livida dagli enormi occhi violetti, e un nudo che a Lia parve il ritratto di un'annegata, tanto che la figura di donna stesa su uno sfondo giallo era violacea e macabra.
Ella se ne andò con un'impressione pensosa, perseguitata dal ricordo di quelle figure deformi: ma fuori il sole splendeva fra le nuvolette bianche, e tutto era dolce, puro e tenero; nell'aria passava un odore di violette e di arance, e dalla scalinata di piazza di Spagna scendevano, come distaccandosi da uno sfondo vellutato, figure di donne brune e ridenti. Lia respirò, ma decise di tornare dal pittore, sebbene non si fosse parlato del compenso nè dell'amico lontano.

*

Eccola dunque diventata modella. Vestita da araba, con un costume forse non perfettamente fedele, ma che le ricorda quello di certe donne della Gallura, ella posa dritta e rigida, di profilo, davanti ad un immenso cartone giallo coperto da un velo rossastro, che dovrebbe rappresentare lo sfondo del deserto. Qualche volta i piedi le fanno male, le gambe le si piegano, una stanchezza sonnolenta le invade la persona e la mente.
Il giovane artista dipinge con un lungo pennello; si allontana e si avvicina alla sua tela, guarda a destra, guarda a sinistra e sembra contento della sua opera. Egli adopera i colori più fini e in quantità enorme: la sua pittura è quasi un rilievo, e quando si tratta di raschiare egli adopera un coltello di cucina.
- Io non posso concepire un pittore povero, che faccia economia di colori, - disse un giorno a Lia, e aggiunse, con semplicità che meravigliò la vedova, che sua nonna, una ricca signora romagnola, gli mandava mille lire al mese.
- Ma non bastano, non bastano, sebbene io viva come un anacoreta, lei lo vede, signora Lia.
Ella accennò di sì: lo vedeva bene.
- Ah, ma a me non importa la vita esteriore, - egli riprese, come parlando alla figura che dipingeva. - l'arte mi basta. Vi sono giorni in cui mi dimentico di mangiare. Che sarebbe stato di me senza l'arte? Mi sembra che sarei diventato un beone o un libertino o magari un delinquente. Noi tutti abbiamo in noi una forza creatrice che ha bisogno di esplicarsi e, se rinchiusa, fermenta ed esplode come un gas o ci corrode come un acido velenoso. Ah, sì, io sono contento d'essere un artista e di poter esplicare questa forza divina. Io sono contento, signora Lia: mi sembra talvolta d'esser un bambino. Non ho bisogno di nulla, neppure di amore. Io non ho mai amato.
- I bambini, appunto, non amano, ma ameranno! - disse Lia, che non lo apprezzava gran che come «creatore» ma lo invidiava come uomo. Egli era giovane, sano, libero, viveva di rendita e di illusioni!
- Amare? - egli riprese, fissando con lo stesso sguardo luminoso e freddo la figura viva e palpitante di Lia e la morta e fredda figura della sua tela. - L'amore come noi lo sogniamo non esiste. Esiste solo l'impulso cieco, che spinge l'uomo e la donna ad unirsi: null'altro.
E poco dopo, tentando Lia di contraddirlo, come seguendo il filo d'una sua idea egli domandò:
- Piero Guidi le ha scritto?
Lia s'irrigidì, offesa.
- Sì, ha scritto, - disse quasi irritata. - Si lamenta sempre, perchè?
- E lo domanda a me?
- Ma anch'io ne so ben poco! Egli si lamenta del presente, ma non parla mai del passato.
- Ma anch'io ne so poco.
- Mi racconti questo poco: sarà sempre qualche cosa.
- Ecco. Egli ha sposato una cugina, ricca, figlia d'un suo zio che dopo essere stato molti anni segretario di un industriale, a un tratto, dicono in grazia a sua moglie che era una bellissima donna, ne diventò il successore. Pare, quindi, che la figlia sia invece figlia del principale. Fatto sta che ebbe una grossa dote. Era una bella ragazza, elegante, capricciosa, e tutti si meravigliarono quando sposò Piero Guidi, che era allora un semplice segretario di Intendenza. Però stettero poco assieme: un anno o due, credo. La prima volta si separarono scandalosamente perchè credo che Piero... (l'artista agitò il pennello, accennando a bastonate.) Ma i parenti, specialmente la famiglia di lui, perchè a dire il vero il padre della ragazza s'era opposto al matrimonio disuguale, s'interposero e riuscirono a rappacificare gli sposi. Stettero assieme altri due mesi, credo: poi si divisero d'accordo, ma non legalmente, e non s'incontrarono più. Essa viaggia: è una donna elegante, intellettuale, che fa anche dei versi: io, critico, preferirei l'autrice! La famiglia di Piero è anche del mio parere, o quasi, perchè non perdona al nostro amico la sua rottura con una moglie simile. Ma lui, in fondo, è un sentimentale: poesia, e bastonate se occorrono!
Lia taceva. Sentiva come un senso d'oppressione e non sapeva cosa dire, sebbene mille domande le salissero alle labbra. Soprattutto era curiosa di sapere ove la signora Guidi di solito abitava. A Roma? Non sapeva perchè, ma quest'idea le dispiaceva.
- Perchè lei disse una volta che il signor Guidi si vergogna del suo passato? - domandò infine.
- Non ho detto che si vergogna, ma che pare si vergogni. Gran differenza fra l'essere e il parere, signora Lia! Ecco, lei «è», e questa mia figura «pare». E finchè lei è qui io m'illudo di veder qualcosa di vivo anche nella «mia» Lia; è come un riflesso: ma quando son solo mi pare di aver dipinto un cadavere... Lo guardo e mi sento triste: non mi era accaduto mai una simile cosa...
- Poco fa diceva d'esser contento: si vede che il ricordo del suo amico le ha fatto cambiare umore.
- Il mio amico? È un imbecille. Sì, è vero, lo spettacolo dell'altrui stupidaggine ci rende spesso melanconici, come, non so se ha osservato, quando parliamo con balbuzienti proviamo anche noi difficoltà a pronunziar bene.
- Perchè chiama imbecille il signor Guidi?
- Per molte ragioni: non ultima quella di far la corte a lei solo adesso che è lontano...
- Come sa che mi fa la corte? - disse Lia ridendo... E all'improvviso la sua avventura le parve una cosa frivola e comune, da riderci su.
- Oh, Dio, l'indovino da quel che mi dice lei. Un uomo si lamenta solo con le donne a cui vuol sembrare interessante. Stia attenta, signora Lia. Poesia e bastonate!
- Ma che gli importa? - si domandò Lia, guardando di sbieco l'artista; e gli occhi di lui, dorati e freddi come quelli del falco, le diedero nuovamente un senso di malessere.
Senso di malessere e di antipatia che di giorno in giorno aumentò: ella se ne accorgeva e sembrandole che ciò fosse perchè il pittore ogni volta che ne aveva l'occasione parlava apertamente male del Guidi, s'irritava contro sè stessa che non sapeva vincer la sua debolezza. Eppure provava anche un piacere doloroso quando l'artista raccontava a modo suo le avventure del suo amico, e quando ne difendeva la moglie, la signora bella e ricca, che «viaggiava» che passava la sua vita un po' qua un po' là, da Rimini a Taormina, da Roma a Venezia, come una rondine libera e padrona dello spazio. Lia si sentiva piccola e più povera del solito quando l'immagine di questa donna le passava davanti, rapida e incerta appunto come quella di una rondine a volo: e poi si accorgeva della sua umiliazione e anche di questo si irritava.
Ma cercava ancora d'illudersi sui suoi sentimenti e scacciava le immagini moleste. Le pareva che solo un senso di pietà la spingesse a pensare a quelle figure di estranei apparse a caso nella sua via. Ma era tempo di non occuparsene più. Via, via; via la figura bella e languida dell'uomo che si era seduto accanto a lei sulle alghe e l'aveva guardata con un profondo invito negli occhi: via la rondine che passa e ripassa attorno a lei, e talvolta, nell'aria crepuscolare, prende l'aspetto triste del pipistrello. Perchè pensare a gente che, dopo tutto, si crea l'infelicità quasi per un morboso bisogno di tormento? Essi son ricchi, son giovani e sani: che altro occorre nella vita per esser felici? L'amore non esiste, dice il pittore: e sorride guardando il viso di Lia già un po' arso dalla fiamma di un'idea fissa.
- Adesso andiamo bene: ha ripreso l'espressione s-u-a. Sono contento...
Una mattina però Lia lo sorprese triste e cupo davanti alla tela, col coltello in mano come un delinquente pronto al delitto. Era una giornata piovosa; ed egli disse con voce rauca:
- Senta, mi dispiace di averla fatta venire con questo tempaccio; oggi non ho voglia di lavorare.
- Su, andiamo, si faccia animo, - disse Lia maternamente; ma anche lei era nervosa: aveva i piedi bagnati e le vesti umide.
- Ma non vede che è ridicolo? Fare un deserto, un'immensità, in una stamberga come questa? No, no, io rompo tutto e vado davvero in Egitto; ho bisogno di spazio, di verità; qui si soffoca, e l'orizzonte pare davvero di cartone...
Lia non osò dire il contrario.
- La figura poi è legnosa, è mostruosa, - egli proseguì, con accento d'odio. - Lei dice di no? ma lei non può capire, oppure mentisce per confortarmi. Tutto è brutto, nella vita; tutto è menzogna, e noi mentiamo persino a noi stessi...
Rimasero alcuni momenti davanti al quadro, desolati entrambi; Lia vinta da un senso di pietà per l'infelice artista, egli lamentandosi di seguire una vita tormentosa, che non era la sua: poscia ella se ne tornò a casa, e il sorriso ambiguo con cui il portiere le diede una lettera, finì di irritarla. Era di Piero Guidi. Ormai egli scriveva troppo spesso. Ella salì irritata le scale e lesse la lettera prima di spogliarsi, e nonostante i suoi buoni propositi si sentì lusingata delle frasi ch'egli scriveva.
«Ah, signora Lia, mi permetta di dirglielo, quando penso a lei non posso liberarmi da un senso d'invidia: ella è forte, ha la grande fortuna di bastare a sè stessa, di resistere alla bufera della vita come lo stelo che si piega al vento ma che al primo raggio di sole si rialza e rivive: io, invece, che cosa sono, io? L'albero schiantato, signora Lia! Sono un vinto, io; un tronco da cui il vento finisce di staccare le foglie inaridite».
Ma dopo il primo impulso di pietà per lui, di vanità soddisfatta per le sue lodi, ella buttò sul tavolo il foglietto e andò a cambiarsi le scarpe ed a preparare la colazione.
- Egli m'invidia! - disse a voce alta, con accento di sdegno. - Ah, miseria!
Poi si mise a cucire, accanto alla finestra, aspettando l'ora di andare a prendere i bambini. Ogni tanto sollevava gli occhi, con la speranza di veder il cielo rasserenarsi; ma il cielo sembrava coperto di fango lucente, come la strada, come i terreni ove le graziose case in costruzione davano l'idea di rovine. Tutto era tristezza, squallore: ed ella ricordava il quadro fresco e caratteristico che si svolgeva sotto i suoi occhi, nei chiari mattini di giugno, dopo il suo arrivo in casa dello zio Asquer, e rivedeva la testina di Salvador a quella stessa finestra che ora inquadrava il suo melanconico viso di vedova giovane e povera. Tutto era mutato, nella strada come nella sua vita. Chi le avrebbe detto allora, quando arrossiva nel veder da lontano la buona figura di Justo, che ella avrebbe dovuto servir da modella a un artista mediocre e volgare?
Tutte le inquietudini della sua vita la riassalirono, e lagrime tristi come le gocce di pioggia che battevano sui vetri le solcarono il viso e bagnarono la tela che il suo ago continuava a trapuntare. Eppure c'era qualcuno che la invidiava! A un tratto si alzò, s'asciugò gli occhi e guardò l'ora. Era appena la mezza, e la tavola, nella saletta grigia e fredda, era già apparecchiata e la modesta colazione già pronta. Ella indossò di nuovo la giacchetta e preparò gli ombrelli, ma in attesa delle due meno un quarto, ora dell'uscita dei bambini, si mise a scrivere a Piero Guidi. Un impulso prepotente la spingeva, un bisogno quasi di gridare a qualcuno la sua desolazione, di protestare contro quell'uomo annoiato che si abbassava a invidiare una creatura come lei, - la più misera delle creature.

*

Intanto il quadro era quasi finito, e ancora non si parlava di compenso. Ma Lia aveva ottenuto quello che veramente l'aveva spinta nello studio del pittore, - e d'altronde non dubitava della correttezza dell'artista, che diceva di spendere i suoi denari senza contarli.
Una mattina, mentr'ella stava per andarsene, entrò un uomo alto e rosso, col largo viso circondato da una barbaccia fulva. Non era uno dei tanti pittori che frequentavano lo studio e che l'artista dipingeva a Lia come altrettanti mostri d'invidia e di perfidia: si fermò in un angolo e cominciò a guardar Lia e poi la figura e poi di nuovo Lia, con gli occhi celesti ridenti, poi andò davanti alla tela, fino a toccarla con la barba e parve fiutarla. Di nuovo s'allontanò, con le mani intrecciate sulla schiena, e disse con voce ringhiosa:
- Molto bene!
Il giovine pittore era diventato pallido e s'aggirava attorno all'uomo come un cagnolino timido e lieto.
Lia andò a spogliarsi dietro il paravento. Di solito ella sentiva gli artisti lodarsi fra loro, e tutti trovavano quasi perfetto il quadro con la sua figura, tanto ch'ella s'era convinta di non capir nulla in fatto d'arte: questa volta, però, dopo il «molto bene» l'uomo rosso trovava difetti di disegno, di colore, di prospettiva: piano piano pareva si divertisse a raschiare il quadro. Mancava l'aria, il colore locale, la verità! La figura, poi, doveva essere meno rigida: molle, indolente, accoccolata al suolo, come snervata dal soffio ardente del deserto.
Lia uscì un po' umiliata per il pittore, e cercò di confortarlo con lo sguardo. E all'improvviso l'omone le fu addosso, la prese per la braccia, la palpò, le disse:
- Vediamo; più molle! Mettiti un po' giù!
- Mi lasci! - ella gridò, col viso infiammato. - Ma le pare?
L'omone si mise a ridere come un bambino, e prendendo quasi gusto alla resistenza di lei cercò di farla piegare per forza, finchè ella gridò esasperata:
- Non sono una modella, io!
E corse via senza salutare, senza volgersi indietro, presa da un'ira folle e anche da un po' di paura. Ah, che aveva fatto! Ben le stava! Ella pagava così la sua curiosità inutile. Ma perchè? ed ecco che all'improvviso una luce paurosa si fece in lei. Curiosità inutile? Ah, no! era una curiosità colpevole: e tutto ciò che è colpa si deve scontare come un debito, sia pure fatto contro volontà.
Ma poi si calmò. Il pittore le scrisse domandandole scusa di non averla subito presentata all'omone rosso, che era un celebre artista, e pregandola di ritornare. Aveva bisogno di lei: era così sconfortato, così avvilito. Anche lui!
Ella ritornò, e riprese il suo costume, il suo posto, la sua aria nostalgica: ma qualcosa era mutato intorno: lo studio sembrava più triste, il pittore taceva e aveva gli occhi pieni di melanconia. La visita del celebre artista lo aveva impressionato profondamente: un giorno Lia trovò la tela rivolta contro il muro e il pittore seduto sull'ottomana con un grande album di fotografie egiziane ed arabe sulle ginocchia.
- Parto, - le disse, - vado al Cairo e rifarò il quadro. Venga con me. Ho scritto alla nonna perchè mi mandi i denari.
Lia sedette accanto a lui e cominciò a scherzare.
- Verrei volentieri se non avessi i bambini.
- Li porta con sè. Io amo i bambini.
- Allora partiamo! Quando?
Egli sollevò gli occhi e la guardò: ed ella vide una luce nuova in quegli occhi che avevano come la trasparenza dell'acqua stagnante che il sole ha dorato e riempito di maleficio.
- Viene davvero?
Ella si chinò a guardar l'album, per sfuggire a quello sguardo che l'affascinava, ma credette innocuo continuare a scherzare.
- Prima mi faccia vedere dove andremo: ci spingeremo fino al deserto, suppongo...
Egli cominciò a sollevare i cartoni e a svolgerli come pagine pesanti. Erano figure e paesaggi noti: donne levantine dal puro tipo che quello di Lia ricordava in modo sorprendente, beduine dal viso velato, altre col petto nudo; erano le piramidi su cui i viaggiatori salgono come su montagne di macigni, e i bazar, le vie del Cairo, i paesaggi del Nilo, il confine del deserto, i cammelli, i beduini, le donne che lavano sulla fiumana con la gonna sul capo gonfiata dal vento. Qualche scena e qualche tipo ricordava a Lia la sua isola, e una dolcezza di nostalgia la vinceva.
L'artista le si era accostato fino a toccarla col braccio e le spiegava qualche particolare delle fotografie. La sua voce diventava rauca e velata e le sue mani tremavano: e pareva che le visioni lontane riprodotte da quei brani di carta lucente gli dessero un'allucinazione febbrile, il desiderio quasi delirante di quel mondo ove l'ardore è pari alla luce e la nebbia rossa della sabbia spinta del vento è come la nuvola di sangue sollevata, davanti agli occhi dell'uomo, dalla violenza dell'amore o dell'odio.
A un tratto Lia, prima che si rendesse conto di quel che succedeva, si sentì stringere da un braccio nervoso e tenace come una corda; vide il lampo degli occhi dorati, sentì una mano convulsa piegarle la testa e due labbra sottili e ardenti fissarsi sulle sue. Provò come l'impressione di una ferita di coltello e si mise a urlare. L'album cadde e le schiacciò i piedi.
Ma ciò che più le destò terrore e ripugnanza, nella lotta che seguì, furono le parole d'amore corrisposto ch'egli pronunziava come in delirio:
- Perchè non vuoi? Tu mi ami; tu verrai; perchè adesso vuoi fuggire?...
Lia era agile, era più alta di lui; ma egli dimostrava la forza convulsa dei dementi, e si era aggrappato a lei come un tralcio di rovo. Ella riuscì ad avvicinarsi alla porta, ma non a liberarsi di lui.
- Hai mentito, dunque? No, tu verrai: io sono libero; vuoi che ti sposi... vuoi, dì, vuoi?...
- Sciocco, sciocco! - ella urlò, e lo sbattè contro la vetrata; un cristallo cadde con fracasso.
Egli trasalì, parve svegliarsi di soprassalto da un sogno; la lasciò e si buttò sull'ottomana, piangendo come un bambino bastonato.
Ed ella se n'andò via di corsa, ansando, come una povera lepre inseguita. L'androne, la scala, lo sfondo verde e azzurro, il giardino pensile, tutto le rimase impresso nella memoria come un quadro spaventoso. Eppure, scampato il pericolo, le veniva da ridere; si sentiva lusingata nella sua vanità di donna, e il pianto dell'uomo vinto le destava anche pietà...
- Egli voleva sposarmi...
Modo gentile di dichiararsi! Ella tremava ancora quando arrivò in via Boncompagni. Il cielo azzurro era sparso di nuvole argentee che il vento di marzo spingeva come vele. Ella ricordò il giorno in cui era andata la prima volta allo studio, e di nuovo ricordò la curiosità che l'aveva condotta laggiù.
- È il castigo: è il castigo! - pensò. Ma a un tratto la figura dell'assente le apparve come illuminata da una luce limpida, improvvisa. Egli che aveva vissuto giorni e notti accanto a lei, indifesa, non aveva mai tentato di farle del male. Eppure egli l'amava e la desiderava; ella ne era certa: ricordava il suo sguardo, in riva al mare, la sua stretta di mano una chiara mattina di novembre... E il pensiero che egli era un uomo onesto le dava una tenerezza trepida e soave, un senso di conforto che, come il vento di primavera, spingeva via lontano le nuvole dalla sua mente...



