Grazia Deledda - Opera Omnia >>  La via del male




 

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I.


Pietro Benu si fermò un momento davanti alla chiesetta del Rosario.
"È appena la una" pensò. "Forse è troppo presto per andare dai Noina. Dormiranno, forse. Quella gente è ricca e si prende tutti i comodi."
Dopo un momento d'esitazione riprese la strada, dirigendosi al vicinato di Sant'Ussula, che è all'estremità di Nuoro.
Era ai primi di settembre; il sole ancora ardentissimo saettava le straducce deserte; solo qualche cagnolino affamato passava lungo le strisce d'ombra merlata che si stendevano davanti alle casette di pietra.
Il roteare d'un molino a vapore interrompeva, in lontananza, il silenzio meridiano; e quel rumore ansante e palpitante pareva l'unica pulsazione della piccola città arsa dal sole.
Pietro, seguito dalla sua corta ombra, animò per qualche momento, col rumore dei suoi scarponi, la solitudine della strada desolata che dalla chiesetta del Rosario va al cimitero; di là egli s'internò nel vicinato di Sant'Ussula, indugiandosi a guardare i piccoli orti invasi da una vegetazione selvaggia, i cortiletti ombreggiati da qualche caprifico, da qualche mandorlo e da meschini pergolati; e finalmente si fermò ed entrò in una bettola sulla cui insegna stava issata una scopa.
Il bettoliere, un toscano ex-carbonaio, che aveva sposato una paesana di cattivi costumi, stava coricato sull'unica panca della Rivendita - com'egli chiamava dignitosamente il suo buco - e dovette alzarsi per lasciar sedere l'avventore.
Lo guardò, lo riconobbe, gli sorrise coi suoi grandi occhi chiari e maliziosi.
“Salute, Pietro”, gli disse, con un bizzarro linguaggio, nel quale sul puro senese il dialetto sardo s'era impresso come la patina sull'oro; “che cosa cerchi da queste parti?”
“Qualche cosa cerco! Dammi da bere”, rispose Pietro con un certo disprezzo.
Il toscano gli diede da bere, guardandolo coi grandi occhi infantili sempre sorridenti.
“Scommettiamo che so dove vai? Vai da Nicola Noina, al cui servizio vuoi entrare. Ebbè, ti avrò per cliente e ne sarò contento.”
“Come diavolo lo sai?”, domandò Pietro.
“Ma... l'ho saputo da mia moglie: le donne sanno tutto. L'avrà saputo dalla tua Sabina...”
Pietro s'accigliò alquanto, pensando Sabina in relazione con la moglie del toscano; ma poi scosse la testa, obliquamente, da destra a sinistra, con un gesto sprezzante che gli era abituale, e tornò sereno; una serenità incosciente che tuttavia aveva qualcosa di sarcastico.
Anzitutto Sabina non era affatto sua. L'aveva incontrata durante le ultime mietiture, e una notte di luna piena, mentre nell'aia le formiche, in lunghe file silenziose, rapivano il grano, egli, addormentato a bocca a terra, aveva sognato di sposare la fanciulla. Sabina era graziosa: bianca, con un ciuffo di capelli biondi sulla fronte pura. E si mostrava tenera con Pietro e l'avrebbe amato volentieri; ma egli, svegliandosi dal suo sogno, aveva preso tempo per risolversi, e ancora non s'era deciso a dichiararle la sua simpatia.
“Chi è questa Sabina?”, domandò, guardando il bicchiere vuoto rosso di vino.
“Bah, non fare lo sciocco! La nipote di zio Nicola Noina!”, disse il toscano.
Egli dava il titolo di zio e zia, che i nuoresi danno solo alle persone anziane del popolo, anche ai bambini, alle fanciulle ed ai signori.
“Non lo sapevo, in verità”, mentì Pietro. “Sabina ha detto che io voglio entrare al servizio dello zio?”
“Non so: l'ho pensato io.”
“Eh, tu hai poco da fare, piccolo forestiero”, riprese Pietro, col suo gesto sprezzante, “e pensi quello che ti pare e piace. Ebbene, se io volessi davvero entrare al servizio di Nicola Noina, che importa a te?”
“Ne sarei contento, ripeto.”
“E allora, dimmi, che razza di gente è la famiglia Noina?”
“Tu che sei nuorese lo devi saper meglio d'un forestiere”, si schermì il bettoliere, che aveva preso in mano una specie di piumino di ritagli di carta e scacciava le mosche da un cestino di frutta messo in mostra vicino alla porta.
“Un forestiere vicino ne sa più di un compaesano lontano.”
Senza smettere di scacciare le mosche, il bettoliere prese a chiacchierare come una donnicciuola.
“I Noina sono i re del vicinato, lo sai, sebbene siano nuoresi quanto me...”
“Cosa dici, diavolo? Se la moglie appartiene ad una famiglia di principali (1) nuoresi?”
“La moglie sì, ma lui? Chi lo sa di dov'è? Neppure lui lo ricorda. È venuto a Nuoro con suo padre, uno di quei negozianti errabondi, che comprano olio da ardere e poi lo rivendono per buono.”
“Così si fanno le fortune! E tu non battezzi il tuo vino?”, esclamò Pietro, versando al suolo le ultime gocce del bicchiere.
Sentiva già un istintivo bisogno di difendere, per amor proprio, il suo futuro padrone.
“Nessun bettoliere, a Nuoro, vi dà il vino schietto come il mio”, proseguì l'altro. “Domanda allo stesso zio Nicola che se ne intende...”
“Ah, è vero, egli è un ubriacone?”, domandò Pietro. “Dicono fosse ubriaco quando, il mese scorso, cadde da cavallo e si ruppe una gamba, ritornando da Oliena.”
“Non so; forse aveva assaggiati molti campioni di vino! Perché era andato per comprare del vino. Fatto sta che s'è rotta la gamba ed ora cerca un servo abile e fidato, perché egli non può più badare alle cose sue.”
“E la moglie che donna è?”
“Una donna che non ride mai, come il diavolo. Una vanitosa. Il vero prototipo delle vostre principalesse, che credono d'aver il mondo entro la loro cuffia perché posseggono una vigna, un chiuso, una tanca, cavalli e buoi.”
“E ti par poco, piccolo forestiere? E la figlia, come è? Superba?”
“Zia Maria? Una bella ragazza. Ma bella!”, disse l'altro gonfiando le guance. “Quella è buona, umile, buona massaia. Dicono! Io la credo ancor più superba della madre. Devono poi essere avare, quelle due donne, avare quanto zio Nicola è allegro e prodigo. Ma lo tengono dentro il pugno, così, veh, il povero zio Nicola!”
“Questo non m'importa”, disse Pietro, guardando il pugno chiuso del bettoliere. “Basta che non siano avare con me.”
“Ah, dunque è vero che ci vai?”, chiese l'altro, smettendo la sua faccenda.
“Se mi pagano bene, sì. Hanno una serva?”
“Niente. Non hanno avuto mai né servi, né serve. Fanno tutto da loro. Maria lavora come una bestia; va alla fontana, va a lavare, spazza il cortile e la strada davanti al cortile. Una vergogna, per gente ricca come loro.”
“Lavorare non è vergogna. E poi, non dicevi tu, poco fa, che non sono ricchi?”
“Si credono, però. Si credono ricchi perché vivono in questo vicinato di miserabili. L'essere cresciute, specialmente le donne, fra la perpetua miseria della gente che le circonda, dà loro l'idea d'essere delle regine. Anzi nella zia Maria la vanità ha un limite, o almeno, è un po' nascosta, ma la zia Luisa ad ogni parola fa sentire di non aver bisogno di alcuno, di esser ricca, d'aver la casa piena di provviste e il cassetto colmo di monete. È una donna schiacciante. Zio Nicola la chiama Madama reale. Non si degna neppure di uscire a prendere il fresco nello spiazzo, assieme alle altre vicine, come fa la zia Maria. Se ne sta nel suo cortile, accanto al portone spalancato, e se qualche donnicciuola le si avvicina bisogna vedere che arie la sua Luisa assume!...”
“Ah, dunque”, interruppe Pietro, pensieroso, guardando fuori della porta, verso lo sfondo ardente della straducola, “lui, il padrone non è superbo?”
“Gli è un burlone ciarliero; niente altro. Si beffa un po' di tutti, e si mostra bisognoso di denari. È un furbone, caro mio!”
“E in famiglia vanno d'accordo?”
“Si capiscono a vicenda come gli uccelli dello stesso nido”, disse il forestiere. “Pare che vadano d'accordo: del resto non fanno mai sapere agli altri i fatti loro.”
“Tu però sembri bene informato; quasi quanto una donnicciuola...”, osservò Pietro, col suo gesto sprezzante.
“Cosa vuoi? Qui è un luogo di chiacchiere; tutti convengono qui, come le api all'alveare”, riprese il toscano, con un bel paragone che fece sorridere Pietro. “Io ascolto e ripeto...”
“Quando avrò bisogno di saper qualche cosa, allora, verrò qui...”
“Mi pare che ci sei già venuto...”
Pietro sbottonò una specie di borsetta applicata alla sua cintura di cuoio, e trasse una moneta d'argento.
“Pago. E tua moglie dov'è?”
“L'è andata a cogliere fichi d'India”, rispose l'altro, sbattendo sul banco la moneta, per accertarsi che non era falsa.
Pietro pensò alla moglie del bettoliere, una bellissima donna dai grandi occhi neri, presso la quale anch'egli una volta aveva passato qualche ora; e per concatenazione d'idee domandò:
“E cosa si dice di Maria Noina? È onesta?”
“Ostia, son cose neppure da domandarsi!”, gridò l'altro. “La figlia di zio Nicola Noina? Lo specchio dell'onestà.”
“E fa all'amore, almeno questo specchio?”
“Niente. Vuole un partitone, quella...”
“Ebbè, glielo porteremo dal continente”, disse Pietro guardando con beffe il forestiere.
Avrebbe voluto sapere altre cose, ma ebbe timore che il bettoliere andasse poi a riferire le sue domande ai Noina, e si alzò.
“Spero rivederci, Pietro. Fa il contratto con zio Nicola, sai: è un buon uomo, dopo tutto. Tieni duro e vedrai che ti darà tutto quello che vorrai.”
“Grazie del consiglio; ma io non vado là”, mentì ancora Pietro.
Invece, appena fuori, voltò a destra e s'avvicinò alla casa dei Noina.
Invero, la casetta, bianca e quieta dietro l'alto muro del cortile, pareva guardasse con disprezzo le catapecchie ammucchiate qua e là intorno allo spiazzo e lungo la straducola polverosa. Pietro spinse senz'altro il portone rosso socchiuso ed entrò.
A destra del vasto cortile, lastricato di ciottoli, arso dal sole, pulito e ordinato, Pietro vide una tettoia che funzionava da stalla e da rimessa: a sinistra biancheggiava la casa, con la scala esterna, di granito, rallegrata da ciuffi freschi di campanule attorcigliate alla ringhiera di ferro.
Con ordine quasi simmetrico stavano qua e là disposti molti attrezzi contadineschi: un carro sardo, vecchie ruote, aratri, zappe, gioghi, pungoli, bastoni.
Sotto la scala s'apriva una porta; più in là un'altra porta di legno affumicato, con uno sportello in alto, indicava l'ingresso della cucina.
Pietro si diresse là, guardò dallo sportello aperto e salutò.
E ite fachies? Che fate?”
“Entra”, rispose senz'altro una donna bassa e pingue, dal lungo viso bianco e calmo, incorniciato da una benda di tela tinta con lo zafferano.
Pietro Benu spinse la porta ed entrò.
“Volevo parlare con zio Nicola.”
“Ora lo chiamerò. Siediti.”
Il giovane sedette davanti al focolare spento, mentre zia Luisa usciva nel cortile e saliva le scale col suo passo lento e grave.
La cucina rassomigliava a tutte le cucine sarde: larga, col pavimento di mattoni, il soffitto di canne annerite dal fumo; grandi casseruole di rame lucenti, arnesi per fare il pane, spiedi enormi e taglieri di legno pendevano dalle pareti brune. Su uno dei fornelli praticati sul grande forno semicircolare bolliva una piccola caffettiera di rame.
Sopra uno sgabello, vicino alla porta, Pietro osservò un canestro d'asfodelo col necessario per cucire e una camicia da donna con un ricamo sardo appena incominciato. Doveva essere il lavoro di Maria. Dov'era a quell'ora la fanciulla? Forse era andata a lavare, nel torrente della valle, perché durante il tempo che Pietro stette lì ella non si lasciò vedere.
Solo, dopo un momento, rientrò zia Luisa, bianca, impassibile, con la bocca stretta e il corsetto allacciato nonostante il caldo soffocante; e il passo d'un uomo zoppo risuonò nel cortile.
Appena il giovine servo vide la figura bonaria, il viso colorito e gli occhi brillanti di zio Nicola, si rallegrò tutto.
“Come va?”, chiese il proprietario, sedendosi con qualche stento su una larga sedia di paglia.
“Bene”, rispose Pietro.
Zio Nicola allungò la gamba sana, fece una lieve smorfia di dolore, ma subito si ricompose. Zia Luisa scostò la caffettiera dal fuoco, e si rimise a filare, col piccolo fuso sardo gonfio di lana bianca. Così bassa e tonda, quasi solenne nell'antico costume nuorese, con la gonna di orbace orlata di verde, con la benda gialla intorno al grande volto enigmatico, con le labbra strette e gli occhi chiari e freddi, ella pareva un idolo e incuteva una soggezione religiosa quanto il marito ispirava confidenza.
“So che cercate un servo”, disse Pietro, spiegando e ripiegando la sua lunga berretta nera. “Se mi volete, vengo io. Finisco ora a settembre il servizio da Antoni Ghisu, e se volete...”
“Giovinotto”, rispose zio Nicola, fissandolo coi suoi occhi brillanti, “non ti offenderai se ti dico una cosa: tu non godi una fama spiccata...”
Anche Pietro aveva gli occhi grigi luminosi e sostenne quasi insolentemente lo sguardo di zio Nicola: benché sentisse le orecchie ardergli per l'offesa, disse pacatamente:
“E informatevi, allora...”.
“Non offenderti”, disse zia Luisa, parlando a denti stretti e quasi senza aprire bocca. “Son voci che corrono, e Nicola è un burlone.”
“Ma che voci, zia Luisa mia? Che possono dire di me? Non ho mai avuto che fare con la giustizia, io. Lavoro di giorno e dormo di notte. Rispetto il padrone, le donne, i bambini. Considero come mia la casa ove spezzo il pane e bevo il vino. Non ho mai rubato un'agugliata di filo. Che possono dire di me?”, egli chiese, accendendosi in volto.
Zio Nicola non cessava di guardarlo, e sorrideva. Fra la sua barba rossigna e i baffi neri spiccavano le sue labbra fresche e i denti giovanili.
“Eh, dicono soltanto che sei manesco e rabbioso”, esclamò, “e infatti mi pare che ti arrabbi, ora. Vuoi il bastone?”
Gli porse il bastone, accennandogli di bastonare qualcuno, e Pietro rise.
“Ecco”, confessò, “non nego che sono stato un ragazzo discolo; scavalcavo tutti i muri, salivo su tutti gli alberi, bastonavo i compagni e correvo sul dorso nudo di cavalli indomiti. Ma chi da ragazzo non è stato così? Qualche volta mia madre, poveretta, mi legava e mi chiudeva in casa; io rosicchiavo la cordicella e scappavo. Ma ben presto conobbi il dolore. Mia madre morì, il tetto della nostra casetta profondò; conobbi il freddo, la fame, l'abbandono, la malattia. Le mie due vecchie zie mi aiutarono, ma sono così povere! Allora compresi la vita. Eh, diavolo; la fame è una buona maestra! Mi misi a servire, imparai ad obbedire e a lavorare. E ora lavoro: e appena potrò rifare la mia casetta rovinata, e comprarmi un carro, un paio di buoi, un cane, prenderò moglie...”
“Ah, diavolo, diavolo per prender moglie ci vogliono delle vivande...”, disse zio Nicola, servendosi di un vecchio proverbio sardo.
Zia Luisa filava e ascoltava, e una piccola piega le increspava la guancia destra, intorno alla bocca.
"Questi pezzenti! Muoiono di fame e sognano di ammogliarsi!", pensava.
“Basta”, disse zio Nicola, battendo il bastone sulla pietra del focolare, “ora parliamo del nostro affare e vediamo di combinare.”
E combinarono.



II.


Il quindici settembre Pietro entrò al servizio dei Noina. Era di sera; una sera nuvolosa e tetra, il cui ricordo rimase impresso nella mente del giovine servo come il ricordo di un triste sogno.
Le donne lo accolsero con freddezza, quasi con diffidenza, ed egli si sentì triste quando entrò nella cucina ancora buia e attaccò il suo cappotto nell'angolo vicino alla porta.
Maria accese il lume e versò da bere al nuovo venuto.
“Bevi”, gli disse, guardandolo acutamente.
“Salute a tutti”, rispose Pietro; e mentre beveva il vino rossastro, il vino di media qualità riservato ai servi ed alle persone povere, anche egli fissò la giovine padrona.
Così vicini, bellissimi entrambi, nei loro costumi caratteristici, servo e padrona apparivano, ed erano campioni magnifici d'una stessa razza; eppure una distanza enorme li divideva.
Pietro era alto e pieghevole; indossava un giubbone di scarlatto scolorito dall'uso, foderato di grosso velluto turchino, e al di sopra del giubbone una specie di giacca senza maniche, di pelle d'agnello conciata rozzamente, ma ben tagliata e lavorata e adorna di filetti rossi. La sua figura era elegante e pittoresca, nonostante la poca nettezza delle sue vesti da lavoratore. Anche il suo volto era bronzino, con un profilo purissimo, allungato dalla linea dei capelli neri dritti sulla fronte e dalla barbetta nera a punta.