PARTE TERZA


I


Una sera, in autunno, Piero Guidi ritornò. La sua missione era durata quasi un anno. Lia aveva preparato con cura la camera e messo un mazzo di crisantemi gialli sullo scrittoio del salotto: al cader della sera mise a letto i bambini, preoccupati per il ritorno di «quel signore».
- Sarà cresciuto? - domandò Nino, saltellando sul letto. - Sarà più alto, adesso, come quell'uscio?...
Salvador rise, con superiorità, beffandosi del fratellino: ma la mamma non lo rimproverò, preoccupata anche lei, anche lei certa di rivedere un Piero Guidi più alto di quello che aveva conosciuto un anno prima.
Con la speranza che egli arrivasse col treno di Napoli delle otto e un quarto, intanto che i bambini s'addormentavano si affacciò alla finestra per aspettarlo. Era una sera d'ottobre, dolce e chiara: la luna illuminava gli avanzi degli orti intorno ai nuovi villini, e i mucchi di pietre e di legnami, le canne e gli alberi, umidi di rugiada, scintillavano e davano ancora al luogo un'aria campestre. L'odore dell'autunno inondava l'aria quieta; due amanti, all'ombra del muro di fronte a Lia, parlavano sottovoce, abbracciati come in un luogo solitario.
Ella li guardava e sentiva crescere il suo turbamento: si sdegnava per la serena noncuranza della coppia amorosa, ma non poteva vincere un senso d'invidia.
Altre coppie passavano, strette e silenziose: la donna ancora vestita di chiaro, l'uomo quasi sempre più alto di lei, paziente e protettore: erano coppie di buoni borghesi, che se ne andavano a spasso dopo il modesto pasto della sera; ma nel chiarore lunare, così limpido che vinceva quello dei fanali, parevano tutti amanti, o giovani sposi ancora innamorati.
E Lia si sentiva sola, nonostante la vicinanza dei bimbi addormentati, lontani quindi, smarriti nel mondo dei sogni. Come non pensare all'uomo che doveva arrivare, che forse pensava a lei, solo anche lui in mezzo alla moltitudine, come egli le aveva scritto più di una volta, e che doveva esser davvero solo se si rivolgeva lei, quasi domandandole soccorso, a lei povera, umile, smarrita nella vita come in mezzo a una solitudine sconfinata?
Passarono le otto e mezza, le nove, le nove e mezza ed egli non arrivò: allora Lia si ritirò dalla finestra, certa ch'egli sarebbe arrivato col direttissimo delle undici e quaranta, e per non perder tempo si mise a lavorare. Ultimamente aveva comprato una macchina da scrivere e riusciva a guadagnare due e tre lire al giorno.
Dalle finestre aperte sul cortile arrivava un acciottolìo di piatti, un rumore d'acqua cadente sui lavandini: voci e cantilene di serve giovani vibravano nell'aria quieta e ricordavano a Lia i primi tempi del suo arrivo, i canti e i gridi di Costantina: ma a poco a poco i rumori intorno si spensero, e solo il lieve mormorìo della fontana del cortile continuò il suo lamento nella notte sempre più fresca e odorosa.
Ma nel salottino grigio, tutto riempito dell'ombra di Lia, il battito della macchina da scrivere palpitava monotono e come stanco. Lia copiava la traduzione di un dramma, una storia d'amore, leggera e ardente, convenzionale e vera nello stesso tempo: un soffio di peccato e di poesia faceva muovere i personaggi come foglie d'autunno, e suggeriva loro le frasi più ardenti e puerili che tutti gli amanti conoscono.
Lia aveva letto mille volte, sotto mille forme, quelle frasi sempre eguali e sempre scintillanti, come le lagrime e come le stelle; e di nuovo, sebbene se ne irritasse come davanti alla coppia all'ombra del muro, si sentiva assalita da un turbamento insolito. Le pareva d'essere ancora fanciulla: seduta davanti al tavolino preistorico della sua cameretta nuda, copiava, per un piacere puramente sensuale, qualche pagina del «Muto di Gallura». L'assiuolo della landa ripeteva il suo richiamo desolato, e il chiarore della luna come rendeva più bello e misterioso il paesaggio, rendeva più intenso e in pari tempo più indefinito il desiderio di Lia verso la vita e verso l'amore. Ella non sapeva cosa voleva - allora; - e anche adesso non sapeva cosa voleva: ma la sofferenza era la stessa.
La stanchezza e il sonno vinsero a poco a poco la sua inquietudine. L'ora passava, lo stesso picchiettìo monotono della macchina calmò i suoi nervi; ma a un tratto, mentre le dita continuavano a muoversi automaticamente, la fantasia cominciò a lavorare per conto proprio, come liberatasi dalla volontà assopita di lei.
È una specie di sogno. Il desiderio indistinto prende forma: dapprima è una colonna di nebbia, con due punti scintillanti, poi un fantasma dagli occhi vivi, infine la figura di un uomo dallo sguardo che sembra quello di un egoista ed è invece lo sguardo di un'anima che soffre. Lia lo sa: il dolore dà agli occhi un'espressione che spesso inganna.
Ecco, egli arriva, egli sale le scale, egli entra: è completamente mutato: è c-r-e-s-c-i-u-t-o, come dice Nino; il suo viso fine e quasi femineo ha preso un'espressione virile: la bocca è meno fresca, come un frutto troppo maturo: i denti sembrano appannati, i baffi più folti e più scuri. E la fossetta del mento è più profonda, come attratta dal labbro inferiore che si sporge con un po' di disgusto. Un po' di disgusto sta così bene al viso dell'uomo innamorato: disgusto per tutto ciò che non sia la donna amata...
Quest'aria, che d'altronde Lia ricorda perchè l'ha notata sovente sul viso dell'estraneo, adesso la commuove, l'attira più che lo sguardo carezzevole di lui, - lo stesso sguardo pieno d'invito e di promesse che gli le ha rivolto un giorno, in riva al mare.
Egli entra, lieve, silenzioso, e le porge le mani. Lia esita: una mano sola, va bene; ma tutte e due... è pericoloso. Perchè pericoloso? si domanda subito con fierezza. Non si possono dare le mani ad un amico? Ella considera tale l'uomo che dapprima le è parso un estraneo e poi un nemico. Se adesso non lo stimasse come un amico non lo riceverebbe più in casa, non lo aspetterebbe a quell'ora tarda della notte. Ecco dunque le mani, signor Guidi: come va? Ha fatto buon viaggio? È stanco? Perchè questo ritardo? Vuol prendere qualche cosa?
Ma mentre Lia pronunzia sottovoce e quasi tremando queste parole comuni, egli le stringe le mani, e piano piano le mani si scaldano, bruciano, come se il contatto della pelle sviluppi un calore ardente, sempre più ardente; e Lia parla, parla, come una donnicciuola qualunque, ma ha paura quasi terrore del silenzio di lui, degli occhi che riprendono lo sguardo d'invito, delle mani che stringono e attirano come morse infuocate, e soprattutto del labbro che perde la sua piega di disgusto e si solleva gonfio e vellutato come un petalo di rosa...
A un tratto anche lei tace e cerca di divincolarsi: ma non può, è debole: le ginocchia le si piegano, la testa si curva: il desiderio di abbandonarsi fra le braccia di lui, di appoggiargli il viso sul petto e di addormentarsi la vince...
Ma all'improvviso il rumore stridente d'un cristallo che cadde da una finestra chiusa con violenza, riempì di echi e di lamenti il silenzio del cortile. Lia trasalì e balzò in piedi.
Il ricordo della scena disgustosa nello studio del pittore le diede un brivido nervoso: la sua forza e la sua volontà si ridestarono, ed ebbe vergogna delle sue fantasticherie. I sogni dunque la riprendevano, come una fanciulla o come una donna oziosa?
In punta di piedi rientrò nella camera dei bambini, e si curvò per aggiustare le coperte. Entrambi dormivano, belli, nel sonno, alla luce dorata della lampadina, di quella bellezza melanconica degli angeli che vigilano i sepolcri. La vita sembrava sospesa in loro, come nel fiore che alla notte si chiude e che non si riaprirà se la luce e il calore non torneranno sulla terra. Nino, roseo e paffuto, gettato di traverso sul lettuccio, coi riccioli spioventi sull'orlo del materasso, le braccia aperte e i pugni chiusi, pareva si riposasse stanco dopo una lotta contro qualche fantastico nemico; Salvador invece, pallido e delicato, coi capelli corti e lisci ricadenti a frangia sulla fronte dalla pelle diafana, conservava nel sonno un atteggiamento composto, e sembrava già un adolescente. Una delle sue manine scarne reggeva la guancia e il mento, su cui colava, dalla boccuccia aperta, un filo di bava lattea: l'altra mano posava sul lenzuolo che egli prima di addormentarsi aveva avuto cura di tirar bene da tutte le parti. Egli dormiva con gli occhi socchiusi, ma quando Lia s'avvicinò, le sue grandi palpebre, simili a conchiglie venate d'azzurro, si sollevarono lentamente, ed ella ebbe l'impressione che egli non dormisse. Si curvò a guardarlo e vide i grandi occhi nuotare in un vapore di sogno e fissarla come da un mondo lontano. Lo baciò sulla guancia e sentì che odorava di vainiglia e di latte come un bambino di pochi mesi, e un impeto di tenerezza e un senso di protezione verso quella creatura fragile e bella che stava attaccata a lei come la campanula allo stelo dell'avena, vinsero il suo turbamento.
Il treno arrivò con ritardo: solo dopo mezzanotte Lia sentì una carrozza fermarsi al portone e la nota voce chiamarla:
- Signora Lia!
Ella gli buttò la chiave avvolta in un fazzoletto, uscì nella scala e gli fece lume dall'alto. Egli saliva rapido e svelto come un fanciullo: e Lia, suo malgrado, si turbò di nuovo. Che cosa le avrebbe detto, appena vicino a lei? Ma nel salire gli ultimi scalini egli sollevò il viso e la salutò con un cenno del capo, senza sorridere, senza guardarla in modo diverso dal solito.
- Povera signora Lia, l'ho fatta aspettare? Come sta?
- Bene; e lei?
- Così, un po' stanco.
Seguiva, cauto e grave, il vetturino con le valigie.
- Qui, qui, - disse Lia, precedendo col lume.
Andato via l'uomo, Piero Guidi si tolse il soprabito, l'attaccò al solito posto, si volse di nuovo a Lia:
- Nulla di nuovo? I bambini?
- Stanno bene, grazie.
- Lei mi sembra un po' pallida, sciupata...
- Oh, nulla; è un po' di stanchezza. E lei? Le occorre nulla?
- Nulla, grazie. Vada a dormire, signora Lia. Chiacchiereremo domani. Buona notte.
Ed ella se ne andò a dormire, ricordando che anche lo zio Asquer le aveva detto: va a riposarti, parleremo più tardi: - ed erano rimasti sempre estranei.
All'alba era sveglia. S'alzò e preparò il caffè, e sentì che i bambini, di solito pigri a svegliarsi, quella mattina invece ridevano e facevano chiasso. Corse da loro e vide Nino nel lettuccio di Salvador: fra il mucchio delle coperte e delle lenzuola aggrovigliate i due fratellini davano l'idea di due uccelli nel nido: si nascosero e un gorgheggio soffocato riempì la camera di allegria. Come protestare? Ella dovette farli alzare per separarli e li chiuse in cucina. Ma Nino saltava, graffiava l'uscio e domandava:
- Cosa mi ha portato, quel signore? Un treno, due treni?
La mamma disse:
- Come vuoi che t'abbia portato qualche cosa se sei il bambino più cattivo del mondo?
- Il più, il più? Sei certa? Il più?
- La mamma è sempre certa di quello che dice, stupido! - disse severo il fratello maggiore.
La mamma però lo redarguì perchè non voleva che fra loro si offendessero, e un'ombra offuscò il chiaro visetto del fanciullo. Ah, ecco che ricominciavano le quistioni, le tirannie e le ingiustizie, tutto a causa di «quel signore». Perchè era tornato? Si stava così bene senza di lui. Ed ecco che il campanello squillò, e la mamma parve dimenticarsi di tutto per correre dall'estraneo.
Nulla era mutato nella camera, e nulla nell'aspetto, nello sguardo, nell'atteggiamento di lui: perchè ella dunque si avanzò ad occhi bassi, timida come una fanciulla?
- Dunque, signora Lia, - egli disse, prendendo la tazza che ella gli porgeva. - Che cosa mi racconta di nuovo?
- Nulla di nuovo! La vita passa...
Egli sollevò gli occhi, la guardò in viso, le guardò le mani: ed ella ricordò il sogno della sera prima e per un attimo risentì la stessa impressione di dolcezza quasi violenta, che le piegava le ginocchia e le faceva batter le tempia. Ma si vinse subito, e sfidò ostile lo sguardo carezzevole che continuava a fissarla.
- Mi dica che cosa ha fatto durante tutto questo tempo, signora Lia.
- Io? e non lo sa? Ho lavorato.
- Cosa fa?
- Di tutto. Adesso ho una macchina da scrivere.
- Ha lavoro abbastanza?
- Sì. Faccio copie di tutti i generi: dalla circolare al romanzo.
- Non s'affatica? Non le fa male?
- Oh, Dio, - ella disse con ironia verso sè stessa, - son così delicata?
- Forte non è certo. Senta, - egli aggiunse a un tratto, ricordandosi, - lei m'aveva scritto che posava per il quadro del mio amico. Che è accaduto, poi?
- Nulla. Solo, egli voleva andare al Cairo, per finire il quadro... ed io non seppi più nulla di lui.
Non accennò all'avventura, ma il disgustoso ricordo tornò a pungerla, a misura che gli occhi di Piero Guidi diventavano quasi cupi di desiderio.
- Se egli osa dirmi una sola parola men che rispettosa lo mando via subito, - pensava, aspettando ch'egli le restituisse la tazzina.
Egli avea dormito bene, e il letto morbido, la camera bella e tiepida, l'aroma del caffè e la presenza di Lia gli davano un senso di beatitudine. Aveva tante volte desiderato quel momento, laggiù nell'austera solitudine della piccola città meridionale! Ecco, adesso la sua giovine e fine padrona di casa è davanti a lui, fiera e chiusa in sè stessa come nella sua veste da lutto. Basta stender le braccia per consolarla e consolarsi con lei! Ma qualche cosa glielo impedisce. Che cosa? I bambini dietro l'uscio, o un velo impalpabile che si stende fra lui e lei, e ch'egli sente di non poter squarciare così, d'un tratto, violentemente?
Bisogna aspettare.
- Mi mandi i bambini, - disse, restituendole la tazzina. - Ho da dar loro qualche cosa.
La sua mano tremava visibilmente.
Dietro l'uscio, quando Lia uscì, i grandi occhi dorati di Salvador la fissavano diffidenti e gelosi, ed ella provò un'impressione nuova: le parve che il fanciullo indovinasse i suoi sentimenti.
«Bisogna mandar via l'estraneo...» disse fra sè, mentre l'uomo, nel suo letto tiepido, ripeteva: «Bisogna aspettare».
I bambini entrarono, timidi verso l'estraneo, già ostili fra di loro, Salvador pronto a correggere gli errori di Nino, questo sicuro di esser compatito e di ottenere i migliori regali.
Lia li attese nella saletta da pranzo: le pareva di veder sempre gli occhi limpidi di Salvador fissi nei suoi e pensava:
«Si direbbe ch'egli ha paura... che diffidi di me e del mio affetto per lui... Nino, anche fosse grande, non avrebbe quest'istinto di diffidenza: forse perchè un vincolo infrangibile ci unisce... Ma Salvador... Salvador capisce già che cosa vuol dire non esser madre e figlio... ed ha paura... ha paura... Ah, no, caro; no, no!...»
E non si accorgeva ch'era lei ad aver paura di sè stessa... Un istinto atavico la dominava: ella era ancora, in qualche modo, la vedova orientale che deve seguire nei regni dell'ombra l'uomo che l'ha posseduta: Salvador rappresentava appunto quest'uomo, ed ella aveva paura del fanciullo come di un testimonio e d'un giudice.
Intanto i due fratellini s'indugiavano nella camera di Piero.
Sebbene Salvador avesse cercato d'impedirglielo, Nino s'era arrampicato sul letto e domandava, guardandosi attorno:
- Dov'è la valigia?
- Tu che sembri molto svelto dovresti fare una cosa, - disse Piero a Salvador che lo fissava silenzioso. - Devi andare in salotto e portarmi appunto la valigietta. Ci riesci?
Il fanciullo sorrise sdegnoso, come per significare che ben altre cose sapeva fare; portò la valigietta, e quando il Guidi domandò: - Cosa mai ci sarà dentro? - finse di non saperlo, mentre Nino rispondeva francamente:
- Forse un treno per me, con due macchinine.
- E se invece ci forse un libro?
- Oh, io libri non ne voglio!
- Benissimo! E tu, Salvador?
- Io sì! i libri mi piacciono più dei giocattoli, perchè insegnano a conoscere tutto ciò che esiste nel mondo.
- Benissimo! - ripetè Piero, che si era seduto sul letto e apriva la valigietta. - Io ne ho già letti molti, e tuttavia ho imparato poco.
- Vuol dire che non sai leggere, - osservò Nino; e i due fratellini risero d'intesa, guardandosi negli occhi.
- Bravi, vi beffate di me, anche?
Ma all'improvviso Nino e Salvador si fecero serî. Egli traeva con esagerate precauzioni una scatola pesante.
- Un treno! Una corazzata!
- Questo è mio! - disse Nino, afferrando subito il treno; e Salvador guardò la corazzata e gli parve d'essere il bambino più felice del mondo. Da tanto tempo la sognava, e adesso la guardava con ammirazione, così bella sul suo zoccolo turchino che rappresentava il mare, coi suoi fianchi lucenti, i cannoni, i marinai di stagno, la bandiera tricolore.
- Com'è bella! - disse semplicemente, e questo bastò perchè Nino guardasse scontento il suo treno.
- Scambiamo, Salvador!
- Ah, no, no! questa è mia!
Nino si mise a piangere, e Piero disse:
- Su, Salvador, contentalo; sei un ragazzetto adesso e non devi far piangere il tuo fratellino. Dagli un po' la corazzata; poi scambierete ancora.
Salvador non protestò: prese il treno, ma sentì che Piero commetteva un'ingiustizia, e si fece pallido e uscito di là nascose il visetto sul fianco di Lia. I singhiozzi lo scuotevano tutto, ma si frenava e non diceva nulla; ed ella sentì qualcosa di questo muto dolore penetrarle per il fianco, su fino al cuore.
- Taci, caro, - gli disse sottovoce, - rimedierò io; ti farò restituire la corazzata.
- No, no; mandalo via, io non voglio nulla... mandalo via... - mormorò Salvador, incoraggiato dalla protezione di lei: ed ella promise puerilmente:
- Lo manderò via...
Ma come giustificare un atto così scortese, dannoso inoltre per lei e quindi anche per i suoi bambini? Egli non aveva fatto nulla per meritarselo. Anzi, durante quella giornata, e nei giorni seguenti, e per tutto l'inverno, continuò a mostrarsi gentile e innocuo. Solo gli occhi, talvolta, parlavano per lui.
Ma il nemico orami era dentro di Lia, ed ella lo combatteva, calma in apparenza, taciturna, dominata dall'idea fissa di vincerlo.
Un giovedì ella incaricò Salvador e Nino di salutare la signora Bianchi, e domandarle quando la mamma poteva andare a salutarla. La sera stessa i bambini, dopo il solito ricevimento, portarono la risposta.
- La signora Bianchi ti aspetta domani alle cinque.
- L'avete veduta?
- No, è raffreddata; ce l'ha detto la b-o-n-n-e.
- È sofferente e mi riceve lo stesso, - pensò Lia. - Vuol dire che si ricorda di me con simpatia e forse indovina lo scopo della mia visita...
Sentimenti opposti, speranza e timore, umiliazione ed orgoglio, la tennero agitata tutta la notte e l'indomani fino all'ora della visita. «Che cosa le domanderò? Che mi procuri un posto, un impiego, o lavoro a casa?» Qualunque cosa che le permettesse di vivere indipendente. Indipendente? Ah, ella sentiva che sarebbe stata sempre serva di qualcuno: ella voleva liberarsi da un laccio che ogni giorno di più la stringeva, e andava, andava, così a caso, verso la signora Bianchi perchè non sapeva da chi altri, come un viandante smarrito va, nel crepuscolo, verso una luce lontana.
- Se troverò lavoro, posso m-a-n-d-a-r-l-o v-i-a, - pensava.
M-a-n-d-a-r-l-o v-i-a, non vederlo più, non incontrare più i suoi occhi dolci che attiravano come uno sfondo glauco di cielo sopra un luogo nero!... E mandato via lui non accoglier più nessuno in casa; era questa la sua idea fissa. Sentiva un prepotente bisogno di solitudine, d'isolamento, una sorda ostilità contro tutti, uomini e donne. Via, via, se la pia signora l'aiutava, ella non avrebbe più aperto il suo uscio a nessuno...
Risalì tremando, sottile e nera come un'ombra, lo scalone candido che altre volte ella aveva salito sorridendo bianca e scintillante. Il cameriere la guardò con diffidenza.
- La signora non riceve.
- Mi aspetta, - disse Lia, già offesa. - Sono la signora Villanueva.
Allora il servo la condusse, silenzioso, attraverso le sale deserte, un po' buie, profumate di fiori come angoli di giardini al crepuscolo, ed ella provò un senso di stupore quando si trovò davanti alla sua figura nera, in un salottino grigio e argento le cui specchiere riflettevano il cielo d'oro del tramonto d'inverno.
Dove aveva veduto quella figura, con quegli occhi pieni di orgoglio e di umiliazione? Ah, adesso ricordava: nella gabbia dorata dello zio Asquer, appena dopo il suo arrivo... Allora, per un fenomeno mnemonico, l'orizzonte marino e l'odore della brughiera le tornarono alla memoria: e per la prima volta l'idea di ritornare l-a-g-g-i-ù le diede un senso di dolcezza profonda.
Quando la signora entrò, Lia era già calma. Decisa a non domandar nulla se nulla le veniva offerto.
Alta e grigia, col viso pallido e immobile e gli occhi azzurri luminosi e freddi come quel cielo d'inverno, la dama porse a Lia tutte e due le mani, guardandola senza sorridere, ma anche senza sforzarsi a fingere un dolore o un interessamento che non sentiva.
- Cara! Da quando non ci vediamo!
- Mi perdonerà... - mormorò Lia, e il suono della sua voce umile la rattristò.
Sedette accanto alla dama benefica, si piegò su sè stessa.
- Quante volte abbiamo parlato di lei col dottor Fontana! Abbiamo una vera ammirazione per lei così brava, così coraggiosa...
- Adesso m'offre il suo aiuto, - pensò Lia; e attese.
- Ma dev'essere anche contenta dei suoi due bambini: due fiori, che la sua valida manina sa così ben coltivare...
Posò la sua mano lunga e calda sulla mano di Lia: ma questa sentì come un peso, qualcosa che la schiacciava, come se quella mano fosse un macigno.
Parlarono dei bambini, di quello che diceva Salvador, di quello che diceva Nino: la signora Bianchi sapeva tutto, li conosceva a fondo, come il suo bambino stesso. Perchè dunque, attraverso i figliuoli, non indovinava nulla della madre?
- Che le importa di me? - pensò Lia, - Ella si occupa di loro, perchè fan parte della vita del figlio, null'altro.
E non attese più: anzi si sollevò e sorrise. Parlarono del dottor Fontana, del suo ospedalino, di altri istituti, di ospizî, di scuole, di opere di carità, di beneficenza, e dei poveri, soprattutto dei poveri, che bisogna aiutare, sollevare, elevare moralmente, soprattutto moralmente. Lia accennava di sì, di sì, e ascoltava, lontana ed estranea alla pia signora, come la pia signora era estranea e lontana da lei.
Poi parlarono d'altro: del passato, del morto; e un'ombra velò gli occhi della dama, l'ombra che ci dà la paura di un dolore che altri hanno provato: ma Lia non si turbò. Qualcosa di gelido le fasciava l'anima; le pareva che nulla, nulla più avrebbe potuto commuoverla. Il suo cuore era freddo, in quel momento, come quello che le palpitava vicino, all'altr'angolo del divano: di che dunque poteva aver paura? Di un uomo che la guardava con occhi soavi? Ma ella era insensibile, come la pietra in mezzo al campo desolato. E se ne andò attraverso i saloni deserti come attraverso le strade affollate: con lo stesso senso di solitudine e di abbandono nel cuore.

*

Ma nei giorni seguenti fu assalita da una crisi di disperazione. Le parve a un tratto di essere invecchiata e di dover presto morire. La morte! Era questo l'avvenimento grandioso ch'ella aveva atteso durante tutta la sua vita di privazioni e di inquietudini? Ah, no, no: tutto fuorchè morire e lasciare i bambini soli. E se li stringeva al petto, tutti e due, aggrappandosi a loro come per salvarsi dalla corrente impetuosa che tutto ad un tratto la trasportava.
Un giorno, sull'imbrunire, stava ancora seduta a copiare a macchina, davanti alla finestra della sua camera da letto, e aspettava il ritorno dei bambini da casa della signora Bianchi, quando all'improvviso sentì rientrare il Guidi. Egli non rientrava mai, a quell'ora; quella mattina però credette ch'egli si sentisse poco bene e si ritirasse per mettersi a letto. Ella continuò a lavorare, ma lievemente inquieta. Era un tramonto freddo e chiaro di marzo: il cielo, come lucidato dalla tramontana, pareva di cristallo verdognolo; qualche finestra brillava già, e le carrozze chiuse, con dentro le belle signore che tornavano dai ricevimenti e dalle conferenze, svoltavano su per via Quintino Sella luccicando come grandi scatole di lacca. Il vento freddo passava davanti alla finestra di Lia scuotendo i vetri come per provarne la resistenza: e aveva come un sibilo di rabbia poichè non poteva penetrare e portarsi via qualche cosa. Lia sollevava di tanto in tanto gli occhi, spiando l'arrivo della carrozza della signora Bianchi con dentro i bambini; ma il cielo diventava sempre più lucido, le strade si coprivano d'ombre e di splendori tremolanti ed essi non tornavano. Che freddo e che tristezza! E Piero Guidi, di là nelle sue camere, che non si sentiva. Che faceva? Era andato a letto?
- È sofferente ed è solo, - pensò Lia con pietà. Si alzò e andò a picchiare timidamente, domandandogli se aveva bisogno di qualche cosa.
- Venga, - egli rispose dal salotto.
Lia entrò, ma si fermò subito stupita, sembrandole che egli, gettato sul piccolo divano e col viso nascosto sul cuscini, piangesse.
- Che ha, signor Piero? Si sente male?
- Molto male...
- Perchè non va a letto? Che ha?
S'avanzò, ma non osò avvicinarsi a lui. Lo spettacolo di quell'uomo forte che piangeva come una donnicciuola senza curarsi di nascondere il suo affanno, le dava un profondo stupore e un impeto di pietà materna. Avrebbe voluto sollevarlo come sollevava Nino caduto o piangente, ma quel dolore che si esponeva così, le destava anche un senso di rispetto.
Piero sollevò il viso, la guardò con occhi smarriti, la vide davanti alla finestra, sullo sfondo glauco del crepuscolo, pallida e bella come l'aveva veduta in riva al mare, e riaffondò il volto sul cuscino, scuotendo la testa e singhiozzando come un bambino disperato.
- Dio, Dio, ma che ha? - ella disse spaventata.
Egli pianse più forte, poi all'improvviso si calmò, balzò a sedere, mise i gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, e disse quasi irritato:
- Le ho dato spettacolo! Lei non credeva, vero, che un uomo potesse far così! È rabbia, sa...
Lia non rispose. Egli sollevò il viso.
- I bimbi non ci sono?
- Non sono rientrati; sono dalla signora Bianchi.
Egli rimise il volto fra le mani, e cominciò a battere nervosamente la punta del piede sul tappeto. Due o tre volte sollevò gli occhi e mosse le labbra per parlare, ma pareva che qualche cosa superiore alla sua volontà glielo impedisse. Finalmente, mentre Lia andava imbarazzata dall'uscio allo scrittoio e da questo alla finestra, disse piano come fra sè:
- Lo sa che è qui, a Roma?
Lia si fermò davanti ai vetri e non si volse, non si mosse più. Le pareva che un gelo mortale la invadesse tutta, pietrificandola. Qualcosa di funesto doveva succedere: l'avvenimento preveduto fin dal primo momento in cui egli l'aveva guardata con occhi d'amore, e che invano ella aveva cercato di evitare.
- Essa è a Roma, Lia, essa è a Roma! - ripetè l'uomo, alzando la voce e chiamandola per la prima volta col solo suo nome. Pareva le chiedesse aiuto; e Lia sentì riempirsele gli occhi di lagrime. Ma non si mosse, non si volse.
- Lia, lo sa di chi parlo?
- Lo so.
- Come lo sapeva?
- Certe cose si sanno sempre.
- Si sanno, si sanno! - egli ammise, e nascose di nuovo il viso, e parve curvarsi, piegarsi su sè stesso come sotto il peso di un dolore vergognoso. - Tutti lo sanno! Anche lei! E lei taceva!
- Perchè taceva lei!
- Io tacevo perchè a lei non importa nulla di me. Nulla!
- Oh, questo non lo dica!
- Dunque le dispiace?
- Mi dispiace sì... che accanto a me ci sia qualcuno che soffre...
- Questo soltanto?
- Che altro dunque?
- Che io sia legato a un'altra donna... indegna e malvagia?...
Lia cominciò a tremare. - Non parli così! ... Perchè parla così?... Un giorno... faranno la pace... forse presto, poichè essa è qui... e lei, signor Piero, potrà pentirsi... delle sue parole...
Ella non sapeva quel che diceva; ma s-e-n-t-ì il suono delle sue parole, s'accorse che balbettava e tornò a irrigidirsi.
- Io non mi pento delle mie parole, nè delle mie azioni, Lia! Mi ascolti; si avvicini: non abbia timore... Mi lasci sfogare.
«Non abbia timore!» Egli dunque s'accorgeva ch'ella era turbata. Tornò padrona di sè e gli si avvicinò, pallida e fiera.
- Si metta a sedere lì.
Lia sedette accanto al divano: egli si sollevò, senza guardarla, con gli occhi rossi, i capelli scomposti, il viso deformato dal pianto: pareva uscisse da una lotta con un nemico che lo avesse brutalmente percosso e vinto.
La sera fredda e lucida cadeva davanti a loro: i cristalli tremavano, e Lia sentiva di nuovo un senso di freddo e di abbandono. No, quell'uomo non era il bel giovane di cui ella aveva paura e desiderio: era un estraneo, che la chiamava a nome perchè soffriva e «voleva sfogarsi». Se fosse stato felice non avrebbe certo badato a lei, sola e sconsolata nella sera gelida.
- Senta, Lia, - egli disse senza volgersi, - s'io l'avessi conosciuta prima forse non sarei venuto a stare a casa sua. E anche lei, forse, conoscendomi bene, non mi avrebbe accettato, non sarebbe stata con me buona come è stata. Non perchè io non sia un galantuomo, anzi appunto per questo. Ma adesso è tardi, ed è impossibile tornare indietro, ed è forse meglio... Non sempre è male ciò che sembra male...
Lia taceva: le pareva di non capire, o fingeva a sè stessa di non capire.
- Del resto, - egli proseguì, - noi non ci conosciamo ancora. Non siamo amici, come pareva che dovessimo diventarlo. Perchè succede sempre così? Perchè non si arriva mai a conoscersi? Mai! Sarà accaduto anche a lei: come un velo cade in mezzo a due persone che si vogliono bene, e tutto appare torbido in loro...
Lia ricordò lo zio Asquer e lo stesso Justo ch'ella non aveva saputo conoscere e amare abbastanza.
- Dicono che non riusciamo neppure a conoscer noi stessi: ma questo non è vero. Non sappiamo ciò che saremo domani; ma quello che siamo oggi, quello che siamo stati, sì, questo lo sappiamo! Io non prevedevo di farle questa confessione, Lia; ma adesso so di fargliela, so di rivelarmi a lei, e mi pare di vedermi, mi vedo, anzi... (apriva le mani e guardava per terra, davanti a sè, quasi vedesse davvero l'ombra di sè stesso) mi vedo, Lia, con tutti i miei difetti, i miei errori, le mie debolezze... E so che son diventato così perchè altri lo hanno voluto, non per colpa mia... Io ero buono, sa, quasi ingenuo: la mia famiglia è equilibrata, semplice; mio padre è un patriarca gentiluomo, mia madre una donna che giura che il male non esiste. Io e mia sorella siamo venuti su come due pianticelle delicate in un orto chiuso: io ero ingenuo e puro quasi come lei. Ecco perchè sono piaciuto a q-u-e-l-l-a d-o-n-n-a a vent'anni essa era già corrotta, mentr'io, a venticinque anni, ero ancora come un bambino. E m'ha preso e ha devastato la mia anima. Ma ciò che più mi disgustava, in lei, era la menzogna, sa, quella menzogna piccola, vile, quotidiana, la finzione diventata natura, il tradimento velato di amore, il veleno che vi si propina a goccia a goccia e non vi fa morire, ma vi turba la visone della vita, inquinando le sorgenti dell'essere. E non era incosciente, questo è il terribile: sapeva ciò che faceva, e non era contenta di sè, tormentata, e più era tormentata più era perfida...
Lia taceva, immobile, pallidissima.
- Siamo stati assieme quattro anni: quattro secoli di pena infernale. Dopo la prima separazione, la mia famiglia, e specialmente mia sorella, ch'è sensibilissima e nervosa come lo son io, e che soffriva perchè soffrivo io, fece di tutto per riunirci. E ci riunimmo. Ci fu una specie di contratto, quasi un nuovo matrimonio, e un vescovo si immischiò nella faccenda e benedisse la nostra riunione. Tre le altre condizioni c'era quella di poter, ciascuno di noi, godere della propria libertà, fino a un certo punto, s'intende; ma mentre io, con l'illusione di imporle rispetto, non ne profittavo, ella cominciò fin dai primi giorni a oltrepassare il limite. Usciva anche alla notte, con certe sue amiche equivoche, e la nostra casa era sempre piena di gente antipatica, di brutte faccie, di persone mediocri. Io non ho mai capito perchè essa, che è intelligente, si circondasse di tipi simili. Forse lo faceva per irritarmi: bastava che io dicessi: il tale o la tale non mi piacciono, perchè essa li attirasse a casa e ne facesse i suoi favoriti. Le sue simpatie duravano poco, ma erano sempre le stesse, verso persone mediocri o anormali.
- Forse anch'essa è un'anormale, un'infelice, - disse finalmente Lia, a bassa voce.
- Normale non è, certamente, ma perchè verso gli altri è buona, gentile, pietosa, perchè è buona anche con la mia famiglia, specialmente con mia sorella, sulla quale esercita una specie di fascino; perchè è generosa coi poveri, amabile con tutti, mentre con me si è mostrata sempre cattiva, perfida, d'una perfidia costante, raffinata, inesorabile? Fra me e lei non c'è stata mai una scena volgare, ma bastava ch'io esprimessi un desiderio perchè ella ne esprimesse uno opposto al mio. Faceva tutto quello che sapeva contrario ai miei principî, ma sempre in modo da sfuggire ai miei rimproveri. Questo, però, durante gli ultimi tempi, perchè subito dopo il nostro matrimonio s'era mostrata anche buona con me, ragionevole, talvolta persino passiva. Ma gli ultimi anni furono terribili: essa mi odiava, e finii con l'odiarla anch'io: avevo paura di commettere un delitto. Allora... Lia, le avranno forse raccontato anche questo... io diventai, in apparenza, uno di quei tanti «viveurs» ridicoli, che passano la giornata in un ufficio e la sera scimmiottano i veri e grandi «viveurs». Ci separammo di nuovo, o meglio fu lei a scappare, come io in fondo desideravo. Ritornò presso suo padre, e si finse così bene vittima, che anche i miei parenti, dopo il racconto che ella fece loro di tutte le mie iniquità e delle mie aberrazioni, han preso a considerarmi e a disprezzarmi come un mostro. Mia sorella, per il dispiacere, cadde ammalata. Anche da lontano mia moglie esercita su di me il suo fascino malefico. Pensando a lei sento un senso di ripugnanza, di antipatia fisica, di angoscia profonda. Forse non tutti i torti sono stati suoi, ma mentre io compativo i suoi, ella non aveva pietà di me. Mi odiava; mi odiava, - egli ripetè con rabbia, - e il perchè non me lo disse mai! Avessi almeno saputo il perchè! no, ella non mi diceva mai niente; si ergeva, davanti a me, come un muro contro cui io sbattevo ad ogni momento la fronte. Ero diventato come pazzo; non vedevo più, non ragionavo più. Da tre anni siamo separati, e il tempo passa ed io non posso dimenticare... Non posso, non posso! L'anno passato qualcuno mi avvertì ch'ella sarebbe ritornata a stabilirsi a Roma: è ricca e può farlo, allora fuggii io; sì, sono stato io a farmi mandare in Sicilia, tanto avevo paura di rivederla, fosse pure nelle vie. E adesso è qui! è qui! - egli replicò, stringendosi la testa fra le mani, con disperazione così sincera che Lia non osò pronunziare parole di conforto e di pace.
- L'ha veduta? - domandò.
Egli fece segno di no: ella rispose:
- Roma è grande. Essa, poi, sarà venuta per qualche mese. Poi ripartirà...
- Odio l'aria che essa respira! Eppoi, se essa è qui lo è per tormentarmi e perseguitarmi, lo so, lo so! Mi meraviglio, anzi, che ella sia stata tanto tempo quieta: essa ha tempo, denari, salute, ed io sono stato per lei una specie di trastullo col quale si è divertita crudelmente, e vuol riavermi, lo so, per riprendere il suo gioco. Non mi lascerà più tranquillo. Vedrà, Lia, vedrà!
- Ma no, - disse Lia, con un senso quasi di protezione, - lei esagera. Stia tranquillo, vedrà che tutto passerà. Eppoi che ha da temere? Che può farle? E se si incontreranno non sarà forse meglio? Se sua moglie la sentirà parlare così, come ha parlato a me, adesso, non insisterà certo nel desiderare una riunione fatale per entrambi.
- Ma non è di riunirsi a me che ella desidera: ella desidera solo di tormentarmi.
- Come può tormentarla, - domandò ingenuamente Lia, - e se non si vedranno, se lei non la ama più, se non hanno più ragione di incontrarsi?
Egli si alzò, ad un tratto, senza rispondere, e s'avvicinò ai vetri sempre più luminosi ma d'un riflesso fosco e livido, come d'un fuoco lontano che si spegneva. Allora Lia ripensò ai bimbi; s'alzò anche lei inquieta, e guardò nella strada bianca e gelida, già rischiarata dai fanali, le cui fiammelle tremolavano nel crepuscolo come grandi stelle gialle.
- E i bimbi non tornano! - mormorò fra sè.
All'improvviso si sentì stringere il braccio e trasalì: ricordò la scena dello studio, ed ebbe paura di sè, della sua debolezza, della sua pietà che le destava l'uomo; ma egli non fece altro che attirarla un po' a sè e dirle, guardando lontano:
- Come può tormentarmi? Lei non ha dunque capito? Mia moglie non mi ha mai veramente voluto bene, ma è stata sempre gelosa, come tutte le donne che amano di solo amore sensuale. Adesso ella sa che io vivo presso una donna molto superiore a lei, una donna buona, gentile e intelligente, e crede che io e lei, lei - le strinse forte il braccio, - ci amiamo, e farà di tutto per dividerci. Ecco perchè è venuta a Roma.
Lia spalancò gli occhi, atterrita, ma subito si dominò.
- Ebbene, è facile il rimedio, se ne vada.
- Ah, questo no, poi! Perchè, quando nulla è vero?
- E se nulla è vero, perchè temere? - ella gridò con fierezza. - Chi può far supporre sua moglie una cosa non vera? Essa non ne ha il diritto, e d'altronde non credo neppure che essa si permetta di sospettare scioccamente di... noi... solo per un gusto malvagio... Io... lei... io...
Ella era così agitata che Piero cercò di calmarla.
- È vero, ha ragione; mi perdoni.
E dopo un momento di silenzio, riprese:
- Essa sospetta di tutti; ha la fantasia corrotta, e vede il male e la degenerazione anche nelle cose più pure, e i suoi sospetti diventano per lei realtà, come nel mentire costantemente ella finisce col credere di dir la verità. Adesso sa che sto qui, e che durante la mia assenza io e lei siamo stati sempre in relazione, sa che io nutro per lei una vera amicizia; quindi farà di tutto per dividerci, Lia; di questo solo temo, non di altro...
Egli fece un nuovo tentativo per attirarla a sè, quasi per cercare in lei protezione e impedire all'a-l-t-r-a di dividerli: ma Lia, nonostante la violenta emozione che la costringeva a chiudere i denti per frenarne il battito, si liberò dal braccio di lui, e ricominciò ad aggirarsi di qua e di là per il salotto, pronunziando parole imprudenti.
- Se ne vada, se ne vada, signor Piero! Ah, non bastavano le altre mie disgrazie? Anche questa? Non avevo che la mia pace e anche questa mi è tolta!...
- Lia, si calmi, - egli disse aspettandola fermo accanto alla finestra, certo oramai che ella avrebbe finito col cadergli fra le braccia. - A tutto son disposto fuorchè ad allontanarmi da lei...
Lia si sentiva smarrire davanti a quell'uomo che aveva tuttavia, nel viso e nell'aspetto, e persino nelle vesti scomposte, l'aspetto d'uno che è stato aggredito e vinto. Ah, mandarlo via, mandarlo via! Perchè lo aveva accolto, perchè, al primo accenno di pericolo, non aveva chiuso la sua porta, come quella sera nella casetta della spiaggia? Adesso era tardi: il nemico era dentro e lei senza armi e senza difesa.
Ma il rumore d'una carrozza che si fermava al portone risuonò nel crepuscolo, tra il fruscìo del vento, ed ella corse alla scala e andò incontro ai bambini affannata.
Essi rientrarono, come sempre quando tornavano dalla signora Bianchi, rossi in viso, eccitati, carichi di pacchettini, accusandosi vicendevolmente degli errori commessi.
L'appartamento echeggiò delle loro risate e delle loro querele, ma Piero Guidi provò una sorda irritazione contro i due piccoli intrusi che arrivavano giusto nel momento in cui egli aveva bisogno di Lia.