I grandi occhi grigi, assai dolci e luminosi, contrastavano con l'espressione selvaggia delle sopracciglia folte e riunite, e delle labbra sprezzanti.
Anche la giovine padrona era alta, bruna, agile; coi suoi capelli nerissimi e crespi, raccolti in grosse trecce sulla nuca, la carnagione dorata, i lunghi occhi neri che brillavano sotto la fronte bassa, i cerchi d'oro coi pendenti di corallo che parevano nati assieme con le piccole orecchie diafane, ella ricordava le donne arabe nate dal sole e dalla terra voluttuosa, dolci e aspre come i frutti selvatici.
Una linea d'impareggiabile bellezza segnava la delicata punta del naso, il labbro inferiore e il mento di Maria. Quando ella rideva, due fossette scavavano le sue guance e altre due, più piccole, gli angoli degli occhi: perciò rideva spesso.
Con tutto questo Maria dispiacque a Pietro, e Pietro dispiacque a lei.
Zia Luisa, col corsetto allacciato e il capo avvolto nella benda gialla, preparava la cena; zio Nicola non era ancora rientrato.
Pietro sedette in un angolo, dietro la porta, e cominciò ad osservare le due donne con curiosità diffidente.
“Domani tu andrai nel nostro chiuso della valle; tu sai dov'è?”, chiese Maria.
“Altro che”, rispose Pietro, sollevando la testa col solito gesto sprezzante.
“Il chiuso confina con la vigna”, disse zia Luisa, senza voltarsi. “Saprai anche questo.”
“Lo so, lo so. Chi non conosce la vostra vigna?”
“Sì, è la più bella vigna di Baddemanna” disse la vecchia padrona. “Ci costa, e Nicola Noina ha speso, oltre i suoi soldi, tutto il suo tempo per coltivarla; ma almeno sappiamo che abbiamo una vigna!”
“Lo sappiamo”, rispose il servo, come una eco, ma con voce triste.
“Verrò spesso a trovarti”, disse Maria, curvandosi per deporre una bottiglia vicino a Pietro.
Poi gli mise davanti, su uno sgabello, un canestro col pane d'orzo, il formaggio, un piatto con carne e pomi di terra, e aggiunse:
“Mangia. Ecco il babbo che viene”.
Nel cortile silenzioso s'udì il passo zoppicante di zio Nicola, e Pietro si rallegrò pensando al padrone.
“Salute, e benvenuto”, salutò questi, entrando nella cucina. “Che brutta sera: la mia gamba soffre come una donna in parto. Ebbene, mangiamo anche noi. E sta allegro, Pietro Benu; sei fra gente amica, tra persone oneste e allegre. Sì: poveretti ma allegretti.”
Zio Nicola sedette davanti a un piccolo tavolo senza tovaglia; le donne misero un canestro per terra, sedettero e cenarono.
La conversazione continuò, poco animata. Dopo cena Pietro chiese il permesso di uscire; incontrò altri giovini paesani coi quali s'era dato appuntamento, e tutti insieme formarono il coro del canto nuorese e andarono a cantare davanti alla porta delle loro innamorate.
Anche Pietro volle cantare sotto le finestre della casa dove Sabina serviva:
Furadu m'as su coro, pili brunda...
Nei giorni seguenti Pietro fu mandato a lavorare nel chiuso ed a guardare l'uva e i frutti che maturavano nella vigna.
Come aveva annunziato, Maria scendeva nella valle quasi tutti i giorni, a piedi od a cavallo, e pareva non curarsi del giovine servo; talvolta ella ripartiva senza avergli rivolta una parola.
Pietro, che costruiva una specie di argine lungo il ruscello, in fondo al podere, vedeva Maria vagare tra i filari della vite, lassù, nella vigna illuminata dal sole ancora violento. Al di sopra della vigna sorgevano le rocce chiare dell'Orthobene, battute dal sole, e al di sopra delle rocce sul cielo azzurro abbagliante, gli elci immobili pareva guardassero pensosi l'orizzonte opposto.
Una vegetazione selvaggia copriva i fianchi della valle; tra il verde cinereo dei fichi d'India e degli olivi brillava il verde smeraldino della vite, e la vitalba s'intrecciava al lentischio lucente.
Qualche roccia, forse un giorno precipitata dalla montagna, sorgeva qua e là negli anfratti e in riva al torrentello che rinfrescava i piccoli orti in fondo alla valle. L'edera e la pervinca coprivano le rocce; i sentieri appena tracciati scendevano e salivano, tra i rovi e i cespugli; macchie gigantesche di fichi d'India, dalle foglie pesanti nate le une sulle altre, incoronate di frutti e di fiori d'oro, sorgevano sui ciglioni e s'arrampicavano sulle chine.
Maria, in semplice gonnella d'indiana grigiastra, col bustino di velluto verde che appariva come una macchia un po' morbida e viva fra il verde della vigna e dell'oliveto, vagava qua e là a passi svelti, agile e pieghevole; si curvava ad esaminare i grappoli; si allungava per toccare un frutto quasi maturo, spiccava con una canna i fichi d'India dorati. Come certi insetti verdi che prendono il colore del cespuglio ove son nati ella pareva un'emanazione della valle feconda; aveva la flessibilità della vite e la maturità carnosa del fico d'India.
Ma, appunto come il fico d'India, non sapeva nascondere le sue spine, e Pietro la guardava con occhi torvi, accorgendosi che ella lo disprezzava, non solo, ma diffidava di lui.
"Ella viene qui per vigilarmi", pensava. "Ha paura che le porti via la sua roba; se mi provoca le insegno io la creanza. Le do uno schiaffo."
Ma ella non lo provocava; solo qualche volta gli rivolgeva la parola, accennandogli i lavori da eseguire.
Era fredda e dignitosa: Pietro cominciava ad odiarla, e desiderava andarsene presto dal chiuso per non veder più il viso ipocrita e gli occhi scrutatori che lo insultavano tacitamente.
"Si vede che questa gente non ha mai avuto dei servitori", egli pensava, e per dispetto, per puntiglio, lavorava alacremente, vegliava, non toccava un solo frutto.
Un giorno, in ottobre, mentre egli tagliava i pampini perché il sole penetrasse meglio fino ai grappoli, Maria gli passò vicino e disse:
“Perché non mangi mai uva, Pietro?”.
“Conti i grappoli, dunque?”, egli rispose, curvo, ma sollevando gli occhi per guardarla e scuotendo la testa col suo gesto sprezzante.
Maria arrossì: capiva d'essersi tradita, ma cambiò abilmente discorso.
“Pietro”, disse, riparandosi gli occhi con la mano per guardar meglio verso il confine della vigna, dove s'allineavano i peri dalle foglie gialle, carichi di frutti maturi che al sole parevano di cera pronti a liquefarsi, “dopodomani coglieremo le pere.”
Anch'egli guardò verso i peri.
“Come volete.”
“Senti: tu, dopodomani mattina cogli le pere, ed io nel pomeriggio vengo qui col cavallo e le porto via. Credi tu che bastino quattro cestini? Farò due viaggi.”
Siccome Pietro s'allontanava tra i filari con un fascio di pampini fra le braccia, ella gli andò dietro.
“Che annata di pere! L'anno scorso ce le hanno tutte rubate. Quest'anno le venderemo e ne ricaveremo almeno una ventina di lire. Cosa dici tu Pietro?”
“Io? Non so. Non ho mai venduto pere.”
“Sì, ce le hanno rubate, l'anno scorso. Quest'anno tu le hai ben guardate: ti regalerò mezza dozzina di sigari.”
“Io non fumo”, egli disse, quasi beffardo.
Ma la giovine padrona si mostrava così espansiva e buona, quel giorno, ch'egli si domandò se non s'era ingannato giudicandola cattiva.
Ma mentre egli gettava un altro fascio di pampini in fondo al filare, Maria gli disse:
“Senti, Pietro. Meglio, dopodomani verrò prestino, verso le due pomeridiane. Coglieremo assieme le pere e le porteremo via in una sola volta”.
"Ecco, ella ha paura che nel coglierle io ne metta a parte un mucchio. Ah! avarona, sorniona indiavolata..."
Ma d'improvviso ella pronunziò tre parole magiche, che lo rallegrarono tutto.
“Farò venir Sabina...”
E verrà Sabina, e verrà Sabina, continuò a ripetere Pietro fra sé, anche dopo l'invocata partenza di Maria.
Le mosche, gli insetti nascosti fra i pampini, il picchio che batteva il becco sul pioppo bianco del ruscello, l'usignolo che gorgheggiava sul noce, le foglie che sussurravano, ogni pietruzza che rotolava sulla china, ripetevano le due buone parole.
Solo nella serenità chiara del crepuscolo, il giovine servo sentiva il suo cuore palpitare di gioia. Tutto ciò che v'era di torbido nella sua anima ardente e scontrosa dileguavasi come la nebbia al sorgere del sole.
"Verrà Sabina."
Fra le macchie giallognole dorate dall'ultimo riflesso del tramonto appariva e spariva un ciuffo di capelli biondi... Versi appassionati d'antiche canzoni echeggiavano nelle lontananze azzurre, fra le rocce dove ancora vagano gli spiriti dei vecchi poeti selvaggi.
Quando alla luminosità cerula del crepuscolo si fusero i primi bagliori della luna nuova che declinava dietro gli olivi, e una scintilla brillò tra il pioppo e il noce, nell'acqua corrente, Pietro risalì verso la capanna, e si stese su un muricciuolo, con gli occhi perduti verso lo sfondo della montagna.
La brezza spirava così leggera che le foglie non avevano più un sussurro; solo un brivido silenzioso cangiava soavemente la tinta dei pampini e degli olivi, che il riflesso della luna spruzzava di perle. Un coro di grilli saliva dai cespugli; s'udiva il rumore uguale del ruscello, e un carro, lontano, roteava nello stradale bianco alla luna, sospeso quasi fra la valle e la montagna: e quei rumori vaghi, melanconici, sempre eguali, accrescevano il senso di silenzio e di solitudine dominante intorno al giovine servo. Egli gustava inconsapevolmente la dolcezza dell'ora. Il sonnolento benessere del riposo e del fresco, dopo una calda giornata di lavoro, gli copriva la persona come una coltre di velluto; qualche cosa di vaporoso, simile alla luce vaga del novilunio gli irrorava l'anima primitiva: erano sogni semplici di paesano, desideri d'uomo giovine, immagini di poeta contadino.
"Verrà Sabina." E il mondo dei sogni, dei desideri, delle immagini si allargava, si allargava in grandi cerchi crepuscolari; il presente si confondeva con l'avvenire, il bisogno ardente di baci impetuosi con la speranza di mangiare un giorno nello stesso canestro con la donnina bionda e buona massaia.
"Ella verrà", pensava il servo con un brivido di voluttà. "Se quell'altra indiavolata ci lascerà soli, io la prenderò e la bacerò così. come un pazzo. Ella ha la bocca fresca come una ciliegia..."
Il desiderio ardente si smorzava in un sogno positivo:
"Avremo una casetta, un carro, un paio di buoi: ella farà il pane, io andrò in qualche lavorazione per guadagnare di più...".
La luna sorrideva ai sogni di Pietro, come sorrideva ai sogni e buoni e rei di altri sognatori dispersi nei campi, simile a una regina che sorride a tutti senza veder nessuno.

L'indomani Maria non venne al podere. Pietro si inquietò alquanto, sebbene lo confortasse la speranza poco pietosa d'un accidente sopravvenuto alla giovine padrona: salì fino allo stradale e scrutò la lontananza. Passavano donne e fanciulli carichi di cestini di fichi d'India, carri colmi d'uva, paesani d'Oliena sui piccoli cavalli rassegnati: Maria non venne.
"Diavolo", pensò Pietro, ritornando alla vigna, "ecco, la prima volta che l'aspetto ella non viene. Vada al diavolo!"
Anche l'indomani, anima viva non turbò la solitudine del podere; ma a misura che le ore passavano, Pietro sentiva una inquietudine insolita. Verranno? Non verranno? Il sole varcò il centro del cielo, le ombre degli olivi cominciarono ad allungarsi. Ed ecco, il cane, legato sotto i peri dorati, cominciò ad abbaiare, ergendosi sulle zampe posteriori, coi piccoli occhi rossi rivolti allo stradale. Pietro indovinò, ancora prima di guardare.
Maria e Sabina, entrambe a cavallo, scendevano galoppando come due spiritate: fra un nembo di polvere grigia apparivano i loro visi rossi, illuminati dal sole del pomeriggio, e i cavalli lucenti di sudore che si sbattevano furiosamente la coda sui fianchi.
Giunte davanti al cancello smontarono, e scesero nella vigna tirandosi dietro i cavalli che allungavano il collo per strappare qualche foglia dagli alberi. Pietro non s'era mosso, nonostante il suo vivo desiderio di andare incontro alle fanciulle, ma il cuore gli batteva, e appena Maria varcò il limite della vigna egli si alzò e salutò.
“Ebbene, Pietro, che nuove?”, gridò Sabina, tirando forte la corda del cavallo. “Da quando non ci vediamo!”
Egli la guardò fisso e le sorrise.
“Da' qui”, disse, aiutandola a legare il cavallo ed a scaricar la bisaccia gonfia che conteneva due grandi cestini di canna, mentre Maria si arrabattava a legare l'altro cavallo, che aveva cacciato il muso entro un cespuglio e si scuoteva tutto.
Sabina era molto ben vestita, con un bustino di velluto rosso e la camicia bianchissima; il fazzoletto slegato lasciava scorgere il collo nudo, lungo e bianco, circondato da cordoncini di seta nera.
La sua bellezza delicata e pura non offuscava certo la voluttuosa bellezza di Maria; ma più che bella Sabina era graziosa, e la ciocca di capelli che le sfuggiva dal fazzoletto e le velava la fronte e talvolta anche gli occhi le dava un'aria infantile.
Come ella piaceva a Pietro! Gli occhi di lei, chiari e languidi, un po' socchiusi, lo affascinavano.
Legato il cavallo, ella sedette per terra e si levò le scarpe. Il servo la guardava con insistenza, ed ella se ne accorgeva con piacere; ma ad un tratto Maria, rossa e sudata, si volse e gridò sdegnosamente:
“Pietro, sei incantato? Potresti venire a legare questa bestia infernale che ti somiglia”.
Egli non rispose. S'avvicinò e legò il cavallo. Un'ombra gli aveva oscurato il viso.
Anche Maria si levò le scarpe e ricominciò a gridare, incitando il servo a sbrigarsi.
“Presto, presto, presto. Tu hai del tempo, Pietro Benu, ma noi abbiamo fretta. Presto, che il diavolo ti comandi.”
Allora egli s'arrampicò su una pianta, con un cestino al braccio, e cominciò a staccare le pere.
Le due cugine coglievano i frutti dai rami bassi, e ridevano fra loro, ammiccandosi e spingendosi. Qualche volta tendevano il grembiale già a metà colmo e Pietro lasciava cadere qualche pera meno matura che rimbalzava fra le altre.
“A me, ora.”
“No, a me.”
“Sempre a te”, disse Maria, tendendo il suo grembiale. “Pietro, a me, ora: attento! Ecco.”
“No, a me”, gridò Sabina, spingendo la cugina. “Su, quella là, vedi, quella pera che sembra d'oro.”
“Sì, a te; attenta, te la butto sul seno!”, egli rispose, sorridendo e fissando il viso sollevato di lei.
Infatti il bel frutto maturo le sfiorò il petto, balzò sul grembiale, ne fece cadere il contenuto.
“Ah”, gridò Sabina, infantilmente spaventata, mentre Maria curvavasi già a raccogliere le pere cadute per terra. “Maria, non sgridarmi!”
Col viso tra il fogliame d'oro Pietro rideva come un bambino. Un momento si fermò e guardò le due cugine che si bisticciavano.
“Tu mi hai spinto...”
“No, sei stata tu, tu che hai lasciato andar le cocche del grembiale.”
“Pietro, chi è stato?”, chiesero, sollevando entrambe il viso.
“Ebbene, sono stato io!”
Esse risero, e per la prima volta Pietro s'accorse delle fossette di Maria, e vide che vicino al viso ardente e al busto agile e colmo della cugina, Sabina appariva pallida e magra.
“Uno è fatto”, egli disse, scivolando agilmente dal pero. Giunto a terra salutò l'albero spoglio facendo un segno di addio. “All'anno venturo, se vivremo!”
Maria gli tolse il cestino dal braccio e s'allontanò alquanto per vuotare le pere nella bisaccia.
“Perché mi guardi così?”, domandò Sabina, incontrando lo sguardo di Pietro.
“Ho da dirti due parole”, egli rispose, abbracciando il tronco d'un altro pero.
Ella intese: ella sapeva già quali erano queste "due" grandi e misteriose parole. Da tempo le aspettava, e avrebbe voluto sentirle subito. Ma la cugina ritornava. Un fugace rossore colorì il viso pallido della giovine serva; i suoi occhi languidi brillarono, e la sua voce tremò di desiderio:
“Dimmele ora, Pietro...”.
“Un altro giorno”, egli disse, piano, accennando Maria con gli occhi.
“Verrai alla vendemmia, non è vero?”
Ella non rispose; ma a Pietro che s'arrampicava sul pero, pareva di salire verso il cielo. Sì, ella lo amava, poiché aveva arrossito e tremato. I loro occhi avevano parlato.
Da quel momento i due giovani non risero, non scherzarono, non parlarono più. Pietro coglieva le pere dai rami alti; le due cugine quelle dai rami bassi. Qualche pera cadeva da sé. Il sole attraversava il fogliame lucente, e i bei frutti, tiepidi e molli, profumavano l'aria d'intorno.
Invano Maria cercò di riaccender la conversazione: gli altri due tacevano. Sabina, ridiventata pallida, non osava più sollevare il volto e nascondeva tra le foglie del pero le mani tremanti; Pietro, con le gambe aperte e i piedi appoggiati su due rami, sentiva nel viso tutto il calore del sole pomeridiano, e i suoi occhi pareva riflettessero lo scintillio degli olivi ondeggianti sulla china.