*

Il colloquio interrotto non fu ripreso nè quella sera nè nei giorni seguenti. Pareva che egli sfuggisse Lia, pentito di quanto le aveva confidato, ed ella a sua volta lo sfuggiva, ma senza ostentazione, fredda e calma in apparenza quanto in realtà era tormentata.
Il ricordo di lui non la abbandonava un momento: non dimenticava una sola delle sue parole, e aveva paura di attraversare il salotto perchè e-g-l-i era rimasto là come un fantasma, e quando l-o r-i-v-e-d-e-v-a agitato, piangente, che cercava di attirarla a sè senza farle violenza ma con la forza della passione, forza più terribile d'ogni violenza, si sentiva tutta scossa da un brivido.
- Mandarlo via, - questa idea fissa la tormentava giorno e notte: - ma come fare? «A tutto son disposto fuorchè a separarmi da lei», egli aveva detto e queste parole riempivano l'aria di luce e di suoni, intorno a lei, ma di luce e di suoni che la sbigottivano. - Che accadrà, che accadrà, Signore? Ella è una debole donna, senza difesa, e il gorgo molle e fatale della passione l'attira. Ma è decisa a lottare fino all'ultimo; ha vinto l'aperta violenza; possibile che non riesca a vincere la tentazione d'un uomo che è più debole di lei?
I giorni passavano, ed ella si convinceva che Piero Guidi era un debole, un vinto. La stessa sua passione per lei - passione vaga e variabile - glielo faceva talvolta apparire come un essere senza volontà; ma a misura che i giorni passavano e che egli non cercava di riprendere il colloquio interrotto, la sua fantasia lavorava a ricomporre la figura ideale di lui, e la ingrandiva e la coloriva.
- Egli mi ama davvero e perciò mi sfugge e mi rispetta. Egli sa che son sola, povera, unico appoggio ai miei bambini: turbare la mia pace è un delitto: egli lo sa... egli è onesto...
Eppure diffidava ancora: ma questa nuvola torbida di paure e di sospetti, prendeva, per così dire, un colore, appunto come una nuvola che al mutar della luce si illumina e s'indora; non era più dell'uomo, che ella diffidava, era di sè stessa.
Un giorno se ne accorse, ma non se ne meravigliò. Doveva succeder così. Adesso era tardi e non le restava che lottare. Ma ad un tratto questa lotta le parve facile, quasi piacevole.
La vita e la giovinezza riprendevano in lei i loro diritti; come il povero al tornare della primavera le sembrava che le membra le si sgranchissero, l'aria intorno fosse tiepida e quindi i movimenti più facili. Si sentì giovane e forte. Le paure, le inquietudini, le umiliazioni sparvero. I suoi bambini le sembravano più belli del solito, e baciando Salvador sentiva come un profumo di fiori, e baciando Nino sentiva come un gusto di frutta un po' acerbe.
Ricordi lontani le tornavano in mente: rivedeva la brughiera, le dune naturali, grigie davanti al mare violetto: la zia Gaina nera sullo sfondo argenteo delle paludi; e sentiva ancora il grido dell'assiuolo, il lamento della fisarmonica suonata dal servetto del maestro. Povero Maestro, egli la amava sempre, in silenzio, da dieci, da quindici anni... e per la prima volta ella pensava a lui con pietà, quasi con tenerezza, ma poi, tutt'ad un tratto, lo invidiava. Perchè povero? Egli amava, aveva sul suo orizzonte una figura verso la quale si volgeva come verso una luce inestinguibile. Quanti uomini, anche fra i più fortunati, hanno questo bene? E le donne? Quante donne, anche fra le più invidiate, hanno la fortuna di amare, in silenzio, di vivere del loro amore?
Ah, ecco che cosa le mancava l-a-g-g-i-ù: l'amore. Era questo desiderio che la spingeva verso lidi lontani, e le faceva apparir deserte anche le regioni le più popolate. Ma era contenta di esser partita e di aver raggiunto la sua mèta. Amare, amare, tacere, vivere d'amore!
Ed era il suo primo amore, questo, ed ella se ne accorgeva, e ne provava tutta l'ebbrezza casta e misteriosa. Che cosa c'era davanti a lei? Una muraglia coperta di edera e di fiori, e al di là un giardino incantato ov'ella non desiderava penetrare. Amare. Sì: perdersi nel giardino degli inganni, no.
Ricominciò a curare la sua persona, e in pochi giorni si trasformò. Ridiventò fresca, con le labbra rosee, gli occhi lucenti, come illuminati alla fiamma interna che le dava calore e vita. Camminava agile per le strade, come una fanciulla di sedici anni, e le pareva di esser lieve, sospinta dal vento di primavera che riempiva di polvere e di profumi la città, e quando pensava al suo povero Justo diceva a sè stessa che se egli avesse potuto vederla sarebbe rimasto contento. Lo spirito di lui voleva certo la gioia di lei. La felicità completa non è di questo mondo; ella lo sapeva: è dei fanciulli o della gente squilibrata il sognarla. Ed ella non era più una fanciulla nè una donna romantica per sognare, per esempio, un nuovo matrimonio con un uomo giovane, bello e intelligente come Piero Guidi: la sola idea che, egli libero, ciò sarebbe potuto avvenire, le dava un senso di vertigine. Ma poi si calmava e ricadeva nei suoi sogni fantastici.
In quei limpidi mattini di aprile, mentre i bimbi erano a scuola e la casa era in ordine, ella lavorava davanti alla finestra, ascoltava i rumori della città che si fondevano in un rumore solo, monotono e armonico, respirava l'aria profumata, e sollevando gli occhi si incantava a guardare qualche nuvola rosea che attraversava il cielo azzurro. Così forse il viandante nel deserto si ferma a contemplare il miraggio lontano.

*

Fin da quel tempo si cominciò a parlare del posto ove andare per i bagni. I fanciulli, e specialmente Salvador, che di giorno in giorno diventava alto, pallido e nervoso, avevano assoluto bisogno di campagna o d'aria di mare.
Una mattina Piero domandò a Lia:
- Dove conta di andare, quest'anno?
- Al solito posto, spero.
- Andiamo ad Anzio!
- Andiamo! - ella ripetè fra sè, turbandosi: e disse con voce triste: - io non tornerò più ad Anzio!
- Andiamo a Rimini, allora.
- E perchè non a Ostenda addirittura?
- Andiamo in qualche spiaggia pittoresca, - egli insistè, fissandola. - Penserò io all'alloggio: lei non si preoccupi.
- Non è questione dell'alloggio. Io ed i miei bimbi dobbiamo andare in un luogo modesto e solitario. Lei con noi si annoierebbe...
Mentre ella parlava, egli finiva di sorbire il caffè, senza cessare un istante di guardarla; e quando ella fu per riprendere la tazza le afferrò la mano e gliela strinse forte. Un brivido la assalì, ma tosto si vinse e cercò energicamente di ritirar la mano.
- Perchè non vuole che io venga, Lia? - egli domandò sottovoce, - che le ho fatto? Perchè non vuole? - insistè, balbettando come un adolescente. - Le ho mancato di rispetto? Non sono per lei un amico, un fratello? E lei mi sfugge... lei non mi guarda neppure, lei coglie ogni occasione per rispondermi sgarbatamente.
- Questo non è vero, poi!
- Tanto è vero che lei non ha finito ancora di ripetermi che io mi annoierò dove sarà lei! Certo, se lei si mostrerà così fredda, diffidente e scortese, io mi annoierò! Ma lei non deve mostrarsi più così con me: non c'è ragione, no! perchè non dobbiamo essere amici, dica? Le ho mai domandato nulla d'illecito? Risponda! Lei è troppo intelligente per capire che non ha nulla da temere da un uomo come me. Risponda, la prego; ha fiducia in me?
- Perchè non dovrei aver fiducia?
- No, non risponda così, con una frase che non dice niente. Mi guardi, per piacere, si volti!
La tazzina tremava nella mano di Lia; ma ella pensava con fierezza: «forse egli crede che io abbia paura di me stessa» e si volse, lo guardò e non cercò oltre di liberar la mano ch'egli continuava a stringerle.
Come vinto da un irresistibile bisogno di carezze egli la costrinse a metter giù la tazzina, le prese l'altra mano e se le portò tutte e due al viso.
Lia sentì la pelle calda delle guancie di lui, le parve di scottarsi e si liberò. Ma quell'ardore le rimase nelle palme delle mani e le si comunicò al sangue. Nulla più oramai poteva guarirla.
- Io le voglio bene, Lia, - egli riprese, e il suo accento era trepido e sincero, - è inutile nasconderglielo oltre: e anche lei non è indifferente... Non dica di no, Lia... Perchè non dobbiamo essere amici, dunque? Ieri lei diceva ai suoi bambini, mentre questionavano: dovete volervi bene, perchè siete soli e nessuno si curerà di voi. Ed io le ripeto la stessa cosa, Lia! Siamo soli, nessuno si cura di noi: perchè non volerci bene?
- Lei non è solo! Ha famiglia, ha chi le vuol bene...
- Sono peggio che solo! Veda, anche la mia famiglia mi ha rinnegato, perchè ho voluto riacquistare la mia libertà. Eppure non sono cattivo, nè disonesto: lei oramai lo può dire.
- Lei è buono!
- Buono forse no, ma cosciente sì. So quello che faccio, e non mi pento delle mie azioni. Lei forse voleva che io andassi via di qui, dopo quella sera; e non ha insistito, forse per orgoglio, forse per pietà; ma certamente ha creduto che io mi pentissi d'essermi confidato a lei.
- E allora perchè... - ella ricominciò vivacemente, ma non proseguì.
- Perchè non ho più parlato? Perchè mi è parso che a lei non piacesse di ascoltarmi!
- Oh, non è vero!
- Allora sono sempre a tempo a dirle tutto. Non adesso, però. Vada; ma prima mi dica che ha fiducia in me...
- Se non ne avessi non le permetterei di stare in casa mia!
- È convinta che io non le farò mai che del bene?
Le aveva ripreso la mano e la tratteneva e la respingeva, come combattuto dal desiderio e dal timore di attirarla a sè: finalmente la lasciò libera, sebbene non avesse ottenuto riposta alle sue domande, ed ella uscì, rapida, ripetendo fra sè le parole di lui: - Io non le farò mai che del bene.
Fu una delle giornate più felici della sua vita. Piero uscì, e durante il giorno non si fece più vedere; ma ella non smise un istante di pensare a lui, sembrandole oramai di volergli bene come ad un fratello, con un affetto che neppure l'ombra di un desiderio impuro offuscava.
Nel pomeriggio andò coi bimbi a Villa Borghese: gli usignoli cantavano sulle quercie tremule lucenti; i prati eran pieni di bimbi, di donne vestite di chiaro, di preti rossi e violetti. Tutto un popolo variopinto passava negli sfondi dei viale, come attraverso uno scenario meraviglioso; pareva che nella Villa si desse una festa, una rappresentazione fantastica. Lia provava la stessa impressione di piacere che l'aveva rallegrata al suo arrivo a Roma: un mondo nuovo s'apriva per lei, uno spazio ove tutto era luce e armonia.
- L'amo, l'amo! - ripeteva a sè stessa.
Nella sua gioia guardava i fanciulli che giocavano fra l'erba, agile ed eccitato Salvador, un po' molle e indifferente Nino, e le pareva che in fondo alla sua ebbrezza non cessasse di splendere la fiamma dell'amore materno, perchè se si rallegrava di sentirsi giovane e felice era per l-o-r-o.
Appena tornati a casa, Nino e Salvador mangiarono con avidità e andarono a letto stanchi; Lia si mise a scrivere a macchina, ma non potè resistere a lungo come le altre sere.
Aveva sempre in mente l'idea che fosse festa e non si dovesse lavorare. La notte era dolce e lunare, come quella in cui era tornato Piero: ed ella s'affacciò ancora alla finestra, e vide lo stesso cielo azzurro vellutato, la stessa linea di palazzi, i chiaroscuri della via e dei giardini, i lumi rossi in mezzo alle fabbriche che sembravano rovine.
Ma un profumo di glicine e di zagare inondava l'aria, ed ella ebbe l'impressione che grandi giardini incantati circondassero la città, e che di laggiù, da quella plaga di sogni, dovesse arrivare da un momento all'altro, per tutti quelli che erano stanchi, tristi, irritati, per tutti quelli che avevano lavorato durante la lunga giornata di primavera ed erano vissuti di pensieri aridi, di poco pane, di nessun affetto, un richiamo, un invito a scendere laggiù per un'ora di oblio e di pace.
Anche lei sentiva una smania di uscire, di vagare nella notte odorosa e chiara, di andare verso quel luogo di dolcezza, ma a un tratto vide Piero attraversare la via, e le parve che tutto l'incanto della notte primaverile penetrasse con lui nella casa silenziosa.
Egli l'aveva veduta alla finestra, e picchiò all'uscio per chiamarla; bastò quel lieve rumore perchè ella si svegliasse dal suo sogno.
- Venga, - egli disse, camminando piano per non svegliare i bambini: entrarono nel salotto e sedettero sul piccolo divano e ripresero il discorso interrotto, ma Lia di nuovo fu presa da un senso di diffidenza.
- Ecco, - egli disse, traendo e porgendole una lettera la cui busta grigia aveva su un angolo un gran sigillo d'argento. - È di mia moglie. È diventata ragionevole, quasi buona: acconsente alla separazione legale, non solo, ma la proposta, adesso, è partita da lei. Essa è venuta a Roma, mi scrive, appunto per definire questa dolorosa questione; legga, legga.
Le mise in mano la lettera, e Lia trasse il foglietto, sul quale si ripeteva il sigillo d'argento; ma i suoi occhi si fissarono sull'intestazione del grande albergo donde la signora Guidi scriveva, e di lì non si mossero, come affascinati. Un gran palazzo sorgeva, in capo al foglietto profumato; cupole e guglie lo incoronavano, sormontate da bandiere; e una folla d'uomini piccoli come insetti gli si aggirava attorno. Lia vide una sala dorata, una bella donna seduta davanti a uno di quei piccoli scrittoi fatti per le lettere brevi e frivole, e si sentì umile e triste, lontana dall'uomo che le aveva messo in mano il foglio e la busta con gli inutile sigilli.
- Se e-s-s-a è diventata ragionevole e buona, - disse, restituendogli la lettera, - non sarebbe il caso di una riconciliazione?
- Oh, mai! Che dice! È diventata buona perchè ama un altro uomo, o le sembra di amarlo... come ha amato me nei primi tempi! L'amore rende buoni, Lia!
- È vero! - ella disse fervidamente.
- Nei primi tempi! - egli riprese con rancore, buttando con dispetto la lettera sul tavolino e poi riprendendola. - Ma poi!... Poi diventò cattiva perchè non mi amava più. Si stancò presto di me... come di un amante... perchè le diedi tutto in una volta! Ma in fondo essa è un tipo passionale e impulsivo: ha bisogno di amare, e quando non lo può si irrita. Essere amata non le importa altrettanto; è sicura di sè. Ma per lei è più interessante uno sconosciuto, al quale ella possa tendere i suoi desiderî, che un uomo innamorato di lei ma del quale ella conosca tutto. Il suo amore per me, quando ci siamo incontrati, era soltanto sensuale: ma io tentavo di elevarla, e sulle prime ella mi assecondava, era buona, docile, riconoscente. Ma poi... poi... Oh, non voglio più ricordare! Basta, basta! - egli disse, ripreso dall'angoscia dei ricordi, battendosi la palma della mano sulla fronte. - E adesso? L'uomo che ha scelto è degno di lei... Di quello non si stancherà... forse!
- L'ha veduta? - domandò Lia esitando.
- Sì, abbiamo avuto un colloquio presso il suo avvocato: tutto è stato definito.
- Non è possibile riconciliarsi?
- Per carità, non insista! È inutile parlarne... posso impormi di perdonare, ma non di amare: solo una rifioritura di passione, fosse pure solamente sensuale, potrebbe riunirci, ma questo non può accadere perchè io la odio ed essa mi odia. Non solo ma, come le dicevo, essa ama un altro, ed io...
- Lei non è geloso? - interruppe Lia, e ricominciò a turbarsi. - Adesso, - pensava, trepida e paurosa, - adesso mi dirà nuovamente che mi ama. Ed io? ed io?
Bisognava scongiurare il pericolo. Ella provava un senso di vertigine, e si aggrappava a qualcosa per salvarsi: e questo sostegno - non ne vedeva altro, oramai, - era la finzione.
Ma Piero Guidi non rispose neppure alla domanda.
- Io voglio bene ad un'altra donna... lei sa chi è, Lia! Perchè e come non so. Sappiamo mai nulla, noi, delle forse occulte che ci sospingono? Qualche volta anch'io mi son compiaciuto a dire il contrario: ma adesso mi accorgo che noi non sappiamo nulla, proprio nulla di noi stessi. Anche voi lo sapete, Lia... È vero?
- È vero, - ella ripetè.
Allora egli tese la mano per cercare quella di lei: ma d'un balzo ella indietreggiò e si mise a piangere, a capo chino, come una colpevole.
Piero la guardò stupito, senza muoversi.
- Perchè piange? - si domandò.
Lia piangeva d'amore: ma l'uomo non aveva mai veduto un simile spettacolo e credeva che si piangesse solo di rabbia o di pietà.
- Ella ricorda ancora il suo passato, - disse tra sè, appunto perchè egli, in quel momento, si sentiva ancora avvinto al suo. - Bisogna aspettare.
- Si calmi. Pensi che lei è libera, mentre io non lo sono più. Basta, basta: sono stanco di soffrire e di veder soffrire. Andiamo un po' fuori, piuttosto, - aggiunse alzandosi, - qui si soffoca, e la notte è così bella. Andiamo, venga...
Lia indietreggiava sempre. All'improvviso cessò di piangere, non solo, ma si mise a ridere, tanto l'idea di andare a passeggio con lui le parve puerile.
- E i bambini? Li lascio soli?
Andò a guardarli e non tornò più; ma si affacciò di nuovo alla finestra e sentiva le ginocchia tremare.
Questa fiacchezza non la abbandonò per molti giorni. Ella la attribuiva al caldo improvviso, ai venti di maggio carichi di essenze e di ardori: ma in fondo non s'ingannava: era la primavera del suo amore che passava...
L'idea fissa di mandar via di casa Piero tornò a turbarla. Ma come? Aveva paura di dirglielo e di sembrargli ridicola.
Tutto di nuovo le apparve difficile: le inquietudini per l'avvenire la ripresero.
Di notte non dormiva, fantasmi strani la circondavano, vaghi e cangianti come nuvole in un giorno burrascoso; il minimo lamento dei bimbi la faceva tremare.
A questa tensione nervosa contribuiva l'eccesso del lavoro. Ella faceva tornar presto a casa i bimbi, nel pomeriggio, per poter copiare a macchina fino al cader della sera, e diceva puerilmente a Salvador:
- Bisogna ch'io guadagni... ch'io guadagni molto per mandar via di casa gli estranei. Vivremo soli... vivremo tranquilli.
Allora egli si rasserenava: col visetto appoggiato alla mano e il gomito al davanzale della finestra, guardava il cielo rosso del tramonto e fantasticava. Vedeva il mare, piroscafi, corazzate, velieri, e lunghe file di numeri e soldati che andavano alla guerra. Cristoforo Colombo. Giulio Cesare e Napoleone, Pinocchio e Tobiolo, elefanti e leoni popolavano la sua immaginazione, finchè il problema della rotazione della terra o quello del numero delle stelle non ne accresceva il subbuglio. Problemi minori seguivano.
- Mamma? Le lepri dormono con gli occhi aperti?
Alle sue domande si univano quelle di Nino, e la mamma, curva sulla sua macchina, rispondeva con voce stanca, lontana, finchè il cielo diventava tutto violetto ed ella si alzava e andava in cucina per preparare la cena.
Nino leccava un cucchiaio e domandava:
- Perchè il fuoco brucia? Perchè il latte è bianco?
Ma la mamma aveva appena cominciato a rispondere quando Salvador interrompeva di apparecchiare la tavola per correre in cucina.
- Perchè Dio non ha creato il mondo in un giorno solo? Mamma?
- Prima deve rispondere a me!
- Sta zitto, tu!
Nino strillava, poi bagnava di lagrime il cucchiaio perchè non riusciva a moderare la prepotenza di Salvador.
Ma la mamma faceva bollire il latte e li rappacificava rispondendo a turno. I perchè non finivano mai, ed anche le risposte erano inesauribili. Solo alle sue domande intime Lia non sapeva rispondere.