Terminata la raccolta delle pere, egli caricò le bisacce colme sulla groppa dei cavalli, e le due cugine si rimisero le scarpe. Maria non si allontanò una sola volta; pareva lo facesse apposta. Al momento di partire disse:
“Vogliamo fare il giro del podere, cugina?”.
“Sicuro”, rispose Sabina.
“Vuoi girare anche tu, Pietro Benu?”, chiese allora Maria deridendo il giovine servo che si affannava intorno ai cavalli scalpitanti.
“Il diavolo vi raggiri”, egli rispose, indispettito.
Le ragazze si misero a ridere, e corsero via, giù per il piccolo sentiero soleggiato, spingendosi per le spalle.
Non seppe veramente perché, Pietro diventò triste. Seguiva con lo sguardo le due cugine e le vedeva scendere giù per il sentiero, correndo e ridendo. Poi esse scomparvero fra le macchie, riapparvero vicino al ruscello, coi loro corsetti colorati come fiori. Il riso sonoro di Maria si fondeva col rumorio dell'acqua corrente: Sabina, curva sulla piccola cascata sotto il noce, si lavò il viso e lo asciugò col lembo della sottana.
D'un tratto ella guardò in alto, lontano, verso il punto ov'era Pietro, e sollevò una mano: poi disse qualche cosa a Maria. Entrambe scoppiarono a ridere. "Sì", pensò Pietro, "devono parlare di me!" Sabina forse confidava alla ricca cugina la mezza dichiarazione d'amore ricevuta dal servo, ed entrambe ne ridevano. No, Sabina non l'amava; egli s'era scioccamente ingannato. Anche lei doveva essere ambiziosa come la cugina ricca, ed egli era povero, non aveva casa, non possedeva neppur un carro, un paio di buoi, un aratro.
E Maria, ora che sapeva il segreto del suo cuore, lo avrebbe continuamente deriso.
Quasi certo che le due ragazze si beffavano di lui, Pietro volse le spalle indispettito e s'allontanò.
“Addio”, gli disse Sabina, tirandosi dietro, su per la china, il cavallo carico.
Egli la guardò, ma non rispose. Ella si volse parecchie volte, e giunta sullo stradale s'affacciò sul paracarri. Poi le macchiette colorate delle due cugine, coi loro cavalli carichi, sparvero allo svolto dello stradale, nella luce rossa del tramonto che incendiava le rocce della montagna, e Pietro rimase solo nell'ombra della valle. Anche sull'anima sua era caduto un velo d'ombra.
"Ho fatto male a indispettirmi", pensava. "No, ella non rideva di me; ella mi vuol bene. Ma io son povero, e il povero è come l'ammalato; ogni piccolo urto lo fa soffrire. Basta, rimedierò. Ella verrà alla vendemmia; io la pregherò di venire con me, nel filare ove io coglierò l'uva. Andremo avanti, avanti, lontani dagli altri, e mentre io con la falciuola spiccherò i grappoli ed ella li raccoglierà, ci diremo tante cose. Poi io l'aiuterò a caricarsi il cestino sul capo, e ci guarderemo: forse potrò anche baciarla... Sì, Maria è più bella, ma Sabina è più buona."
"Ah, l'altra", pensò dopo un momento, rivedendo con un impulso di desiderio la figura voluttuosa della giovine padrona, "come è cattiva! Non ci ha lasciato soli un momento! Vorrei fosse qui, ora; la butterei per terra, la bacerei morsicandola. Ecco, vipera: tu non vuoi che gli altri si amino, tu non hai voluto che io baciassi tua cugina. Ecco, a te questi baci cattivi; a Sabina i baci buoni... Perché tu sei cattiva, e Sabina è buona."
“Ecco, qui, forse qui. Qui va bene”, disse poi a voce alta, fermandosi sotto una specie di pergolato, dietro una roccia in fondo alla vigna. "Qui potremo baciarci..."
L'immagine insidiosa di Maria era scomparsa; restava, dietro la roccia coperta di vite, la dolce figurina della serva bionda, col cestino dell'uva sul capo.
Ma intanto nella vigna erano scese molte cutrettole dalla coda fremente, e piluccavano l'uva prima di andarsene a dormire nei loro nidi di foglie. E Pietro dovette svegliarsi dal suo sogno amoroso per correre verso la vigna, battendo le mani e fischiando. Lo stormo delle cutrettole si sollevò, rumoroso e allegro, sperdendosi nell'aria pura del primo crepuscolo: la brezza trasportava giù, fino ai piedi di Pietro, le foglie cadute dai peri.



III.


Ma il giorno della vendemmia Sabina non scese alla vigna.
“E tua cugina, perché non è venuta?”, chiese Pietro a Maria.
La giovine padrona lo guardò con gli occhi maliziosamente socchiusi, e scosse la testa.
“Il padrone non glielo ha permesso.”
Poi Maria salì alla capanna per cuocere i maccheroni: a mezza china si fermò con una piccola ragazza dal visetto roseo, chiamata Rosa spinosa, e Pietro le vide entrambe ridere e accennare verso di lui. Una tristezza rabbiosa lo assalì come una febbre maligna: per tutta la giornata egli tacque o pronunziò solo qualche parola sgarbata. Passando vicino alla roccia, dove aveva sognato di baciare Sabina, stringeva i pugni e sputava.
Sì, le donne lo deridevano. Perché? perché era povero. Ebbene, egli si rideva delle donne, ecco!
“O lavori, o do una pedata a te e al tuo cestino”, disse rozzamente a Rosa spinosa, che gli andava dietro scherzando e non raccoglieva i grappoli spiccati da lui.
Ella si offese, si allontanò, e dal fondo della vigna cominciò a gridare:
“Eccolo là, il puledro che dà i calci; se sei di malumore, oggi, ebbene appiccati a quel fico come Giuda. Lo vuoi il legaccio della mia scarpa, di', tu, occhi di gatto selvatico?”.
Egli non rispose, curvo, intento a spiccare i grappoli con la sua falciuola.
Gli altri vendemmiatori erano tutti allegri; i giovinotti pizzicavano le ragazze ed esse ridevano e strillavano, agili e dritte, coi cestini colmi d'uva violacea sul cercine che incoronava le loro graziose teste di arabe provocanti. Qualcosa di pagano era in quella semplice festa campestre: un'aria di gioia e di voluttà avvolgeva i bei contadini sani che parlavano come sentivano, e le vendemmiatrici che avevano solo la coscienza di quel giorno di sole, della dolcezza dell'uva matura, del contatto coi maschi desiderosi. Solo Pietro taceva, scontento, lontano. E nessuno si curava di lui.
Due giovinotti presero a cantare, senza smettere il lavoro, improvvisando una gara estemporanea sulla bellezza delle fanciulle presenti: ma più tardi la gara degenerò in un battibecco personale; dai versi si venne alla prosa, e verso il tramonto i due poeti rivali si azzuffarono. Solo allora Pietro sorrise, ma d'un sorriso quasi feroce; poi aggiogò i buoi ad un carro colmo d'uva, slegò il cane, prese il pungolo.
Una colonna di nebbia bianca saliva dietro la montagna, sopra i boschi di Monte Bidde, e un vago umidore errava nell'aria profumata dell'aspro odore dei pampini. L'estremo autunno s'avanzava, annebbiando l'orizzonte e tingendo di violetto il tramonto melanconico.
Varcando il rozzo cancello di rami che dava sullo stradale, Pietro non degnò neppure d'un ultimo sguardo la vigna spogliata, la capanna deserta, dove aveva trascorso tanti giorni sereni e fantasticato tanti sogni umili e ardenti. Si sentiva triste, irritato; mai come in quel giorno aveva sentito tutta la desolazione della sua povertà e del suo abbandono. Oramai era convinto che Sabina non lo amava: altrimenti sarebbe venuta. Le altre donne, per il momento, gli riuscivano odiose; gli sembravano tutte civette, fatue, o sensuali e cattive. Nessuno gli voleva bene; nessuno gliene aveva mai voluto. Non aveva una sorella, una parente giovine con la quale volersi bene e confortarsi a vicenda. Niente; solo quei due vecchi stracci di zie curve sotto il peso d'una vita di miseria: due piccoli fantasmi senza voce.
Egli si sentiva solo nel mondo, e gli pareva che tutti i suoi affetti rientrati, ammucchiati sul suo cuore, marcissero come frutti che nessuno aveva voluto cogliere.
Quella sera lo stradale era animato più del solito; carri carichi lo attraversavano, lenti e gravi, seguiti o guidati dal conduttore che trascinava il pungolo sulla polvere e cantava canzoni popolari.
Rosa ses pelegrina in sa Sardigna...
Gruppi di contadini e di paesane tornavano chiacchierando dalle vendemmie, qualche vecchio a cavallo si disegnava sul fondo grigiastro della montagna, nella vaga nebbia del crepuscolo.
Nell'aria sentivasi sempre più l'odore dei pampini, del mosto, dell'erba umida; l'uva sui carri aveva vaghi riflessi violacei; le ruote tracciavano solchi profondi sulla polvere bianca dello stradale; qualche fuoco brillava già nella valle, qualche tintinnio di capra smarrita vibrava al di sopra delle rocce, fra i burroni che dominano il ponte di Caparedda. E le voci dei guidatori risuonavano sempre più sonore, fra il roteare monotono e sordo dei carri pesanti.
Pietro solo non cantava, istintivamente assorto in quella triste calma di crepuscolo autunnale: vedeva il solco dei carri che lo precedevano, respirava l'aria umida, sentiva le voci melanconiche della valle, e la sua anima s'oscurava sempre più come il cielo e le cose intorno.
E, al solito, nessuno si curava di lui: solo Malafede, il lungo cane nero e scarno dalle reni tremanti e la fronte segnata da una macchia bianca, lo accompagnava, serio, con la coda e le orecchie pendenti. Il cane seguiva il segno lasciato sulla polvere dal pungolo che Pietro si trascinava dietro; ma ogni tanto guardava il giovine servo coi piccoli occhi rossi, dimenava la coda e sbadigliava con un piccolo guaito.
“Che vuoi?”, gli chiese Pietro, arrivati che furono a metà strada. “Hai fame? Anch'io. Mangeremo appena saremo arrivati. E domani, via ancora! Intanto, andiamo: sta buono.”
Il cane guaì più forte, sollevò le orecchie, un po' confortato.
Non era la prima volta che servo e cane discorrevano, ciascuno a modo suo, e s'intendevano. Spesso Pietro gli diceva:
“Che differenza c'è fra me e te? Nessuna. Soltanto, io sono un cane che parla”.
Quella sera, poi, egli aggiunse, fra sé:
"Arrivare, mangiare, ripartire, guardare la roba altrui; io e Malafede siamo nati per questo. Nessuno pretende altro da noi. Chi ci vuol bene? Nessuno. Se Malafede ha un'avventura amorosa, un momento dopo non se ne ricorda più; s'io vado dalla moglie del bettoliere toscano, il giorno dopo incontrandola non la guardo neanche in faccia, ed ella fa altrettanto. Cane e servo, servo e cane: è lo stesso".
D'un tratto, vicino alla fonte sotto lo stradale, Rosa spinosa prese un ciottolo e lo lanciò sulla schiena del cane.
Malafede abbaiò dolorosamente, si mise a correre in avanti poi si fermò e tentò di leccarsi la ferita.
Pietro si fermò, si volse, cogli occhi lucenti d'ira.
“Chi è stato?”, gridò.
“Io”, rispose la ragazza, spavalda.
“Ah, tu. Sciocca! prova ad avvicinarti e t'aggiusterò io la testa; ti farò schizzar l'acqua dal cervello.”
Ella gli si avvicinò sfidandolo.
“Prova!”
Egli strinse il pungolo in mano; poi scosse la testa col suo gesto sprezzante.
“Non è niente!”, disse allora la ragazza. “Facciamo pace. Cos'hai, Pietro Benu? Hai mangiato delle cavallette, oggi? Tè, Malavì; tè Malavì!”
Il cane ritornò, correndo, e Rosa cercò di accarezzarlo.
“Accidenti, servo e cane, siete poco superbi! Ecco che Malafede mi abbaia sul viso. Lo so, sì, che cosa hai, Pietro Benu; so a che pensi.
Me lo ha detto Maria.”
“Che sai tu? Che può averti detto quella?” egli mormorò con disprezzo.
Allora, eccitata e perfida, la ragazza gli disse:
“Maria mi ha detto che sei di cattivo umore perché Sabina non è venuta. Ma Sabina si beffa di te: è innamorata cotta d'un giovine meno miserabile e selvatico di te... Ella mi ha consigliato di dirtelo, e di molestarti e provocarti...”.
“Chi, Sabina?”
“No. Maria.”
“Al diavolo chi l'ha fatta venire sulla terra!”
“No, non imprecare, Pietro Benu. Maria è gelosa di Sabina.”
“Per cosa?”
“Per te, stupido!”
Egli rise, come aveva riso nel partire dalla vigna, quando i due cantori estemporanei si erano azzuffati. E gli parve di non credere alle malignità della piccola paesana.
Questo fu il seme.

La sera cadeva, sempre più vaporosa e melanconica. Ecco le prime case di Nuoro, sopra gli orti erbosi; ecco, fra due muri alti, il viottolo ripido e sporco, dove Pietro doveva passare.
I buoi avanzavano, prudenti e gravi nella loro stanchezza taciturna; un gruppo di monelli seminudi si gettò sul carro tremolante.
“Da' qui un grappolo, da' un piccolo grappolo!”
“Va via, va via”, urlò Pietro, destandosi dal suo sogno.
I ragazzetti si arrampicavano sul carro come scarafaggi.
“Andate via o vi pungo”, gridò Pietro, feroce, agitando il pungolo.
Malafede abbaiò; i monelli si ritrassero verso il muro, urlando e ridendo.
Una stella brillava sull'alto del viottolo, sopra le povere case velate dalla vaporosità della sera. Pietro ricadde nei suoi pensieri. No, egli non credeva alle malignità della gente, e soprattutto alle chiacchiere delle donne: eppure... Era assurdo che Maria... basta, neanche bisognava pensarci!... Il suo sogno tormentoso lo riconduceva sempre a Sabina. Ella sola poteva aver divulgato il segreto del suo cuore, quel segreto che egli non osava quasi neppure confidare a se stesso.
Sciocca, cento volte sciocca! Ah, ella aveva un altro amante? Ebbene, andassero al diavolo tutt'e due! Egli non voleva pensarci più. Eppure... Una figura di donna, svelta e sottile, in maniche di camicia, passava sull'alto del viottolo. Era lei? Ah, vederla, gridarle un'insolenza, un vituperio; chiudere così il breve sogno nato nell'aia, morto nella vigna! Ma non era lei. Era la moglie del bettoliere toscano, che passava di là per caso.
“Oh, Pietro Benu, sei tu? Mi dai un grappolo d'uva?”
“Ma dieci, cuore mio. Prendine, prendine ancora. Fa presto; c'è là dietro la mia padrona giovine. Dove posso vederti, Franzischedda?”
“Io sono una donna maritata, ora”, disse la donna; e mentre riempiva il grembiale di grappoli guardava Pietro coi grandi occhi neri cerchiati. Pieni di un ardente languore.
“Verrò da te, stasera”, egli insisté con voce ardente. “Prendi ancora, prendi: ti darei tutto, il carro, l'uva, il mio cuore...”
“Sta zitto; c'è là zio Nicola che t'aspetta, nella piazza del Rosario.”
Pietro spinse i buoi; la donna scomparve.
Ecco infatti avanzarsi zio Nicola, col suo bastone, il suo berrettone, il barbone rossastro di fiera addomesticata.
“Salute, Pietro Benu; stanotte canteremo un po' di strofe improvvisate”, disse, guardando l'uva del carro.
“Perché non siete venuto?”
“La mia gamba non lo ha permesso, figlio caro.”
“Ah, anche voi siete servo della vostra gamba”, disse Pietro con ironia.
Zio Nicola volse il suo barbone rosso verso il giovine e sollevò il bastone.
“Ah, tu ridi di me, giovinotto? Perché sono un povero diavolo, mi deridi? Se fossi stato un ricco padrone...”
“Ma voi siete ricco, padrone mio!”
“Padrone, padrone! Bisogna vedere chi è il padrone, fra me e te...”
Intanto erano giunti. Il cane, andato avanti, raschiava il portone con le unghie e guaiva allegramente.
Zia Luisa aprì.
“Eccovi finalmente”, disse, gettandosi indietro sull'omero il lembo della benda. “E Maria dov'è?”
“È rimasta indietro con le vendemmiatrici.”
“Poca roba!”, disse zia Luisa, guardando con degnazione il carro dell'uva, mentre Pietro slegava i buoi. “Poca roba. Meno male che non abbiamo bisogno di questa miseria per vivere!”

Svegliandosi, dopo un breve sonno pesante, sulla stuoia della cucina dei Noina, Pietro provò una sensazione dolorosa, come se un masso gli premesse il cuore. Era avvezzo a svegliarsi pensando a due occhi dolci velati da un ciuffo di capelli biondi; ora la buona visione non tornava, non sarebbe tornata più. E invece della luminosità dell'aurora nella valle, lo circondava l'oscurità silenziosa della cucina; appena un chiarore biancastro irradiava la tegola di vetro infissa nel tetto ad uso di finestrino.
Ma ecco un rumore di passi nel cortile silenzioso. Chi è? Zia Luisa che s'alza all'alba, perché di buon'ora si deve alzare la massaia benestante?
La porta fu spinta lievemente, s'aprì, lasciò scorgere lo sfondo grigio del cortile.
Maria entrò, scalza, agile e silenziosa.