*

Un giorno ai primi di giungo, mentre ritornava coi bimbi da Villa Borghese, incontrò il dottor Fontana. Egli tornava dalla casa di un ricco bimbo malato e doveva visitarne altri: però non si affrettava; il suo aspetto calmo e distratto era quello di un uomo che vive in un mondo tutto suo, dalle vie larghe senza ostacoli e l'orizzonte sempre pieno di luce: ed egli camminava per le vie ingombre della città con la stessa calma con cui attraversava il suo mondo ideale: l'incontro il più sorprendente non lo scuoteva.
Salvador che precedeva la mamma e Nino fu il primo a riconoscere da lontano il dottore. Si volse arrossendo e disse:
- Eccolo! Eccolo!
Lia pensava a un altro e trasalì: quando vide invece gli occhiali turchini, il viso distratto, la bocca triste e ironica del dottore provò un senso di vergogna. Sapeva d'esser mutata, e aveva paura ch'egli le leggesse in viso la sua passione.
- Come va? Come va? - egli disse, riconoscendola.
- Benino. Quest'anno l'orecchio lascia in pace Salvador...
- E io...
Egli la guardava, e i vetri turchini dei suoi occhiali sembravano a Lia due lenti fortissime capaci di scrutare il male della sua anima.
- ... io sono un po' stanca.
- Che fa? - egli domandò un po' brusco.
- Nulla di straordinario! Ma già tanto caldo. Adesso però andremo un po' fuori... al mare.
- Bene, bene. Ma non tardi molto. Ho già pronta la casa? È grande, ariosa?
I bimbi ridevano dalla gioia, guardandosi, e Salvador non potè frenarsi oltre.
- È un gran villino di due camerette. Piccole, piccole, piccole...
Lia aggiunse, mortificata:
- È una casetta, ma bene esposta ed ariosa.
- Non si trova altro? Non le converrebbe prendere un appartamento, ma in alto?
- Son tutti piani di villini, troppo cari per noi.
- Cerchi, cerchi: forse ne troverà qualcuno adatto per lei. Aria, aria! E vada presto.
- Oh, al più presto! - ella disse sospirando.
L'idea di partire diventava quasi un'ossessione: per giorni e giorni la casetta terrena, l'appartamento in alto, la spiaggia, l'incontro col dottore, furono il tema dei discorsi fra lei e i bimbi. Una mattina Salvador, che qualche volta andava a portare il caffè al signor Piero, le disse:
- Anche lui vuole andare ai bagni, sai, mamma. Dice che ha già preso in affitto la casina delle glicine, sai, quella dove c'è la vecchietta, e che ci inviterà tutti...
Questa volta Lia s'irritò sul serio.
- Ma cosa sei andato a chiacchierare? Che avrà detto il signor Guidi? che ti ho consigliato io? no, Salvador, tu non devi riferire a nessuno i discorsi che si fanno tra noi.
- Ma se vuole, il signor Piero può mettersi a spiare dietro l'uscio.
- Egli non è un monello come te per far questo!
- Io non ho mai spiato, questo te lo assicuro, mamma! Avrò tutti i difetti, ma questo no, mamma! - protestò Salvador, e prese un'aria contrita e desolata; e quando portò il caffè al signor Piero, l'indomani mattina, dopo aver profittato della penombra del corridoio per avvicinare le labbra alla tazzina, chiuse la bocca proponendosi di non pronunziar una parola.
- Che hai? - disse Piero insospettito. - La mamma ti ha sgridato?
Che rispondere? O una bugia o rivelare i fatti propri. Salvador preferisce tacere.
- Che cosa ti ha detto la mamma? Che sei un chiacchierone?
Salvador solleva gli occhi sospettosi. Che il signor Piero abbia spiato dietro l'uscio?
- Parla. Vuoi un po' di caffè? Su, sta allegro, chè presto andremo al mare, nella bella casina delle glicine...
Salvador dimentica i suoi propositi, ma dice con tristezza:
- La mamma non vuole.
- Chiama la mamma: va, dille che desidero parlare con lei.
- Non le dirà che ho chiacchierato.
- No, no: anzi! Va, carino.
Appena Lia entrò egli le disse, in fretta, guardandola quasi timidamente:
- Senta Lia, non mi sgridi. O fissato la casina delle glicine a nome suo. Lei ci deve andare, coi bimbi, e presto. Se vuole io non ci passerò neppure.
Lia corrugò la fronte ma un raggio di gioia le illuminò gli occhi. Egli pensava a lei, dunque? E perchè diceva «se vuole io non ci passerò neppure»? credeva che ella avesse paura di lui? Si avvicinò, raccolse il giornale dal tappeto, rimise in ordine qualche oggetto.
- Ha fatto male. Io non sono in condizioni di prendere in affitto la casina.
- Ma non è lei che l'ha presa; son io!
- Io quest'anno conto di andare in Sardegna... Poco distante dal mio paesetto c'è la spiaggia...
Egli la fissò, e per un attimo i suoi occhi ripresero una luce fredda e cattiva.
- Signora Lia, perchè vuol fuggire?
Lia sollevò il capo.
- Fuggire? Perchè? voglio semplicemente far economia.
- Ed io, dunque, non sono neppure padrone di fare un regalo ai suoi bimbi?
- Essi non potrebbero accettarlo.
- Perchè? Il dottore le ha detto che la casetta terrena non è igienica; è adatta per cacciatori, non per bimbi delicati come i suoi. Non sia irragionevole, dunque. Un viaggio in Sardegna le costerebbe molto di più che prendere un locale adatto per lei e per i bimbi...
- Ma io ho dei parenti, laggiù.
- Li visiterà un altr'anno! - egli disse quasi irritato. - Per quest'estate ella andrà nella casina delle glicine: o ha paura di me? Venga qui; mi lasci parlar. Di che ha paura?
Lia era diventata pallidissima: l'amore e l'orgoglio scintillavano nei suoi occhi.
- Ma di che cosa? Non capisco.
- Lei capisce benissimo, invece! Ma è cattiva... perchè? Perchè sempre così cupa, così inutilmente fiera? Cattiva, sì, con me, coi suoi bambini, con sè stessa. Che crede ch'io non la veda? Lei è malata, deperisce e si uccide, sì, sì; non se ne accorge che si uccide? È questo il suo dovere?
- Qual è il dovere?
- Vivere, Lia! Vivere e amare.
- Ho vissuto e amato: adesso basta.
- Adesso basta? Perchè? vada, vada. - egli gridò, sollevandosi sul gomito, - curi la sua salute, vada fuori di Roma. La casina è a sua disposizione fin da oggi: le ripeto, se vuole io non ci passerò neppure; se vuole posso andar via di qui: tutto, purchè non la veda soffrire!
Allora Lia s'appoggiò ai piedi del letto: tremava di nuovo, come quella sera alla finestra, ma d'un diverso turbamento. Non aveva più paura; le sembrava che se anche avesse appoggiato la testa sul petto di lui, egli non le avrebbe fatto che del bene.
- Lei è buono... - mormorò.
- Non è vero! Se lo fossi, riuscirei a farmi voler bene da lei, ad acquistarmi almeno la sua fiducia.
- Ma lei l'ha tutta!
- Non è vero! Lei mi considera come un suo nemico; mi sfugge, o si drizza davanti a me come un muro funebre. Perchè, dica? Che le ho fatto? Le ho mancato di rispetto? Che diritto ha di diffidare di me?
- È vero, nessuno.
- E allora?
- E allora?
Si guardarono. Egli era bello, appoggiato ai cuscini come un convalescente: i suoi occhi erano di nuovo dolci, teneri, non più lucenti di invito, ma supplichevoli: ma Lia oramai si sentiva rassicurata. «Ha paura di me?» No, non aveva più paura, ma nello stesso tempo sentiva di perdere un po' del suo orgoglio e della sua fierezza. Già cedeva, davanti a lui, e quel che era peggio, si sentiva felice di offrirgli qualche cosa.
Ed egli non la lasciò più in pace con l'offerta della casina e il consiglio e la preghiera di andar presto fuori di Roma.
Anche a sè stesso egli mascherava, con la scusa della salute di Lia, la sua smania di incontrarsi con lei in un altro ambiente.
L'appartamento di via Sallustiana era troppo pieno di ricordi, che si frapponevano fra loro come veli funebri. Là dentro Lia non avrebbe mai ceduto; e anche lei, in fondo al suo cuore diffidente, intuiva i progetti di lui, ma scacciava con ostinazione i suoi dubbi. Era già così dolce lasciarsi ingannare!
Finì con l'accettare l'offerta della casina, col patto di pagare la metà del fitto.
- E lei sa che certe cose non si pagano, signora Lia! Nessun compenso equivale alla gioia che mi dà seguendo i miei consigli.
- Ma perchè fa questo?
- Non lo sa? Perchè le voglio bene.
- Io non posso accettare il suo affetto.
Egli le afferrò le mani, ma subito la respinse, quasi sdegnato.
- Perchè non può accettarlo? È male, forse? Mi dica, mi dica: è male? Non può dunque esistere un affetto puro e disinteressato? Dunque l'ideale non esiste più; dunque non esiste più nulla, al mondo, nulla di bene? Solo il male, sempre il male? Lei stessa, Lia, non è un esempio di bene? Se lei mi vuol bene commette del male? Dica, dica: ma dica la verità. Ed io non posso essere come lei? Non posso rassomigliarle? Io sono stanco del male, Lia, e so che dal male scaturisce solo il male. Perchè non posso esser buono? Me lo proibisce, lei? Vuol togliermi il conforto di voler bene a qualcuno? Di amare solo per chiedere all'amore il bene? Risponda! Dica almeno che mi capisce!
Era sincero? Lia non ne dubitò un istante. Ingenuamente disse:
- Il male è superiore a noi, è fuori di noi, e spesso ci assale a tradimento, come un nemico in agguato.
- Non è vero! o almeno non è vero nel nostro caso. Che male può esserci nella nostra amicizia, se io ho stima e rispetto di lei, ed ella ha fiducia in me? Abbiamo vissuto per tanti mesi estranei e nemici; perchè non possiamo d'ora innanzi essere il contrario?
La guardava coi suoi occhi cangianti, dolci e teneri a momenti, a momenti freddi e minacciosi: e a Lia pareva che egli dovesse dirle:
- Se avessi voluto, se volessi, non potrei farti del male?
Invece, se per caso si trovavano vicini, egli prendeva subito un atteggiamento da protettore: così alto curvava un po' il viso sul viso di lei, e le sue mani bianche ed agili, mani da carezze, non tentavano, qualche volta, che di stringer le mani di lei.
L'illusione che fra un uomo e una donna giovani e soli possa esistere un amore ideale, e un'ebbrezza fatta, non di passione, ma di orgoglio, di sicurezza delle proprie forze, sostennero Lia fino al giorno della partenza. Ma una mattina ai primi di luglio - avevan dovuto ritardare la partenza a causa degli esami di Salvador - Piero Guidi accompagnò la famigliuola alla stazione, comprò i biglietti, s'incaricò di collocare le valigie e i bambini. Il portiere grasso e bonario aveva fatto da facchino: e sudava e ansava, rosso nel suo camiciotto azzurro come un bambinone nel grembiale, ma i suoi occhi celesti esprimevano una dolce e innocente compiacenza.
Prese Nino per le ascelle e la sollevò per metterlo dentro lo scompartimento; poi guardò Lia e socchiuse l'occhio destro.
- Buon viaggio e buon divertimento, signorina. Finalmente ci siamo, eh?
Quando tutto fu a posto, Piero, che era salito nello scompartimento, baciò i bambini e strinse la mano a Lia: saltò giù e si fermò sull'orlo del marciapiede, e il suo viso esprimeva un'ansia vaga, come del resto appariva sui volti di altri uomini che avevano accompagnato la famiglie al treno e aspettavano il momento della partenza.
Lia si sporse dal finestrino, al di sopra delle teste di Nino e Salvador: vide il viso bianco e preoccupato di Piero, il viso rosso e l'occhio azzurro del portiere che ammiccava innocentemente, e subito sentì che «qualche cosa di nuovo» era accaduto.



II


La casa delle glicine, quieta come un nido nel suo cerchio di verde e di azzurro, fu ad un tratto animata dalle grida dei due fratellini.
Salvador correva di qua e di là, attraverso le camere illuminate da una luce glauca e piene d'un forte odore di canfora e di bosco, e tirava Lia per la mano gridando:
- Ma guarda come è bellino! Ma sai che è bello, qui? Altro che la stamberga degli altri anni!
Nino seguiva: e si guardava attorno e guardava Salvador con ammirazione, ripetendone le parole:
- Ma guarda come è bellino! Ma sai che è bello, qui!
A un tratto si fermò in mezzo alla terrazza, dalla quale il mare appariva, fra l'azzurro del cielo e il verde della brughiera, come una immensa mezzaluna d'argento, e aprì la bocca, spalancò gli occhi e non parlò più.
Lo stesso senso di sorpresa provava Lia: ella seguiva sorridendo con un sorriso vago e misterioso di sonnambula, e pensava:
- Egli mi ama ed io lo amo!
L'atmosfera, intorno a lei, era vaporosa e molle; e tutte le cose assumevano aspetti nuovi e fantastici, ed esalavano profumi; le strade erano piane e facili, l'orizzonte pieno di splendore.
Ella aveva ripreso il suo passo elastico; si sentiva lieve, felice: la stanchezza, la tristezza, l'insonnia erano sparite. Eppure in quelle ultime settimane s'era dimagrita, come consumata da un male nascosto; e passando davanti allo specchio Luigi XV del salotto verde della casina, si fermò a guardarsi con sorpresa.
Le parve di esser brutta: il viso, forse per effetto del cristallo appannato e incrinato, era livido e scarno; i capelli aridi.
- Come posso piacergli? - si domandò meravigliata.
Ma subito ricordò che il l-o-r-o amore non si basava sulle miserie materiali: ella avrebbe amato Piero brutto e anche deforme: e Piero l'amava com'ella appariva, umile e oscura.
Ed ella sognava ancora come una adolescente; un amore casto, senza baci, dedicato a un essere ideale più che ad un uomo vivo; era sicura di sè, e oramai era anche sicura di lui.
- Il signorino non viene? - domandò la guardiana, raggiungendola sulla terrazza.
- Verrà qualche volta, alla festa.
- È tanto buono e gentile. Quando venne, l'altra domenica, abbiamo chiacchierato tanto: ha capito subito ch'io son poveretta ma di buona famiglia. È poi anche un bel ragazzo, il signorino: ha gli occhi che sorridon come due stelle...
Piccola come una bambina, stretta in un busto dritto e legnoso, la vecchietta volgeva verso Lia la testina vispa, mentre i suoi occhietti scuri, in mezzo alle ciocche dei capelli grigi scarmigliati e spioventi sul viso e sul collo nero e ritorto come una corda, ammiccavano come quelli del portiere giù alla stazione di Roma.
Lia però non aveva nulla da nascondere nè da confidare. Se il suo amico era premuroso e pieno di cure per lei e per i bambini, che male c'era?
- Sì, è molto buono, - disse con semplicità.
E non si offese quando la vecchietta la condusse nella camera matrimoniale della casina, dicendole:
- Qui a destra c'è una camera con due lettini, per i bimbi; a sinistra c'è la camera per il signorino, quando verrà; tutte e tre comunicano fra di loro...
Mentre Lia l'aiutava a preparare i letti, ella raccontò una lunga storia, di cinque fratelli tutti preti, ma dei quali il più giovane era scappato dal Seminario di Corneto, pochi giorni prima di prendere gli ordini, e aveva tradito Dio per l'amore d'una donna.
La donna era lei, la vecchietta, i cui piccoli occhi brillavano ancora al ricordo delle avventure di gioventù. Essa era di buona famiglia; ma suo padre l'aveva diseredata dopo la sua fuga con un uomo destinato al Signore: e anche lo sposo era stato rinnegato dai suoi fratelli.
- Siamo vissuti lavorando e amandoci, signora mia. Cinquant'anni siamo stati assieme, poveri ma felici. Se ne togli l'amore, dal mondo, che ne rimane, signora mia?
- È vero, è vero! - disse Lia.
Aggiustate le camere scesero in giardino.
Attraverso gli alberi il mare appariva d'un azzurro argenteo, immobile ed alto come una montagna: le cicale riempivano con un fruscìo d'acqua cadente il silenzio del luogo, interrotto soltanto, a intervalli, dal respiro del vento marino. Le cime degli alberi si curvarono, un momento, quasi salutando l'arrivo dei bimbi e di Lia: l'aria si riempì di sussurri e di punti bianchi. Erano i colombi, che disturbati volavano dal giardino al tetto. Poi tutto fu di nuovo silenzio, e nell'aria rimase l'odore caldo e voluttuoso degli oleandri.
La guardiana pregò Lia di visitare la sua casetta, di cui Salvador e Nino avevano già frugato ogni angolo. Cucina, camera da letto, da pranzo e da lavoro, l'unica stanza della guardiana era rallegrata dallo sfondo di una finestra circondata di gelsomini; i fiori tremolavano come stelle bianche sull'azzurro lontano del mare. Ghirlande di gerani secchi decoravano le pareti: e dentro ogni buco, nei bicchieri, nelle bottiglie e persino entro un imbuto capovolto mazzetti di semprevivi dorati. Lia si guardava attorno con sorpresa. La vecchietta aveva un gusto di artista primitivo, un senso atavico della bellezza e della poesia. Un vecchio libro scucito stava sul canterino di legno rossiccio. Era la «Vita di San Gabriele», e la vecchietta lo offrì subito alla visitatrice, segnandogliene gli episodî più commoventi. Nastrini gialli segnavan qua e là le pagine ch'ella svolgeva e baciava.
- Sapete leggere? - domandò Lia, respingendo il libro. - Me lo darete poi.
- Sapeva leggere mio marito, io no. Ma questo libro non occorre leggerlo: è miracoloso, e se prendete le febbri di malaria, Dio ne scampi, o vi fanno una f-a-t-t-u-r-a, ditelo a me, ve lo presterò.
- Grazie tante!
Nel pomeriggio scesero alla spiaggia. La padrona della casetta dove avevano abitato gli altri anni salutò Lia dalla finestra e le domandò quando si sposava.
- Con chi?
- Col signorino che venne qui l'altra domenica.
Salvador s'era voltato ad ascoltare; un'ombra passò nel suoi occhi intenti, e fu con un certo disprezzo ch'egli disse:
- Mamma, sai, col signor Piero!
Allora Nino afferrò la mano della mamma, e disse anche lui serio:
- Avevi detto che ti sposavi con me!
- Sì, sì, tesoro, con te!
Eppure, non sapeva perchè, le parole della donna non le erano dispiaciute. Dunque la gente indovinava il l-o-r-o amore? Ebbene, che indovinassero pure: è un amore che non ha ragione di nascondersi.
Seduta sulle alghe, mentre intorno la sabbia vergine si copriva delle orme di quattro piccoli piedi nudi, ella rifletteva negli occhi la luminosità del mare, ripensando a quegli ultimi quindici giorni passati come un sogno.
Si rivedeva seduta sul divano del salottino di Piero, e sentiva le mani di lui, lunghe rasate, stringer la sua con una stretta fraterna. Egli parlava, con la sua voce calda e vibrante, talvolta anche un po' modulata, e le sue parole erano buone e semplici: parole di un amico che si confida all'amica. Le nuvole del passato svanivano: il presente appariva chiaro e sereno, e più sereno ancora s'annunziava l'avvenire. Amarsi così, sempre così, come due buoni sposi che il tempo e il desiderio appagato hanno reso casti e tranquilli: ella viveva dunque di questa illusione.
Turchino in fondo, sotto l'arco del cielo lilla, verde più in qua, poi violaceo e tigrato d'oro, il mare si calmava al tramonto, e solo alcune onde si ostinavano a sbattersi contro i banchi di sabbia; ma tornavano subito indietro, e incontrandosi con le altre in arrivo pareva lottassero per convincerle che era inutile avanzarsi. Ma le onde in arrivo le scavalcavano e toccata la sabbia fuggivano a loro volte, convinte che non si poteva andare più in là.
- Anche noi non andremo p-i-ù i-n l-à, non è possibile, - pensava Lia.
Furono i giorni più deliziosi della sua vita, un'oasi nel deserto, circondata di miraggi. Il tempo era ancora primaverile; le macchie fiorite della ginestra profumavano la brughiera, gialle, in mezzo alle distese del mirto fiorito, come fuochi in un campo coperto di nevischio.
Illusione anche questa? Lia trovava bellissimo il paesaggio che le era parso arido e melanconico. Nuvole ondeggianti come veli color di viola gettavano la loro ombra sopra le colline; e verso sera il cielo era tutto rosso e il mare tutto d'oro. Salvador e Nino, quando non stavano sulla spiaggia con la mamma, s'attaccavano alla guardiana, fonte inesauribile di fiabe e di canzonette: seduti sullo scalino della porta con le braccia sulle ginocchia della vecchia, il viso intento, sollevato verso il visetto mobile di lei, parevano due fiorellini sospesi a un ramo appassito.
Qualche pescatore, terreo e lucido come il rame, attraversava a piedi nudi il sentiero davanti alla casina, e vedendo Lia e la vecchia deponeva per terra il suo cestino pieno di murene grigie e nere e di scrofani rossastri. Un vecchio ortolano ancora arzillo, col viso come ricoperto da una maschera di crespo rossiccio, gli occhi verdastri scintillanti di vita e di malizia, attraversava spesso il sentiero, con un fazzoletto colmo di erbaggi attaccato ad un bastone. Anche lui si fermava: la vecchia gli sorrideva, lo invitava ad avvicinarsi e guardava dentro il fazzoletto, prendendo un pugno di ciliegie e offrendole ai bambini. Essi guardavano la mamma, guardavano l'ortolano ed esitavano. Ma il vecchio diceva:
- Prendi, prendi! - e la mamma accennava di sì, e Salvador si metteva le ciliegie alle orecchie, e Nino lo imitava, e il cane leccava la mano a tutti.
Di notte Lia, dopo aver messo a letto i bambini, usciva sulla terrazza e s'abbandonava tutta al suo sogno. Le notti eran dolci, profumate. Sotto la piccola falce d'oro della luna nuova il mare appariva, visto dalla terrazza, come una immensa falce di metallo opaco, qua e là scintillante di lumi e di riflessi.
Appoggiata alla balaustrata Lia fissava gli occhi in alto e l'Orsa e le altre costellazioni le sembravano gioielli appartenenti a lei sola; guardava il mare e le pareva il confine del mondo; guardava la collina e la brughiera; e le strade che le attraversavano, bianche nella notte crepuscolare, le davan l'idea di croci che qualcuno avesse segnato sopra la terra fiorita per ricordare ai sognatori, ai felici, che esiste ancora il dolore.
Così ella sognava ma non dimenticava. La sua ebbrezza era lucida, cosciente. Ella si abbandonava alla gioia di amare, e sentiva che questo era non solo il suo primo, ma anche il suo ultimo amore; ma non dimenticava chi era, e non voleva peccare.
Verso la fine della settimana il tempo mutò. Lia sperava che Piero arrivasse il sabato: ma quando vide il cielo coprirsi di nuvole, pensò che egli forse avrebbe rimandato la sua gita, e all'improvviso si sentì triste.
Ma verso il tramonto, mentr'era affaccendata in cucina, sentì Nino gridare dal sentiero:
- Eccolo, eccolo, viene! Ha la valigia!
E per la prima volta ebbe vergogna di venir sorpresa in cucina dal suo amico, e corse in camera per cambiarsi il vestito. Dunque voleva piacergli più del solito: si accorse di questo suo desiderio, mentre si slacciava turbata il grembiale, e si allarmò, ma non smise di cambiarsi. Quando scese vide dall'uscio, intorno al tavolo, nella luce verdognola della saletta, i fanciulli intenti, la guardiana non meno curiosa di loro e Piero che apriva la valigietta colma di frutta e di dolci.
Egli era vestito di bianco, con un bel panama dal nastro nero e rosso, sollevato sui capelli lucenti: e Lia ebbe l'impressione che anch'egli si fosse fatto bello per piacerle.
Ella entrò in punta di piedi. Si guardarono, al di sopra delle testine dei bimbi, ed entrambi sentirono un fremito. Come nelle loro persone, qualcosa era mutato nelle loro anime. Eppure si salutarono senza calore, e Lia domandò, curvandosi sul tavolo:
- Che ha portato di bello?
E distribuì parcamente un po' di frutta, scegliendo quelle che cominciavano a guastarsi; ripose il resto nella credenza, e volgendosi, prima di chiudere, domandò:
- Che cosa posso offrirle, Piero?
Egli la fissava con uno sguardo languido e avido; ella dovette chinare gli occhi, e quando gli versò da bere la sua mano tremava.
Il pranzo fu servito dalla vecchietta, che s'era anche lei vestita di chiaro, aveva ficcato un pettinino giallo nel nodo dei suoi capelli simile ad una lumaca e faceva la graziosa come una fanciulla. L'ora trascorse felice: sembravano tutti bambini, e l'innocenza dei loro discorsi incoerenti era solo turbata da qualche allusione maliziosa che Piero rivolgeva alla vecchia, e dall'inquietudine di Lia che ogni tanto esclamava:
- Vedrete che tempesta, fra poco!
Per scrutare il tempo salirono sulla terrazza.
Il rombo del tuono pareva salisse dalla profondità del mare, nuvole simili a enormi teste scapigliate s'affacciavano all'orizzonte e attraverso i loro vapori s'intravedevano fiamme, ruote luminose e mostri di fuoco le cui lingue d'oro lambivano il cielo ed il mare. Ma l'ovest rimaneva sereno, giallo e verde come una radura lontana; l'odore del mirto e della ginestra arrivava col vento.
L'allegria dei bimbi e dei grandi era sparita: tutti tacevano, davanti alla balaustrata, come affascinati dallo spettacolo della tempesta lontana. L'aria diventava umida.
- Ritiriamoci, - disse Lia. - È ora d'andare a letto!
I bimbi protestarono; ma elle prese Nino per mano e lo condusse, riluttante, in camera. Anche Salvador dovette ubbidire, ma entrambi si misero a piangere e ad invocare almeno la presenza del signor Piero. Il signor Piero entrò e si curvò sui lettini, mentre Lia, per calmarli, distribuiva un ultimo dolce. Essi piangevano le loro lagrime cadevano sul guanciale con le briciole del pasticcino, e Lia ricordava la prima sera del suo matrimonio, ad Anzio, Justo curvo sul lettuccio di Salvador, e si sentiva inquieta.
- Lei dormirà giù, - disse a Piero, quando i bimbi tacquero. - Se vuole uscire questa è la chiave.
- Ma io non esco! Dove vuole che vada con questo tempo?
Ritornò sulla terrazza, e Lia, quando i bambini si assopirono, andò a raggiungerlo.
- Erano inquieti, stasera, - disse sottovoce. - È questo tempo che rende nervosi...
Egli le prese una mano e non rispose. Appoggiati alla balaustrata, stettero alcuni momenti in silenzio; ma ella sentiva la mano calda ed umida di lui pulsare sempre più forte e aveva paura.
Il vento s'era calmato e la luna appariva tra le nuvole nere, ora come un occhio verdastro cerchiato di occhiaie livide, ora come una fiammella fra cirri di fumo. Gli alberi, immobili sul cielo nero e verdognolo, parevan sospesi sull'orizzonte, e i piccioni bianchi, sul pergolato, erano i soli punti distinti nell'incertezza delle cose intorno.
Questo mistero di cose, questo barlume equivoco, Lia lo sentiva anche dentro di sè. La gioia dei giorni scorsi era sparita per lasciar luogo a un'angoscia indefinita.
- Che farà, domani, tutto il giorno, con questo brutto tempo? - disse, per liberarsi dall'incantesimo.
Ma egli la prese per la vita, l'attirò a sè.
- Perchè parli così? Non sono venuto per te? Mi pareva di soffocare, tutti questi giorni, mi mancava l'aria. E tu, vuol dire, non hai pensato a me?
Ella cercava di scostarsi, ma all'improvviso sentì come un velo appannarle gli occhi e le labbra molli e calde di lui cercare le sue.
Allora si divincolò con violenza, pure fremendo di passione, e corse attraverso la terrazza per rifugiarsi nella sua camera. Egli la raggiunse e la fermò.
- Perdonami... Mi perdoni, Lia; sono fuori di me.
- Se ne vada! - ella impose.
- Sì, sì, cara; tutto quello che vuole... purchè mi perdoni.
Com'era umile, infantile! Perchè non accordargli il perdono chiesto con tanta tenerezza?
Ella dunque perdonò e si chiuse nella sua camera: ma passò una notte febbrile, e l'orgoglio d'aver vinto il cieco impulso dei sensi non bastava, intanto, a toglierle dalle labbra il sapore delle labbra di lui. A momenti si sentiva perduta: allora l'idea di fuggire la tormentava e la confortava già.
Quando scese al pian terreno trovò la porta aperta. Piero era già uscito ed ella sperò e temette che se ne fosse andato. Ma dopo qualche ora egli rientrò, con un mazzo di fiori campestri e due libellule argentee.
Lia prese i fiori e gli diede il caffè, ed evitò di guardarlo.
Egli ripartì più tardi, dopo averle domandato se doveva ritornare.
- Come vuole, - ella rispose in presenza dei bambini, ma quando egli fu partito si guardò attorno smarrita. Il veleno del desiderio serpeggiava oramai nel suo sangue, e tutto, il luogo, il tempo, la lontananza e la stessa docilità di lui contribuivano ad aumentare la sua passione.
Il sabato, non vedendolo arrivare, fu presa da una grande tristezza. Le parve che tutto fosse finito. Il sogno cadeva, spariva come un astro dopo aver compiuto il suo ciclo: e un velo di morte copriva l'anima di Lia.
Avesse almeno scritto! ma egli non veniva, non scriveva, non sarebbe ritornato più. Tutto era finito.