Pietro finse di dormire ancora, ma ogni tanto apriva un po' un occhio e seguiva con curiosità i movimenti della giovine padrona. Ella aprì lo sportello della porta e la luce sempre più nitida dell'alba invase la cucina. Poi Maria si tolse il fazzoletto, si lavò, e a testa nuda, con le maniche della camicia rimboccate fino ai gomiti, preparò il caffè. Mentre la caffettiera sussultava forte sui carboni accesi, ella macinò il caffè, e solo allora parve accorgersi di Pietro. Egli intravide i begli occhi di lei, un po' socchiusi e ancora sonnolenti, fissarlo a lungo, e provò un indefinibile senso di benessere. A poco a poco questo vago piacere si fece intenso, ardente, diventò fascino, desiderio. Pietro sentì il sangue animarsi nelle sue vene, caldo e palpitante; ma appena ebbe coscienza del suo desiderio se ne vergognò, arrossì e chiuse le palpebre.
Per alcuni istanti non udì che il rumore monotono del macinino da caffè, e gli parve un rombo risuonante entro il suo cervello.
Maria gelosa della cugina povera? Ebbene, perché no? Questo segreto, che la sera prima, nel crepuscolo, nella stanchezza, nel rancore, gli era parso assurdo, ora lo inebbriava come un liquore amaro. Nel suo desiderio c'era ancora un po' d'odio; un impeto di ribellione, una segreta smania di vendetta; meno feroce del primo assalto di desiderio provato il giorno della raccolta delle pere, ma sempre un po' crudele.
"Ella è ricca, è ambiziosa", pensava egli, ad occhi chiusi, "non vorrebbe certo sposarmi, ma amarmi perché no? Son bello io; sono forte, io. Sì, mi ricordo, un giorno, laggiù nella vigna, la sorpresi a guardarmi le labbra. Ella non deve aver mai baciato un uomo. Ed ora, anche ora mi guarda. Se mi alzassi e la baciassi?"
Maria continuava a macinare lentamente il caffè; la caffettiera brontolava, i carboni accesi scoppiettavano scherzosi. D'un tratto ella si alzò e si avvicinò al finestruolo; Pietro aprì gli occhi e la guardò, ma non osò balzare in piedi e correre a baciarla.
Nella luce sempre più rosea del finestrino, i capelli di lei sembravano più neri e lucenti del solito, e il busto flessuoso e pieno si disegnava provocante nel corsetto slacciato. Pietro l'accarezzò tutta con lo sguardo, ma si vergognò ancora del suo desiderio e dei suoi pensieri. Ah, no; una distanza immensa lo separava da lei; egli era un pezzente, un immondo servo, uno che la notte strisciava lungo i muri per arrivare al convegno con la moglie impura di un bettoliere; Maria era bella e pura, doveva essere anche buona, era il frutto squisito serbato per la bocca d'un uomo ricco e distinto.
“Ti sei svegliato? Stavo per chiamarti. Alzati, Pietro: c'è tanto da fare.”
La voce era calma, le parole ordinavano. Egli si svegliò completamente dal suo pazzo sogno, anzi le orecchie gli diventarono scarlatte per la vergogna.
Balzò in piedi, ripiegò la stuoia e fattone un grosso rotolo lo sollevò e lo appoggiò alla parete; poi uscì nel cortile per lavarsi con l'acqua del pozzo, mentre Maria batteva la mano sul macinino per scuoterne il caffè che vuotava entro la caffettiera bollente.

Il sole era appena spuntato, che già il lavoro ferveva nel cortile e nella cantina. Si pigiava l'uva, e la fatica più grave toccava appunto al giovine servo.
Sotto la tettoia, sopra il grosso tinaccio nero, stava il pigiatoio, entro il quale Pietro, nude le gambe e le braccia, la testa rasente alle trave del tetto e una mano appoggiata al muro, pestava vigorosamente l'uva. Due donne salivano su per una scaletta a piuoli fissata davanti al tinaccio, e vuotavano entro il pigiatoio i cestini dell'uva scelta. Le chiazze violacee del mosto macchiavano le vesti e il viso un po' pallido di Pietro; anche i suoi occhi parevano cerchiati dal succo dell'uva. Ma egli sembrava allegro; rideva e gridava, e ogni tanto si curvava per veder meglio nel cortile.
Intorno al carro colmo d'uva due ragazze e un giovinetto, aiutati un po' da zio Nicola, pulivano i grappoli e li gettavano nei cestini di canna che le donne si caricavano sul capo e vuotavano nel pigiatoio sui piedi saltellanti di Pietro.
Come il giorno prima nella vigna, uomini e donne parlavano e ridevano gaiamente. Zio Nicola pareva il più spensierato di tutti.
Il sole invadeva lentamente il cortile; l'odore del mosto richiamava rumorosi sciami di mosche e di api.
Di tanto in tanto zio Nicola pizzicava la sua vicina, con la scusa di scacciare le api che la molestavano: la fanciulla imprecava, minacciava di chiamare zia Luisa, e poi rideva.
“Vecchio vizioso, vi possa toccare il fuoco; lasciatemi tranquilla...”
“Ah, tu non avresti parlato così se invece di un vecchio fossi stato un giovine, anche vizioso; ma vedi, ecco un'ape che ti punge il collo...”
“Lasciatela pungere, barba di caprone... Vuol dire che trova del miele.”
“Come, dall'ape ti lasci pungere e da me non ti lasci toccare... perché sono sciancato? Altrimenti... Vedi la tua compagna come è più docile!...”
“Ah, vecchio barbuto, chiamo vostra moglie...”, strillava l'altra ragazza, verso la quale zio Nicola aveva steso la mano.
“Uva, qui!”, gridava Pietro, curvandosi sul pigiatoio. “Padrone, così incitate a lavorare? E cosa fa la padrona?”
“Che vuoi? Neppure lei sa cosa farsene di me!”, sospirava il padrone.
Invece di zia Luisa ogni tanto veniva fuori Maria, con un fazzolettino giallo sul capo. La sua camicia e il suo corsetto verde smagliavano al sole e richiamavano lo sguardo di Pietro. Egli guardava il bel viso di lei, le labbra lucenti aperte al riso, e una fiamma fugace gli attraversava la fronte.
Ma se qualche volta ella, inquieta per il disordine del cortile, e per le mosche che penetravano anche nella cucina, si avvicinava al tinaccio e al carro e sollecitava l'opera, Pietro le parlava beffardo.
“Presto, presto: son già le dieci; se a mezzogiorno non è tutto finito m'appicco...”
“Appiccicati pure, ma non tanto in alto, che non si vedano le gambe...”
Una volta ella salì la scaletta e guardò entro il tinaccio; poi sollevò gli occhi e guardò tranquillamente le gambe bianche e muscolose di Pietro. Anch'egli la guardava dall'alto, e mentre le diceva con voce sospettosa:
“No, non sono di ferro le mie gambe: quando ho finito ho finito”, sentiva una strana gioia sollevargli il cuore.
Perché? Che aveva in sé la giovane padrona, quel giorno, perché al solo vederla egli si rallegrasse tutto come dopo aver bevuto un bicchiere di vino d'Oliena?

In cucina zia Luisa, col corsetto allacciato e la benda intorno al viso impassibile, preparava il desinare per i lavoratori: carne di pecora con patate.
In una pentolina a parte bolliva la carne di bue per zio Nicola.
"Povero Nicola", pensava zia Luisa che era stata sempre una donna gelosa, "bisogna trattarlo bene, ora che è così infelice. Gli piacciono le donne, beve un po' troppo, dopo la sua disgrazia, ma in fondo è un buon uomo. Bisogna compatirlo: anch'io sembro una donna superba, ma in fondo sono buona. Soltanto... penso sia bene imporsi al mondo; altrimenti il mondo ci calpesta."
"Sì", continuò a pensare rimescolando le patate nel tegame, "imponenti bisogna essere. Imponenti! Ché siamo forse nati tutti eguali? No, ciascuno al suo posto; da una parte i ricchi, dall'altra i poveri. Far del bene, sì, questo lo approvo, ma non umiliarsi, non abbassarsi. Il povero Nicola, invece, si umilia troppo. Ma anche lui non è nato ricco; ah, è una triste cosa non nascer ricchi, da razza potente; si rimane sempre umili. Anche la mia Maria ha ereditato un po' del padre; non sente tutto il decoro della sua posizione; ma è tanto giovine, eppoi è anche furba. Ah, ella farà certo un buon matrimonio. Eppoi è così istruita! Tiene i conti e i registri come un notaio; ella ne sa quanto un avvocato. Senza di lei come avremmo fatto io e suo padre, che non sappiamo leggere né scrivere? Ah, sì", concludeva sempre zia Luisa Noina, "ella sposerà un uomo ricco, magari un laureato, ma un laureato ricco, non uno di quelli che cercano un appoggio nella famiglia della sposa."
A mezzogiorno la pigiatura era finita; il desinare pronto. Maria mise per terra, nel mezzo della cucina, un canestro colmo di pane di frumento, e intorno al canestro depose dei piatti concavi, di creta rossa, entro i quali zia Luisa aveva distribuito le patate e la carne di pecora. Poi la giovine padrona chiamò le ragazze, che si lavavano con l'acqua del pozzo. Anche zio Nicola s'avvicinò zoppicando alla bejone, vuotò l'acqua sporca, ne versò una secchia di pulita e si lavò: poi, col barbone stillante entrò in cucina, s'asciugò, e sedette al suo posto distinto, vicino al tavolo. Gli altri mangiavano già, avidamente, seduti per terra intorno al canestro, coi volti rosei e lieti velati dal fumo delle vivande.