*

Un giorno arrivò una lettera della zia Gaina.
«Ogni anno, nipote mia, quando torna l'estate, io ti aspetto e prego il Signore che mi dia il conforto di rivederti. Almeno quest'anno potresti deciderti. Qui cominciano le frutta e i ragazzi potrebbero godersela più che nei posti dove li conduci ogni anno. Simone Barca, ritornato da poco dal Continente, dice che là c'è la carestia e che tutto costa caro come nei tempi della guerra. Anche qui, a dire il vero, tutto è rincarato, ma qualche cosa ancora si trova, e chi lavora non soffre la carestia. Ti prego dunque di venire, se vuoi venire, e di non lasciarlo per timore di darmi fastidio. Se ti occorre qualcosa dimmelo pure sinceramente, io sarò contenta di aiutarti e intanto ti saluto e bacio i bambini.
Sdraiati sulla sabbia Lia e i bambini leggevano e rileggevano la prosa della vecchia lontana, e guardavano il mare per spiare il passaggio del piroscafo diretto alla Sardegna.
- Rispondi di sì, mamma! - diceva Salvador, sotterrando un piede di Lia nella sabbia.
- Rispondi di sì, mamma! - diceva Nino, sotterrandole l'altro piede.
Lia era pensierosa. Infine ripiegò il foglietto e disse:
- Forse risponderò di sì.
Ma all'improvviso si fece rossa e balzò in piedi. I bimbi guardarono e videro la figura bianca del signor Piero avanzarsi lungo la spiaggia.
- Perchè non avvertirmi? - disse Lia, preoccupata per il pranzo. - Stasera non abbiamo niente!
- Vivremo di poesia, - egli rispose, buttandosi sulla sabbia e appoggiando la testa sul lembo del vestito di lei.
Quando i bambini si furono allontanati, egli riprese un po' ansante:
- Non mi manda via, vero, no? non faccia quel viso! Non potevo più vivere senza vederla. Mi guardi!
Lia, seduta sulle alghe, si curvò alquanto e lo guardò. Non sapeva quel che si facesse; era come attirata dal fascino di un abisso; e quest'abisso, più grande e profondo di quelli del mare, era negli occhi di lui.
- Perchè non vuoi amarmi? - egli disse. - perchè non vuoi esser mia? Saremo felici, e tu non hai diritto a rinunziare alla felicità. Qualunque donna, al tuo posto, non mi farebbe soffrire così, non si tormenterebbe così.
- Io sono felice! L'amo e mi basta.
- Non è vero! La passione è nei tuoi occhi, Lia: ah, come tu sapresti amare, se volessi! Come saremmo felici... Lia, Lia... sii buona, con te, con te, vedi... Che hai goduto, tu, della vita? Nulla. Lascia che ti ricompensi di tutto. Vedrai! Che importa se il nostro legame è diverso dal solito? È meno forte, per questo? Di che hai paura? Io vivrò per te, vivo già per te! Lia, perchè non mi credi?
Le sue parole e le sue promesse erano dolci come il mormorio delle onde; e tutto intorno era chiaro, dolce, infinito. Il vento di ponente increspava il mare calmo come un lago; a un tratto un piroscafo rosso e bianco apparve piccolo come una barca, sulla linea color malva dell'orizzonte, e lentamente sparì, come affondandosi nelle onde.
Salvador si avvicinò, s'appoggiò alle spalle di Lia e disse:
- Sai dove va quel piroscafo? Al n-o-s-t-r-o p-a-e-s-e. Fra giorni noi saremo là, a guardare, sopra coperta, e tu, di qui, ci farai addio col fazzoletto.
Piero balzò a sedere e guardò Lia: il suo viso esprimeva stupore e collera.
- È vero? Partite?
Ella accennò di no con la testa, ma Salvador protestò:
- Come, non hai detto poco fa che andremo dalla zia Gaina?
Allora Lia, sotto gli sguardi egualmente interrogativi e diffidenti dell'amico e del fanciullo, non seppe mentire:
- Sì, penso... desidero di andare a visitare la zia, ma per poco; ancora non sono decisa... però...
- Voi non partirete! Non voglio! - gridò subito Piero; ma vide Lia arrossire e Salvador fissarlo a sua volta sorpreso e adirato, e si buttò sulla sabbia per frenarsi e non parlò più finchè il fanciullo non si fu di nuovo allontanato.
Ma bastarono quei pochi attimi e lo sguardo di Salvador per richiamar Lia dai suoi sogni.
Ah, il soave amante di pochi istanti prima parlava già come un padrone! Ricordi disgustosi le tornarono in mente: le maldicenze del pittore, l'impressione ch'ella stessa provava nei primi tempi osservando lo sguardo freddo ed egoista del suo taciturno inquilino...
Intanto egli s'era di nuovo sollevato e le ripeteva, con voce che supplicava e ordinava:
- Tu non partirai. Non voglio. Adesso no, adesso no...
- Adesso o più tardi è la stessa cosa, - ella disse, alzandosi.
Egli però le afferrò il lembo del vestito e non le permise di allontanarsi. Era tornato umile e supplichevole.
- Adesso no, Lia! Ho bisogno di te; se tu mi lasci... io non so cosa farò... Sarò un uomo perduto... sarò come quei bambini lì... se tu li lasciassi soli, qui, davanti al mare... Che farebbero? Si perderebbero, cadrebbero nel mare... Così io, Lia, se tu mi lasci adesso...
- Calmatevi, - disse Lia, dandogli finalmente del voi. - Non partirò, ve lo prometto... basta che anche voi siate buono...
- Tutto, tutto quello che tu vuoi! Ma non lasciarmi...
Al ritorno trovarono la tavola apparecchiata e la vecchietta vestita di bianco e col pettinino giallo nei capelli ravviati. Un cestino di frutta, bottiglie di vini e di liquori, dolci e pasticci preparati con gusto nei vassoi di porcellana, rallegravano la tavola, su cui la vecchia aveva anche messo un mazzo di garofani violacei.
- Che ha fatto? - gridò Lia a Piero, quasi offesa per quei doni. - Ah, vede, lei mi mortifica sempre!
Tuttavia il pranzo fu lieto, chiassoso. Si parlò nuovamente dell'ortolano amico della guardiana, di San Gabriele, dei sei fratelli preti.
Un bicchierino di malaga fece ballare e cantare la vecchietta i cui occhi di lattante fissavano con un'espressione maliziosa e benevola i due bei giovani seduti davanti a quella tavola fiorita che sembrava una mensa di nozze. A un tratto, mentre i due fratellini correvano fuori, verso il ponte, per vedere il treno, ella s'avvicinò a Lia e le prese una mano, e altrettanto fece con Piero, e unì le due mani, fra le sue, dicendo:
- Dio vi benedica!
- Eccoci sposati! - disse Piero, mentre Lia ritirava la sua mano.
Ed entrambi risero, ma con un'ombra di tristezza negli occhi.

*

Egli rimase tre giorni nella casina delle glicine. Il secondo giorno volle fare il bagno, e si aggirò a lungo attorno a Lia nella spiaggia luminosa di sole, alto, pieghevole, col corpo nettamente disegnato dalla maglia nera, mettendo in mostra tutta la sua agilità, la sua bellezza, la sua nudità, come un bel fauno attorno alla ninfa desiderata.
Lia arrossiva e abbassava gli occhi come una fanciulla. Un'atmosfera di ebbrezza li avvolgeva; anche, lei spinta dal solo istinto di piacergli, aveva finalmente deposto gli abiti neri, e indossava una semplice vestaglia bianca che la rendeva più bruna e più giovane. I bambini la guardavano con curiosità: Nino le toccava la veste, come per assicurarsi che era lei: Salvador le diceva:
- Mi sembri un'altra.
Sì, ella si sentiva un'altra; e sfuggiva gli sguardi del fanciullo, perchè le sembrava che egli le leggesse nell'anima.
Eppure nulla di nuovo accadeva. Piero non la tentava più, non le stringeva neppure la mano: solo, la sera del terzo giorno, la pregò di andare a passeggio con lui attraverso la brughiera, fino al mare.
I bimbi dormivano già.
- La vecchia starà qui fino al nostro ritorno. Dieci minuti soli; andiamo, - egli disse, - vieni.
Sulle prime Lia rifiutò; non lasciava mai soli i bambini. Egli provava una sorda irritazione contro di loro, sembrandogli ch'essi fossero oramai il solo ostacolo che lo divideva da Lia; ma si frenava e pazientava.
Chiamò in aiuto la vecchia.
- Diteglielo voi che venga un momento a passeggio. Andremo solo fino ai piedi della collina: la sera è così bella!
La guardiana spinse Lia verso la porta, e stette a guardare i due giovani, mentre s'allontanavano per il sentiero.
Piero precedeva, Lia seguiva, come cieca, guardando per terra; ma allo svolto del sentiero egli la prese per la vita e così camminarono in silenzio per un piccolo tratto. All'improvviso Lia si svincolò e sedette sull'orlo del sentiero, vinta da una stanchezza e da un languore ineffabili. Egli sedette presso di lei e le prese la mano. E tacquero entrambi, come ascoltando e aspettando. Il crepuscolo li avvolgeva d'un velo glauco e roseo.
Oltre il prato verde, il mare immobile sembrava un prato azzurro: tutto il paesaggio era verde e cilestrino, e solo al confine della brughiera, attraverso una fila di pioppi già neri, s'intravedeva il cielo rosso.
Il lamento d'una fisarmonica e un fischio che ne ripeteva il motivo monotono e melanconico davano l'illusione che lassù nel boschetto vagasse un gregge, e che un pastore appoggiato al fusto di un pioppo suonasse il suo zufolo.
Tutto il passaggio era puro, primitivo, adatto al sogno e all'idillio. A un tratto la fisarmonica tacque, e poi anche il fischio, e regnò solo, nella luminosità del crepuscolo che pareva emanata dai prati e dal mare, il zirlio tremulo e argentino dei grilli.
Un'armonia ineffabile si diffuse allora nella natura che si assopiva: il paesaggio, il mare, il cielo, la luce, le voci delle cose, formarono una stessa poesia, dolce, infinita: il sogno. E i due innamorati, come assorbiti anch'essi dalla fusione divina di tutte le cose, unirono le loro labbra e si sentirono un essere solo.
La prima a riprendersi fu Lia. Si sentì perduta e un istinto di difesa la spinse ad alzarsi ed a fuggire come dallo studio del pittore. Ma l'uomo la seguiva, questa volta, deciso a non lasciarsela più sfuggire.
Sulle prime egli fu ancora dolce e carezzevole; ma già un fremito di rabbia si univa al suo desiderio troppo fino a quel momento deluso. Raggiunse Lia nel sentiero, la riprese per la vita, le baciò le mani. Le sue parole erano deliranti, come quelle dell'a-l-t-r-o.
- Perchè fuggi, Lia? Puoi andare in capo al mondo; ti raggiungerò: sei mia ed io son tuo.
Ella taceva, a capo chino.
- È tempo, cara, è tempo! Quanti giorni perduti! Ma adesso tu non diffidi più di me, vero, Lia? Baciami.
Ma ella si scostava e non potendo di più affrettava il passo, trascinandolo attaccato a lei come un ubbriaco.
- Io ti ho amato fin dalla mattina in cui tu sei entrata da me per domandarmi come stavo. Ricordi? Il bambino s'era sentito male. Poi, ricordi, quando venni qui? due anni, Lia! È da due anni che trascino il mio tormento. Vederti e non averti! Confessalo, nessun altro uomo sarebbe stato capace di tanto...
Lia affrettava il passo. Vinta dalla dolcezza dell'ora e della passione, provava tuttavia in fondo all'anima una tristezza profonda e aveva paura dell'uomo che oramai le camminava a fianco come un nemico pronto a ghermirla. Ah, mille volte meglio l'aperta violenza che quella seduzione di tutti i momenti, la vittoria dell'uomo esperto nelle guerre d'amore.
Ma a misura che si riavvicinavano alla casina, ella si sentiva meno sola, il pericolo s'allontanava e l'istinto della difesa cresceva. Aveva inoltre l'illusione di veder un'ombra saltellare dietro le macchie del sentiero: s'immaginava che Salvador, profittando della sua assenza, si fosse alzato e la seguisse e la spiasse.
Illuso anch'egli sul silenzio di lei, l'uomo la seguiva, prodigando baci e parole d'amore; ancora pochi istanti e sarebbe stato felice. Perchè dunque non esser gentile, e non scostarsi all'urto lieve di lei, quando furono in vista alla casina e in pericolo quindi di esser veduti?
- La vecchia è là, sulla porta, - mormorò Lia, precedendo.
E sentiva l'uomo seguirla ansante, come il cacciatore dietro la preda...
- La vecchia, come una buon fata, ci ha sposato, lo sai, Lia! Si è accorta ch'era giunta l'ora. Chi adesso potrà più dividerci? Lia? Parla: perchè taci?
- Era così bello vivere così! - ella disse infine, tentando di difendere ancora il suo sogno.
- Ma perchè? non siamo liberi d'amarci? Abbiamo già sofferto tanto, Lia! La vita è breve; la nostra felicità non farà male a nessuno. Non sei stanca di soffrire, tu?
Lia diede un piccolo grido soffocato.
- Sì, son stanca! Adesso basta.
- Basta, basta, sì, - egli ripetè; e credette il patto concluso.
Sulla soglia della porta la vecchia s'era addormentata. Lia dovette scuoterla per svegliarla, e pensò:
- Ecco, poteva accadere una disgrazia ai bambini ed io ero così lontana da loro!
Appena furono dentro, nella saletta a vetri, Piero chiuse la porta e riafferrò Lia per attirarla nella sua camera; ma ella pareva pronta a svenire, era livida in viso, coi lineamenti rigidi, le mani fredde e gli occhi pieni di terrore.
- Vado a vedere i bambini, lasciami andare a vederli! - supplicò, come domandando una grazia prima di morire.
Egli la lasciò, ma la seguì fin alla terrazza, dicendole:
- Ti aspetto qui...
Ella entrò e chiuse l'uscio: non vedendola ritornare egli fu preso da un impeto di rabbia. Si torse le mani e picchiò forte all'uscio.
- Lia! Lia! Son qui.
La voce supplichevole e smarrita tornò a farsi udire dietro l'uscio:
- Vattene, Piero. È inutile, non posso venire...
- Lia! Tu ti prendi gioco di me!
Ma la voce insisteva:
- Per pietà vattene! Non svegliare i bambini: va, Piero, va...
Egli non parlò più; ma a lungo Lia lo sentì andar su e giù per la terrazza, furente d'amore e di rabbia.

*

Quando si alzò, al sorgere del sole, lo trovò ancora sulla terrazza, ma pronto a partire. Le sembrò che gli avesse atteso tutta la notte, lì, all'aperto; era livido in viso, con gli occhi cerchiati e i baffi spioventi: e si meravigliò di trovarlo brutto.
- Parto, - le disse con voce rauca.
Lia lo fissava in viso, triste ma calma.
- Perdonami!
Ma egli le volse le spalle, e come un ragazzo bizzoso andò ad affacciarsi alla balaustrata.
- Non ho nulla da perdonarti! Lasciami; tu non mi ami!
- Piero, - ella replicò, toccandogli lievemente una spalla, - tu non credi a quello che dici...
Egli non rispose, e rimasero entrambi silenziosi, per alcuni istanti, come immersi nella contemplazione del passaggio tranquillo. Un velo d'oro copriva le colline e il mare, e fluttuava intorno sugli alberi scintillanti, sulle macchie della brughiera e nell'aria serena. Tutto era pace e silenzio: pareva che persino il mare non dovesse muoversi più.
Solo nel cuore dei due che si amavano continuava la lotta e la tempesta. Lia pensava palpitando:
«Se lo lascio partire adesso non lo rivedrò più.»
Egli diceva a sè stesso:
«Sarà lei che mi verrà dietro, adesso, e mi supplicherà di non lasciarla.»
E all'improvviso si sollevò e la guardò con occhi teneri e minacciosi.
- Tu non mi ami, Lia! Una donna che veramente ama non fa così come tu fai! Non esaspera l'uomo che la ama, e non lo offende chiudendogli l'uscio in faccia!
- Piero! - ella gridò, smarrita.
- Perchè fai così? Dimmelo! È inutile che mi tormenti!
- Non era questo il nostro patto.
- L'amore non ha patti! Io ti amo e non ragiono più: se tu ragioni vuol dire che non ami...
Lia avrebbe voluto dirgli: eppure tu ragioni, in questo momento! Ma non volle discutere. Sì, era meglio lasciarlo partire.
- Calmati, Piero. Tu lo sapevi ch'ero una donna così... fatta all'antica... Lo sapevi, sì: anzi dicevi che mi volevi bene per questo... Dunque non è vero... Anch'io posso dirti che non mi ami perchè non ti basta il possesso della mia anima...
- Tu ragioni sempre... - egli ripeteva con crescente rancore.
- Ricordati, Piero... quando mi parlavi di tua moglie... dicevi: ella mi ha reso infelice perchè nell'amore vedeva solo il piacere... Ricordati... Tu dicevi che volevi insegnarle il contrario.
Ma il ricordo poco opportuno accrebbe il furore dell'uomo deluso. Afferrò Lia per le braccia e la scosse tutta. Com'eran cattivi i suoi occhi! Non sapeva perchè, ma Lia non riusciva a liberarsi dal ricordo della sua prima avventura.
- Basta, Lia! Non esasperarmi oltre! Lasciami partire, piuttosto che continuare così: mi sono illuso e basta; ma non continuare in una commedia che mi rende ridicolo ai miei stessi occhi...
- Me perchè ridicolo? Ma tu non ricordi nulla, davvero! Ricordati: dicevi: possibile che esista solo il male?...
- Il male è nel rinunziare alla vita, Lia! Basta, basta, addio. Tu non mi conosci...
- E neppure tu mi conosci!
- No; questo no! Ti conosco bene: sei la diffidenza in persona: e per questo non puoi amare nè abbandonarti alla gioia di vivere. Di me tu hai sempre diffidato, fin dal primo momento che m'hai conosciuto: e in tutto questo tempo non hai fatto altro che offendermi con la tua ostilità, e attirarmi e respingermi, e prenderti gioco di me, infine. M'hai baciato e m'hai chiuso l'uscio in faccia... come fossi un malfattore! E così fai con la vita, tu: l'ami, e la sfuggi. Combattere per te, per renderti felice, è inutile e dannoso... quasi come il combattere e soffrire per... q-u-e-l-l'-a-l-t-r-a... Entrambe egoiste...
- Ah, Piero! - gridò Lia, mortalmente offesa. - questo poi no! basta, sì, basta; tu non ragioni davvero. Vattene!
- Sì, me ne vado; è meglio: ci rivedremo quando mi amerai in modo diverso.
La lasciò e s'avviò per scendere.
Lia diventò pallida come una moribonda: aprì le labbra per chiamarlo, ma non potè: un tremito la scuoteva tutta.
Finalmente si decise a scendere e lo trovò nella saletta ancora chiusa, con la valigia in mano, pronto ad andarsene. Nell'avvicinarsi, ella vide la sua figura e quella di lui accigliata e fosca, riflesse dall'invetriata verdognola, e le sembrò di veder due fantasmi incontratisi per caso in un luogo pieno di penombra e di tristezza. Addio; tutto era finito davvero: egli se ne andava da una parte, ella se ne sarebbe andata da un'altra: e di nuovo il deserto in mezzo a loro.
Allora sentì cadere il suo rancore, e prese la mano di Piero, e si curvò, come parlando a quella mano fine e feminea che invano aveva tentato di aprirle il mondo dei sogni.
- Perdonami! Lasciamoci in pace...
- Lasciamoci in pace! - egli ripetè; ma la sua mano era fredda ed inerte.
Lia lo accompagnò fino al sentiero, e lo guardava con occhi pietosi. Dopo tutto egli era buono: se ne andava vinto e umiliato, e l'ultimo sguardo che le rivolse nel lasciarla era ancora supplichevole e pieno di speranza. Ma quando egli si fu allontanato, ella tornò di corsa nella terrazza e seguì con uno sguardo mutato la figura bianca di lui che parve dissolversi nella luce rosea del mattino. Le sembrò che un silenzio infinito, tale che nessun rumore sarebbe più valso a interromperlo, regnasse intorno a lei.
- Perchè ho fatto così? - si domandò.
E non sapeva rispondersi. Per virtù, per paura di soffrire, o, com'egli aveva ben detto, per mancanza d'amore? Non sapeva. Perchè era suo destino.
Ma sentì che la sua vera passione cominciava allora. L'uomo era appena sparito ed ella già ne invocava il ritorno con uno spasimo d'attesa disperata. Si buttò per terra e si mise a piangere. Le lagrime le cadevano sul petto, sulle mani, sul grembo: e le pareva di piangere su sè stessa come sopra un cadavere.

*

Il grido dei bambini la riscosse. S'alzò e si scosse le vesti, come sollevandosi da un luogo polveroso, ed entrò da loro, ma le loro moine e i loro baci non la confortarono. Una torbida marea di passione le gonfiava le vene, le velava gli occhi. Durante la giornata si trascinò di qua e di là, e alla sera, stanca, frustrata dai suoi desiderî, tornò nella terrazza, ov'egli l'aveva aspettata la notte prima invano, come invano avrebbe atteso lei d'ora in avanti: e come lui, andò su e giù, a lungo, sotto le stelle, nel velo pietoso della notte...
Le sembrava che una vendetta si compiesse in lei: ella aveva giocato a un triste gioco e perdeva: l'amore si vendicava con tutte le sue furie.
- Perchè ho fatto così? - si domandava ancora.
E adesso la risposta veniva, chiara, crudele. Perchè non amava abbastanza: ma fra pochi giorni, fra poche ore forse, al cader di un'altra sera come quella, la grande passione l'avrebbe vinta: ed ella richiamerebbe l'uomo, come già lo richiamava nella sera dolce piena di stelle...

*

Ma a un tratto gl'istinti si risvegliarono in lei. Fuggire, nascondersi, come fanno tutti gl'isolani quando un pericolo li minaccia. La casetta fra le rovine, le camere della zia Gaina arredata di vagli e di canestri con la croce contro le tentazioni, le apparivano come un rifugio in un luogo inesplorato.
Ancora incosciente, arsa dalla febbre d'amore, cominciò a rimettersi il vestito nero, e si mise a scrivere alla zia, raccontandole puerilmente le sue inquietudini, come una volta aveva scritto allo zio Asquer.
«Io verrò da voi per qualche tempo, zia Gaina mia; finchè si smorzerà alquanto questo fuoco che mi arde e mi fa diventar pazza.
«Io ho paura di perdermi. Che accadrà di me e dei miei bambini che non hanno altri all'infuori di me?
«Egli non li ama; li odia, anzi, perchè sono un ostacolo ai suoi desiderî. E se io cedo a questo, lo sento, ben presto egli si stancherà anche di me. Che accadrebbe allora? Sarei infelice più di quel che lo sono adesso. Lo so, lo so. Egli diceva di volermi bene come ad una sorella, ed invece mi voleva per amante. Tutti eguali, gli uomini! O zia mia, se sapeste com'è il mondo! Tutti aggrediscono una povera donna sola, come le fiere, nel deserto, assaliscono il viandante solitario. Io non ho nessuno a cui chieder consiglio, a cui rivolgermi; ed ho paura persino di me stessa, anzi di me stessa più che degli altri, perchè io sono la mia peggiore nemica. Qualunque cosa faccia mi causo del male; se rimango mi perdo, se fuggo mi procuro un'infelicità grande. Perchè io amo quell'uomo come non ho mai amato; sento che questa è la vera, la sola passione della mia vita, e tutto mi spinge a credere che e-g-l-i sia sincero, che mi ami e sia infelice per causa mia».
Lagrime di pietà e di tenerezza ricominciarono a solcare il viso arso; ma come la lettera allo zio Asquer, anche questa non partì mai.



III


La zia Gaina aspettava con una certa ansia l'arrivo della nipote. Da qualche anno era diventata più strana del solito: non usciva quasi mai di casa, teneva la porta e le finestre continuamente chiuse e pareva avesse paura dei ladri o di altri pericoli.
I vicini la prendevano in giro.
- Avete trovato un ascorgiu, (2) zia Agì?
- Sì, ma nel ritrovarlo mi son ricordata di voi e le monete son diventate carbone. (3)
Ad altri, che la interrogavano seriamente se aveva timore dei ladri, rispondeva:
- Il ladro che temo io entra dalla fessura: la Morte, consolazione mia, solo la Morte temo.
Molti credevano che Lia le mandasse denari; e che la vecchia li accumulasse e li nascondesse, con quella manìa speciale alle paesane sarde.
L'annunzio dell'arrivo della giovane vedova, sul cui conto correvano voci strane, arrivate di lontano così come arriva il vento o la nuvola, mise in subbuglio il vicinato.
Alcuni dicevano che Lia si sposava di nuovo, con un signore potente, un «ingegnere del re», altri che era diventata una donna di mondo, di quelle che vanno a passeggio con uomini soli; altri infine che aveva un amante vecchio, ricco, ammogliato. La zia Gaina non prestava fede a queste chiacchiere, e del resto bastava che le riferissero una cosa perchè ella credesse il contrario; ma era ben lontana dall'approvare l'idea storta di Lia, di rimanersene a Roma sola coi bimbi, senza parenti, in mezzo alle tentazioni del mondo. La Tentazione è già così potente nei piccoli paesi solitari; figuriamoci nelle grandi città, dove inoltre non si crede più in Dio e non si usano neppure le più semplici precauzioni per tener lontano il demonio con le sue male arti.
Per conto suo la zia Gaina, nel preparare la camera per Lia e per i bimbi, aveva riattaccato la falce (4) alla finestra e rinnovato la croce di palme in capo al letto.
Ma appena vide Lia alta e nera scendere dalla diligenza, nella desolazione della piazzetta che sembrava una fornace, le chiacchiere dei maligni le tornarono in mente. Lia sembrava una donna non solo vinta dalla Tentazione, ma anche stregata: un pallore terreo le oscurava il viso, i grandi occhi cerchiati, incavati, avevano un fosco splendore. I ragazzini, poi, con le ginocchia nude color legno di noce, i cappelli di paglia grandi come ombrelli, sembravano diavoletti veri e propri: o almeno ne avevano il colore e l'agilità.
- E perchè sei così, consolazione mia? - domandò la vecchia, esaminando da capo a piedi la nipote. - Hai avuto qualche spavento? E i bambini sono poco neri! Sembrano usciti da un forno.
- Siamo stati al mare, lo sapete! E la traversata, poco felice, e il viaggio entro quel vero forno che è la corriera, non li contate?
- E non stavate seduti? - ella osservò rudemente.
S'avviarono verso la casupola: le donne uscivano nella strada per veder Lia, e in un attimo tutti i bimbi del paesetto, alcuni vestiti in costume, altri seminudi, altri camuffati con strani vestiti tagliati da cappotti di soldati e da m-a-n-t-i di paesani, circondarono i ragazzetti che arrivavano d'oltre mare. Salvador riconobbe alcuni monelli e li chiamò per nome: in breve i cappelli di paglia e i berretti e le cuffie con le frangie e un kepì che passava e ripassava baldanzoso fra tutte quelle testine irrequiete, formarono un gruppo solo. Lia e la zia Gaina dovettero voltarsi parecchie volte per chiamare le due pagliette, e la vecchia prese in braccio il piccolo Nino, promettendogli uva passa e miele per indurlo a entrare nella casetta.
- Sai che questo bambino è bello? - disse, esaminandolo bene, e trovandogli i segni della razza a cui ella apparteneva: labbro superiore lungo, sopracciglia folte, capelli crespi e occhi diffidenti.
Lia disse con un vago sorriso:
- Tutti trovano che rassomiglia al povero zio Asquer...
E fu meravigliata nel sentire per la prima volta lodare il povero zio Asquer.
- Egli non era bello, ma aveva un ottimo cuore... Egli ti voleva bene, rosa mia; egli ti fece andare a Roma. Se tu gli avessi dato retta...
Lia corrugò la fronte.
- Che volete dire, zia?
- A quest'ora non saresti vedova, non saresti come l'uccello sul ramo, sola coi tuoi piccini...
- Zia! Egli non poteva impedire che il mio povero Justo morisse.
- Ma te ne avrebbe fatto sposare un altro, uno con un impiego fisso...
- Non bestemmiate, zia Gaina! - disse Lia, reprimendo un singhiozzo.
Ah, le pareva di soffocare. La casina coperta di glicine, con le invetriate, le terrazze, i fiori, il semicerchio luminoso del mare, tutto era ben lontano! Nella casupola dall'andito selciato di grossi ciottoli, dalla scaletta traballante, le camere basse e calde, pareva d'essere in un luogo di pena. Ella sentiva ad un tratto tutta la sua miseria, tutta la desolazione del suo destino, e piangeva con la disperazione di un sepolto vivo.
La zia Gaina pensava:
- Doveva volergli bene assai a quello straniero, se ancora lo piange così.
Intanto i bambini frugavano in ogni angolo della casetta, e ogni tanto correvano dalla mamma per comunicarle le loro scoperte. Vedendola piangere, Salvador la guardò meravigliato, poi le disse, timidamente:
- Perchè piangi, mamma? Eppure questa casetta è bellina. È tua, vero? C'è il pozzo, ci son le galline: vuoi venire a vedere?
Lia si lasciò condurre: ecco il cortiletto recinto da una muriccia a secco, sopra cui si delinea la brughiera verde e rossiccia e al di là della brughiera il mare lontano, azzurro sotto il cielo cinereo: ecco il pozzo coperto di muschio, la tettoia di frasche sotto cui si riparano le galline polverose: ecco la camera della zia Gaina, tinta di calce, con i canestri ed i vagli appesi alle parete, il letto di legno, la cassa antica incisa, la botola che conduce in soffitta. In capo al letto pende, coi ceri e le croci di palma orante d'oro come croci bisantine, una conocchia di legno d'olivo, su cui stanno incisi i simboli cristiani, il pesce e la colomba, e che termina con tre dita che fanno le fiche contro il malocchio.
E infine ecco la cameretta di Lia fanciulla. La zia Gaina l'ha rimodernata, ha messo due lettini di ferro con le coperte bianche, una zuccheriera di cristallo sul tavolo, quadri alle parte: in uno di questi, tutto rosso e azzurro, San Giacinto con una Madonnina di marmo in braccio attraversa a piedi un mare agitato: in lontananza si scorge una città in fiamme.
Lia guardava pensosa, rassomigliando il suo passato a quella città bella e maledetta: tutto incenerito! E lei, lei come il piccolo santo, è fuggita attraverso il mare portando in salvo il freddo simulacro della sua virtù.

*

Nei giorni seguenti cominciarono le visite. Quando non era occupata con loro, Lia scriveva, e arrivata l'ora della posta diventava nervosa come la zia Gaina non l'aveva mai conosciuta.
Il suo contegno severo e triste le ridonava presso la gente del paese la sua fama di donna seria: soltanto la zia Gaina cominciava a dubitare del contrario. Di chi erano le lettere che riceveva? Ed a chi ella scriveva, per ore ed ore, costringendo poi la zia Gaina a spazzare gli innumerevoli pezzetti di carta scritta che ella buttava dalla finestra?
I ragazzi, intanto, completamente trascurati da lei, correvano tutto il santo giorno intorno alla casupola, avanzandosi fino alla brughiera, e accorrendo volentieri alla chiamata delle vicine di casa, che davano loro latte, giuncata, pere acerbe, salvo poi ad osservare che i bimbi continentali sono sfacciati, golosi e mangioni. Alla sera, quando la luna illuminava con uno splendore uguale ed intenso metà della straducola, si vedeva una corona fantastica di bimbi scalzi girare vorticosamente, bianchi nel chiarore lunare, neri nell'ombra, cantando in coro:

Vogliamo una figlia, madama Dunrè.
Come la vestirete, madama Dunrè?
Con un vestito di sughero, madama Dunrè.

Fra tanti piedini scalzi, piedini di creta e di bronzo, se ne vedevano quattro calzati con sandali già molto logori e color della polvere: le vicine osservavano, e in breve tutto il paesetto si convinse che Lia Asquer non era ricca come la zia Gaina affermava: una persona benestante non manda i figli così mal calzati.
La zia Gaina fremeva, e ciò che le destava soprattutto rabbia era l'indifferenza di sua nipote alle chiacchiere maligne. Lia viveva in un mondo lontano, pieno di visioni incerte e fosche, di fantasmi paurosi, simile al mondo ove passa, spinta e risospinta da un soffio di morte, l'anima dei febbricitanti. Aveva però la coscienza di trovarsi in uno stato anormale, e aspettava che il turbine e il delirio passassero. Dovevano passare, ella lo sapeva. Altre tempeste le avevano desolata l'esistenza: le sembrava, anzi, che quest'ultimo turbine fosse così rabbioso e insistente perchè non trovava più nulla da devastare.
Una mattina, nello sciogliersi i capelli s'accorse che ne aveva molti bianchi: la scoperta non la addolorò ma la sorprese; si aprì, dividendola sul viso, la folta capigliatura e si guardò allo specchio. Vide che il suo viso era grigiastro e affilato, e che i suoi occhi s'erano rimpiccioliti; si sentì vecchia, e si vergognò d'essersi abbandonata all'amore come una fanciulla di venti anni; e non pensò che era stata appunto la sua passione a consumarla e ad invecchiarla.
- Ed io ho fatto questo! - disse a voce alta, con meraviglia. All'improvviso, dopo giorni e giorni di accecamento, la sua passione le parve un episodio inutile della sua vita.
Scese nella strada, chiamò i ragazzi e ricominciò ad occuparsi di loro; ma dovette fare un grave sforzo per costringere Salvador a riprendere il libro di lettura e Nino a lasciarsi lavare.
Nel pomeriggio mandò a chiamare il Maestro, per pregarlo di dar lezioni a Salvador.
La zia Gaina brontolava:
- Vedi, rosa mia, io questo non l'avrei fatto! Il Maestro non è più venuto a farti visita e fa un largo giro per le strade qui intorno piuttosto che passarci davanti. E tu lo mandi a chiamare! Vedrai che non verrà.
- Verrà, cosa volete scommettere?
- Ebbene, e se viene? Dopo che s'è sposato con la sua serva è diventato un ubbriacone: per far dispetto a sua moglie che va in chiesa, lui legge i libri proibiti; sì, anche uno che dicono è stato scritto da un nemico di cristo, uno che si chiamava Maometto come il cane del parroco... Non è uomo da dar lezioni ai fanciulli come Sarbadoreddu.
- Povero maestro, - pensava Lia; e ricordava d'averlo invidiato e quasi preso ad esempio per la passione ideale che egli nutriva per lei.
Egli arrivò alle cinque precise del pomeriggio. Aveva letto tante volte che le signore ricevono dalle cinque alle sette. Con la sua r-e-d-i-n-go-t-e verdognola, un fazzoletto di seta nera intorno al collo, un piccolo cappello duro in cima alla testa circondata da una folta capigliatura grigia e polverosa, era così compassionevole che non faceva neanche più ridere. Lia lo ricevette nella piccola saletta terrena, umida anche d'estate, e dopo i primi complimenti gli versò da bere. Egli evitava di guardarla, e le sue mani rossastre posate sul grosso pomo del suo bastone da pastore tremavano come quelle dello zio Asquer nei suoi ultimi giorni di vita.
- Ecco il vero amore, - pensava Lia; e non sapeva perchè si sentiva allegra come una bambina davanti ad un giocattolo.
- Ebbene, mi racconti di Roma, - egli disse finalmente, guardando i mattoni su cui cominciò a batter la punta del bastone. - Roma eterna, madre dei cuori! Un paradiso, eh?
Ma Lia, che pensava a Roma come a un paradiso perduto, cominciò a fare un quadro fosco della città.
- È l'inferno, le dico! Tanto è vero che voglio lasciarla. La gente umile e povera come noi non può viverci più.
La zia Gaina, che spiava dietro l'uscio, sollevò la testa meravigliata. Con lei sua nipote non aveva mai parlato così.
Il Maestro a sua volta, che, ad onta dei precetti del Profeta di cui leggeva con ammirazione i libri, beveva uno dopo l'altro i bicchieri di vino versati da Lia, gridò indignato:
- E lei vuol lasciare Roma per questo covo di vipere?
- Oh, no; ritornar qui mi sarebbe impossibile! Devo far studiare i bambini. Andrò a Nuoro, dove si vive con poco.
- Ma perchè parla così? Ha paura che le domandino denari in prestito? Lo sappiamo che lei è ricca...
- E lei che cosa intende per ricchezza? Lei un tempo leggeva Orazio...
Egli balzò in piedi offeso.
- Siamo miserabili, in questo paese, ma non stupidi. Lei può dirmi quel che vuole, e beffarsi di me; ma che non si possa vivere a Roma con tremila lire di rendita, questo non può dirlo...
- Tremila? Certo, a chi le ha bastano.
- E lei non le ha? E il povero zio Luigi Asquer non le aveva?
- Luigi Asquer non possedeva nulla! - disse Lia ridiventando seria, e cambiò discorso, domandando al Maestro notizie della sua vita.
- Io son povero, sì, - egli disse, riprendendo a fissare il mattone, - sono come i mastini legati alle porte dei ricchi. Vedo la gente passare e divertirsi, e ringhio e non posso rompere la catena. Non importa, - aggiunse, recitando enfaticamente alcuni versetti del Corano, - ciascuno sarà elevato secondo il proprio merito; ciascuno avrà la ricompensa delle sue opere, e nessuno sarà ingannato...
- Lo crede, lei? - domandò Lia, sollevando gli occhi pieni di tristezza e di ironia.
Ma il viso del Maestro, gonfio e rossastro nella cornice dei capelli grigi, esprimeva tale un turbamento puerile che ella ne fu scossa.
- Fino ad ieri, signora Lia, io credevo il contrario. Ma oggi mi son convinto che l'uomo non deve mai disperare: io credevo che lei mi avesse dimenticato signora Lia, e che io fossi nel numero dei morti. Invece lei ha pensato a me, e mi ha chiamato, e mi permette di sentire la sua voce e di avvicinare suo figlio... Questa gioia... questa gioia...
Egli non sapeva proseguire. Lia si mise a ridere.
- Si contenta di poco! - disse, versandogli ancora da bere. Ed egli bevette, e se ne andò ubbriaco di vino e di gioia.
Allora entrò la zia Gaina. Al solito teneva la mani sotto il grembiale, ed era pallida e accigliata: ma Lia osservò che un lieve tremito le scuoteva il mento.
- Lia, rosa mia, che hai detto a quella botte, a quel miscredente? Stasera tutto il paese saprà che hai parlato come una donna senza ragione.
- Che ho detto, zia?
- Poco, ti pare? Che sei povera, che vuoi cambiar residenza come un vagabondo...
- Zia ho detto la verità. Io non posso più vivere a Roma. Tutto vi è caro: la vita è difficile quasi come in una città assediata. Io lavoro per vivere, sì, bisogna che finalmente lo sappiate, lavoro per vivere, ma neppure così tiro avanti. Eppoi non contate le tentazioni? - aggiunse con un riso amaro. - La donna povera è sempre perseguitata dalle tentazioni, e gli scongiuri non valgono. Io non volevo lasciar Roma perchè questo era il desiderio del mio povero Justo, ma adesso. Adesso... bisogna che mi decida. Se egli è lassù e legge nella mia anima mi approverà...
Abbassò la testa, e si mise il dorso della mano sugli occhi, come un bambino che vuol nascondere il suo pianto. La zia Gaina la guardava, tragica e pietosa.
- Tuo zio aveva ragione di non acconsentire al tuo matrimonio con un uomo senza posto fisso...
Allora Lia sollevò fieramente la testa e ridiventò cupa e ironica.
- Egli dev'essere stato un santo se opera il miracolo di farvi parlare bene di lui!
- Rispetta i morti, consolazione mia: essi possono anche essere all'inferno, ma sono superiori a noi perchè sono nel mondo della verità e non mentiscono più, neppure volendolo. Noi invece viviamo di bugie. Tu, per esempio, tu non mi hai detto che lavoravi, che eri povera. Io ti credevo ricca e tu lavoravi, quanto hai di rendita la mese?
- Di rendita certa? Volete proprio saperlo? Cinquanta lire: e per vivere a Roma, con ragazzi che crescono tutti i giorni ed han bisogno d'aria, di luce, di nutrimento, occorrono almeno duecento lire... e forse più...
La vecchia si fece il segno della croce, poi domandò:
- Che farai a Nuoro?
- Prenderò in affitto una casetta: farò pensione ai ragazzi che dai paesi vanno a Nuoro per studiare...
- E quando i tuoi bimbi saran grandi?
- Spenderò il capitale per loro, finchè avranno una posizione. Allora toccherà loro ad aiutarmi...
- La vecchia non replicò, ma sotto il grembiale nero le sue mani si agitavano nervosamente. Lia si alzò e si mise a camminare attraverso la cameretta, parlando come fra sè, spinta da un bisogno di sfogo.
- Spero, sì, spero ch'essi diventeranno uomini di volontà. Non mancherà loro l'esempio. Ed essi almeno non conosceranno la miseria e la solitudine. Se così non fosse, guai. Non crederei più alla giustizia divina...
- Ci crede il Maestro, quella botte, alla giustizia divina, e non ci credi tu! C'è, sì! - affermò energicamente la vecchia.
- Chissà! Chissà! - disse Lia, ricadendo nelle sue inquietudini.
Allora la zia Gaina le si avvicinò e le tirò il lembo della manica, accennandole di seguirla. La condusse nella sua camera e trasse di sotto a un mattone una chiave nera che pareva ritrovata in uno scavo preistorico.
- Apri la cassa, rosa mia.
Lia rise, turbata suo malgrado.
- Volete già consegnarmi l'eredità?
- Apri, ti dico, e non ridere! Tu sei come una giornata di marzo: un momento nera e un momento col sole...
Lia si curvò: rivide sul coperchio nero gli asfodeli e i fenicotteri incisi da un artista primitivo, e nell'aprire la cassa sentì salire, come da un angolo buio di giardino, un forte profumo di spigo e di pere mature.
- Ecco aperto: dov'è il tesoro?
- Guarda bene, leva tutto...
- Tutto? Ecco la t-u-n-i-c-a, (5) ecco il giubbone, ecco la b-u-r-r-a, (6) ecco il corsetto, eccole calze rosse... qui c'è un vaso: è qui il tesoro?
- Lascia quello. Guarda sotto quelle tovaglie...
Lia si sollevò, pallida, con gli occhi scintillanti.
- È molto, zia? Un milione?
Ma la vecchia non rispose neppure: non erano momenti da scherzare, quelli! E Lia tornò a curvarsi e sentì il suo cuore battere con violenza.
- Ecco, prendi quell'involto, quel tovagliuolo legato...
Lia si sollevò, con l'involto in mano e stette a guardarlo finchè la vecchia non le impose:
- Apri, slegalo!
Lia lo slegò e trasalì, vinta da una specie di allucinazione: le pareva di rivedere la camera della zio Asquer, un cestino di rose rosse sul tavolo, il vecchio chino su un cassetto aperto e dentro il cassetto una busta gialla con cinque sigilli rossi. La stessa busta stava adesso, ancora sigillata, entro il tovagliuolo grigiastro tolto dalla cassa: Lia la guardò sorpresa, ma prima di aprirla, lesse una lettera ingiallita, sciupata e sucida che la zia Gaina aveva tolto di sotto al plico e che le porgeva con aria di mistero. «Alla signora Gaina Asquer». I caratteri, tremolanti e quasi illeggibili, erano quelli dello zio Asquer: Lia li riconosceva bene, e di nuovo le sembrava di vedere il vecchio davanti al suo tavolo, e Costantina che aspettava, complice fedele, per andar ad impostar le lettere ad insaputa di s-i-g-n-o-r-i-c-c-a.
S'avvicinò alla finestruola e lesse:

«Cara Gaina,

«saprai forse che nostra nipote Lia vuol sposarsi con un uomo assai più vecchio di lei, uno straniero che non ha una posizione sicura, nè, credo, un carattere che possa andar d'accordo con quello di lei. Io finora ho fatto il possibile per convincer Lia a non commettere un simile errore; ma non sono riuscito a nulla. Niente di buono io prevedo da questo matrimonio troppo disuguale... Un giorno forse - Dio non lo voglia - Lia cadrà in miseria. Prevedendo questo caso, io le lascio una rendita che la aiuterà a vivere. Ma desidero, e lo impongo a te che hai fatto da madre a Lia, di non far conoscere la mia volontà a nostra nipote finchè essa avrà da vivere altrimenti, e cioè finchè non ti consti, in tua coscienza, che essa avrà bisogno di aiuto. Però, se durante la tua vita ciò non avvenisse, fa in modo di consegnare a Lia, prima della tua morte, l'unito plico che contiene le mie disposizioni testamentarie.
«Sicuro che tu adempirai con coscienza questa mia estrema volontà, ti saluto e mi dico il tuo cugino
«LUIGI ASQUER».


Lia era diventata pallida e il foglio le tremava fra le mani. Le pareva di sognare, sebbene in fondo non si meravigliasse dell'atto stravagante con cui lo zio Asquer aveva coronato la sua vita d'uomo dispettoso. Ah, s'egli non avesse fatto questo, quanti dolori risparmiati! Eppure...
Eppure le parve di non serbargli rancore. Ricordò le sue teorie. Siamo padroni delle nostre azioni? No. Un filo misterioso ci guida...
E aveva quasi paura di aprire la busta gialla, con quei cinque sigilli che sembravan grumi di sangue; e la guardava fisso, volgendola e rivolgendola, esaminandola contro luce. Frattanto la zia Gaina, rimessa la roba nella cassa, s'era avvicinata e puntava il suo dito nero sulla busta gialla.
- Aprila, dunque! Lì dentro ci sono i denari...
- Oh no, è solo il testamento!
- Come, il testamento solo? E i denari dove sono allora?
- Adesso vedremo... Apritela voi, zia. Io non posso... non posso...
- Che coraggio hai, rosa mia!
La vecchia, che aveva sempre creduto il plico pieno di biglietti di banca, lacerò piano piano la busta, raccogliendo nel pugno i pezzetti della carta e della ceralacca...
- Ecco, questa è carta bollata... benedetta sia... E questa è una lettera? E questo?
A misura che li estraeva dalla busta porgeva a Lia i fogli di carta bollata, una lettera azzurrognola, un involtino di carta velina.
Lia svolse delicatamente quest'ultimo: e vide una rosa secca i cui petali eran ridotti ad una specie di cenere rossiccia e lo stelo e il calice sembravan di legno corroso. Le spine soltanto erano ancora intatte. Senza dar tempo alla zia Gaina di esaminare lo strano oggetto, ripiegò la carta velina e svolse il foglietto azzurrognolo ingiallito dal tempo e che conservava ancora le traccie delle ostie color rosa con cui era stato chiuso in forma di busta.

«Caro Luigi, è inutile e doloroso insistere. La fatalità ci ha fatto conoscere troppo tardi i nostri sentimenti. Io mi considero già legata all'uomo che ha la mia promessa di fedeltà, e morrei prima di tradirlo. Addio, addio, perdonami: tutto dev'essere finito fra noi, in questa vita. Forse c'incontreremo in una vita migliore: questa è l'unica speranza che m'incoraggia a vivere. Addio per sempre.
«SIMONA».


La zia Gaina guardava, con grandi occhi spalancati pieni di curiosità ed anche di malizia: vedeva Lia impallidire e arrossire come colta da vertigine, e, pur indovinando la causa di tanto turbamento, non riusciva a capire perchè la nipote non s'affrettasse a legger la carta bollata.
Quella, importava, non le antiche storie di gente oramai tranquilla nel «mondo della verità». Finchè siamo sotto, nel mondo della menzogna, attacchiamoci ai rovi e agli sterpi che ci aiutano nella salita. Che cosa c'era scritto nella carta bollata? E i denari, dov'erano i denari?
Ella dovette ripeter parecchie volte la domanda, e batter col dito sulla carta bollata, e finalmente scuoter Lia per il braccio prima che questa si decidesse a ripiegare il foglietto azzurrognolo.
- È di tua madre, beata? - domandò la vecchia sottovoce, e senza aspettar la risposta, mentre Lia svolgeva il foglio duro del testamento, aggiunse: - leggi a voce alta, rosa mia!
E Lia lesse a voce alta; voce rauca e monotona che pareva d'uno appena svegliatosi da sonno profondo:
«Io Luigi Asquer del fu Filippo, capo divisione del Ministero delle Finanze, attualmente a riposo, ecc., ecc., nel piano possesso delle mie facoltà mentali, ecc., ecc., dichiaro d'instituire mia erede universale la mia nipote Lia Asquer del fu Ignazio, ecc., ecc.
«Detta eredità consiste in ottocento azioni di lire cento ciascuna della rendita Italiana, intestate alla detta mia nipote Lia Asquer, e depositate presso il notaio Cav. Uff. Raffaele Vigna, domiciliato in Roma, ecc., ecc. la detta mia nipote Lia Asquer entrerà in possesso delle azioni non appena presenterà al sullodato notaio Cav. Uff. Raffaele Vigna l'atto di deposito debitamente registrato e annesso al presente atto testamentario. Nel caso di decesso della detta Lia Asquer il presente atto sarà valido per i suoi legittimi eredi, ecc., ecc.
- Leggi ancora, spiegami bene, - supplicò la zia Gaina a bassa voce, come vinta da un timore religioso. Così ricco era? Quanto viene ad essere? E gl'interessi, rosa mia, non se li avrà mangiati il notaio!...
A poco a poco, mentre Lia rileggeva, un'ombra tragica oscurava il viso della vecchia.
- Io non mi sarei fidata così, no! chi sa adesso se il notaio è vivo, se ti darà i denari subito! Come saperlo?
- Si fa presto: si manda un telegramma!
Ma la vecchia ricominciò a parlar male del povero zio Asquer.
- Egli non ne ha fatto mai una bene, nè in vita, nè in morte. Come è vissuto, matto, così è morto, credi pure, è così! Vedrai che ti costerà fatica riavere i denari, se pure li riavrai. Il notaio sarà morto o sarà fallito; se ne sentono sempre di queste storie. E tu con sedicimila scudi potevi sposare un alto impiegato, uno con un posto fisso! Ed io che ho sempre vissuto nell'idea che i denari fossero dentro la cassa!
Questi brontolii valsero a richiamare Lia alla realtà, come gli spruzzi d'acqua fanno rinvenire uno che è caduto in deliquio, rispose vivacemente alla vecchia, difendendo il povero zio Asquer, e arrivando a dire che, qualunque cosa accadesse, ella apprezzava egualmente la generosità e la bontà del defunto.
- Del resto, ripeto, è facile assicurarci subito. Farò un telegramma al notaio.
- E fallo subito, allora! Che aspetti? Presto, presto!... - gridò l'altra, correndo affannata a cercare penna e carta. Quando rientrò nella camera, vide che Lia, invece di rileggere il testamento, decifrava ancora la lettera chiusa con le ostie.

*

Dubbio, timore, speranza, agitarono per ore ed ore le due donne, anche Lia si lasciava suggestionare dalle diffidenze della vecchia, e pensava che davvero non era possibile tanta fortuna in una sola volta: no, era un sogno, un'avventura fantastica. I minimi ricordi del tempo passato le tornavano in mente, e adesso si spiegava tante cose che le erano parse strane. Il contegno dello zio Asquer, il suo carattere, il suo pessimismo, il suo odio al paese natìo, l'affetto bizzarro che nutriva per lei, misto di amore e di rancore, e la figura di Costantina, della serva fedele che doveva essere a parte del segreto, adesso le appariva nella sua vera luce.
Con le braccia incrociate sul petto, seduta sotto il palmizio mezzo inaridito, ella guardava, verso sera, i vapori rossi e azzurri che coprivano il mare, dietro la linea rugginosa della landa, e seguiva da lontano i giochi dei bimbi, quando la zia Gaina apparve sulla porta della casupola e si avanzò lentamente con un foglio giallo in mano. A Lia parve di riviere in una sera lontana; il lamento d'una fisarmonica vibrava tra i mirteti della brughiera, e la zia portava in mano la lettera dello zio Asquer... Ed era ancora tale e quale, la vecchia. Lo stesso viso ieratico circondato dalla benda nera, lo stesso sguardo fisso, misterioso, lo stesso passo di piedi scalzi che non fan rumore. Dava l'idea d'una di quelle fate messaggere della buona o della mia sorte.
- È la risposta del notaio, - disse Lia, dopo aver letto il telegramma, - è vivo, non è scappato, è pronto a consegnare i danari, - aggiunse, sollevando gli occhi e sorridendo con lieve ironia. Le labbra però le tremavano.
Come in quella sera lontana, la vecchia si lasciò cadere sul sedile di pietra e domandò:
- E adesso che cosa farai?
- Adesso? Adesso non ho più bisogno di far nulla!...
- Ritornerai a Roma?
- No.
- Come, non ti basta neanche tutta quella ricchezza?
- Non basta, zia!
- Ma che cosa si mangia, a Roma? Oro?
- Molti, sì, mangiano oro.
La vecchia ricominciò a brontolare; poi diventò pensierosa:
- Riprenderai marito, Lia?
- No, no! io non penso che ai miei ragazzi, zia! Vivrò per loro: per il resto del mondo sarò come morta... Ho vissuto una volta e basta!...
- Così parlava tua madre, sì, ricordo, proprio così!
Lia chinò la testa, e riprese la posizione di prima: ma il suo atteggiamento desolato non impediva alla zia Gaina di fare per conto suo e della nipote mille progetti uno più puerile dell'altro.
Cadeva la sera. I ragazzi del vicinato s'aggiravano attorno alla casupola e fischiavano per richiamare Nino e Salvador; a un tratto s'udì nel cortiletto uno schiamazzo, un urlìo, e come una voce rauca che domandava aiuto.
- Ah, le mie galline! Adesso vi diverto io, ragazzi del diavolo! - gridò la vecchia, correndo verso il cortile.
Lia rimase sola, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi smarriti nella lontananza. I vapori dell'orizzonte diventavano rossi, d'un rosso luminoso il cui riflesso incendiava il mare e la brughiera: ed ella provava ancora una volta l'impressione di trovarsi in un luogo desolato e deserto. L'idea che il suo avvenire era assicurato, che ella non avrebbe più avuto modo di pensare alle piccole cose della vita, invece di rallegrarla le dava come un senso di noia: e la domanda della zia Gaina le tornava in mente: - Sì, che cosa farò adesso?
Anche quel senso d'attesa che l'aveva sostenuta nei giorni più tristi era svanito. Ella non avrebbe amato più: la sua gioventù era finita.
Le voci dei bimbi che riempivano di vibrazioni il silenzio del luogo, aumentavano il senso di solitudine che la avvolgeva. Salvador cantava a voce spiegata:

Vogliamo una figlia, madama Dunrè,

E Lia pensava al tempo in cui i suoi bambini l'avrebbero abbandonata per appoggiare la loro testa sul cuore di altre donne. Gli occhi le si riempirono di lagrime: ma come attraverso un velo luminoso vide a un tratto sorgere attorno a lei una corona di fantasmi cari: sua madre, il povero zio Asquer, il povero Justo... Essi, no, non l'avrebbero più lasciata sola, come non l'avevano abbandonata mai, neppure quando ella s'era dimenticata di loro.

F I N E .

________________

(1) Bugia.

(2) Un tesoro.

(3) Se nel ritrovare un tesoro si pensa al diavolo, le monete si tramutano in carbone.

(4) La falce serve specialmente per il vampiro, che si indugia a contarne i denti; e siccome non gli riesce, poichè non sa contare che fino a sette, ricomincia da capo, e così viene sorpreso dall'alba e costretto a ritirarsi.

(5) Sottana.

(6) Coperta.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Grazia Deledda - Nel deserto", Fratelli Treves Editori, Milano, 1911







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