“Buon appetito”, disse il padrone, allungando la sua gamba. “Moglie mia, cos'è questo brodino che m'hai preparato? Almeno oggi che ho lavorato dammi da mangiare quello che mangiano gli altri: dammi un po' di quella carne di pecora. Sì, sì: è di pecora, figliuoli miei; credevate fosse di vitella?”
Maria gli porse il piatto desiderato.
“Avete dei buoni denti, figliuoli miei, ché potete masticare questa roba qui; la carne del diavolo non può esser più dura... basta, in casa del tale”, egli nominò una persona ricca, “vi daranno da mangiare meglio...”
“O peggio”, rispose zia Luisa, che neppure per mangiare s'era slacciata il corsetto. “Finiscila, chiacchierone.”
Appena si furono alquanto sfamati, i giovani ripresero a scherzare.
“Zia Luisa, me li prestate cento scudi?”, diceva il giovinotto.
“Se ti procuri una buona garanzia”, rispose la vecchia padrona, proseguendo lo scherzo, ma senza scomporsi.
“Eccola qui!”, disse il giovine, battendo la mano sulla spalla d'una delle ragazze, poverissima.
Tutti risero.
“Eppoi, se non vi basta, vi porterò in pegno tutti i gioielli della mia famiglia e le posate d'argento”, egli riprese, beffandosi della sua povertà.
“La salute è il più bel gioiello, con quel pegno lì tu puoi trovare non cento, ma mille scudi”, sentenziò zio Nicola, dall'alto della sua sedia: la sua figura quasi maestosa, dal barbone ieratico, dominava il quadro.
Maria, però, era diventata nervosa.
“Certo”, disse con ironia, “meglio sani e ricchi che poveri e malati.”
“Versa da bere”, le ordinò sua madre.
Ella si alzò e versò da bere a Pietro.
“Che hai, che sei di malumore?”, egli le domandò, guardandola negli occhi.
E anche lei lo guardò, e gli rispose con la sua solita ironia:
“Quando sono sazia mi assale il malumore...”.
“Figuriamoci allora quando hai fame; ma già, tu non sai che cosa sia la fame”, egli aggiunse; e bevette, poi versò lontano alcune gocce rimaste in fondo al bicchiere. Ricordava la fame sofferta durante la sua selvaggia infanzia.
Quel giorno non si faceva economia di vino, e parecchie volte Maria passò con la caraffa in mano e si curvò per versare il vino nel bicchiere del servo. Egli beveva e diventava allegro, ma d'un'allegria cattiva. L'immagine di Sabina, che durante tutte quelle ore di lavoro e di chiacchiere egli aveva allontanato da sé, gli risorgeva davanti, bionda, traditrice, beffarda.
Ah, ella aveva riso di lui; anch'egli voleva ridersi di lei, di Maria, di tutte le donne. Ebbene, e se riusciva a far credere a Maria di essersi innamorato stoltamente di lei?
No, ella non lo avrebbe scacciato, era troppo furba per commettere un simile errore: non si scaccia un servo innamorato che domanda solo d'essere compatito. Tutto al più la giovine padrona avrebbe profittato di lui e della sua sciocca passione per farsi servire meglio. Ed egli, dal canto suo, avrebbe profittato della benevolenza e della furberia di lei.
E avrebbe riso. Le donne si beffavano di lui; egli voleva ridersi delle donne.
Ma d'un tratto diventò taciturno e cupo. Curvò la testa, poi la rialzò vivacemente, sollevò ancora il bicchiere.
Maria avvicinò la caraffa.
“Ma io ho sofferto la fame”, egli disse, incoscientemente, già mezzo ubriaco, cercando ancora gli occhi di lei. Ma ella non lo guardò più.
Da quel momento egli perdette la coscienza di ciò che avveniva in lui: solo si accorgeva di seguire con gli occhi ogni movenza di Maria, e aveva paura che i padroni si accorgessero del fuoco di desiderio che gli ardeva nel sangue; ma non poteva staccare lo sguardo dalla persona di lei.
Ebbe però l'accortezza di lasciare i compagni e sdraiarsi in un angolo del cortile, non lontano dalla porta della cucina. Il vino e il calore del meriggio gli davano una specie di febbre; il ronzio delle mosche e delle api si fondeva col ronzio interno della sua testa in fiamme.
Così egli vide il giovinotto e le ragazze andarsene e i padroni ritirarsi per far la siesta nella loro camera. Maria rimase in cucina. Attraverso il suo dormiveglia da ebbro, Pietro udiva la giovine padrona andare e venire, rimettere in ordine la cucina, macinare il caffè. E gli pareva di seguire ancora con lo sguardo l'alta e attraente persona di lei.
Egli aveva bisogno di amare una donna, e ora che il suo amor proprio ferito respingeva la figura mite della povera serva, ora il suo desiderio lo spingeva verso la ricca padrona. Ma v'era qualche cosa di amaro e di vendicativo in questo desiderio.
"Io riderò... riderò...", pensava, addormentandosi.



IV.


Per due settimane egli rimase in paese, aiutando zio Nicola a rimettere il vino nelle botti, o lavorando in un orto vicino; poi salì sulla montagna e fece la provvista delle legna per l'inverno.
In quelle lunghe ore di solitudine, nell'orto solitario o sui boschi dell'Orthobene, egli pensava sempre alla giovine padrona. Gli pareva di non esserne innamorato, ma sebbene Maria gli piacesse immensamente, pensando a lei non osava più accarezzare i desideri stolti, gli sciocchi propositi di vendetta amorosa, che lo avevano qualche volta assalito.
Maria non era donna da invitare gli uomini allo scherzo amoroso: Pietro arrossiva ricordando d'essersi per un attimo illuso sulle intenzioni di lei a suo riguardo, e divertito all'idea di piacerle.
Ora egli la vedeva sempre nel suo alto posto di padrona benestante e dignitosa: lo sguardo di lei, acuto e luminoso, tagliava come una lama.
Anche nelle più umili faccende, o ridesse o si mostrasse insolitamente seria, ella era sempre una creatura d'una razza boriosa e superba. Ma al servo piaceva appunto così. Qualche volta egli pensava ancora all'altra, alla cugina povera, e desiderava rivederla e venire con lei ad una spiegazione; ma a poco a poco anche questo desiderio dispettoso svanì. Per due settimane il cuore di Pietro tacque, ma assopito e gonfio come la terra durante il periodo invernale.
Qualche sera il padrone si tratteneva a lungo nella cucina ove già il fuoco ardeva, e invitava Pietro a bere e cantare. Se le donne non vigilavano, padrone e servo bevevano oltre misura, e zio Nicola narrava, in versi estemporanei, gli episodi più caratteristici della sua vita. Anch'egli era stato povero, aveva girovagato in cerca di fortuna, aveva amato e sognato.
“Povero o ricco, sempre allegro però; Zente allegra il ziel l'aiuta”, diceva in italiano. “Una volta avevo le scarpe rotte; e pensai: appena incontro un proprietario, mi levo una scarpa e gliela sbatto sul muso. Indovina chi ho incontrato!”
“Il padre di zia Luisa!”, disse Pietro, beffardo.
Il padrone lo guardò con occhi brillanti.
“Sei il diavolo tu? Come hai fatto a indovinare?”, gridò, battendo lievemente il bastone sulle spalle del servo.
“Ma è davvero?”, chiese Pietro meravigliato.
“Sicuro; è vero. Verissimo come è vero Dio.”
“E la scarpa gliela avete scaraventata sul muso?”
“Ah, ah, ah, come sei furbo!”
Pietro non riuscì mai a sapere se zio Nicola avesse o no lanciato la sua scarpa sul muso di qualche ricco proprietario. Del resto il padrone si vantava sempre di atti più o meno eroici da lui compiuti durante la sua giovinezza, ed esagerava le sue avventure amorose; una volta lasciò capire di aver sposato zia Luisa senza amore, soltanto per fare un buon matrimonio.
“Lei però era innamorata, oh, sì, come è vero Dio. Io ero povero, sì, ma ero un bel giovine. Non faccio per vantarmi.”
“Eh, si vede ancora!”, lo adulava Pietro.
“Bellezza è metà dote, ragazzo mio...”
Questi discorsi esaltavano Pietro.
"Se non ci fosse quel nibbio ingordo di zia Luisa...", egli pensava.
E il vino, il tepore del fuoco, il benessere della cucina, sulle cui pareti le innumerevoli casseruole di rame luccicavano e ricordavano al servo la ricchezza dei padroni, destavano in lui un'ebbrezza d'amore e di ambizione.
"Ah, sì, bella cosa esser benestanti, con una moglie piacente e giovine: sposarsi senz'amore, no, ma sposarsi bene, avere l'amore e la roba, questa è davvero la felicità."
"Chi sposerà Maria?", egli pensava sovente. "Il tale, o il tale? Forse un signore, un laureato, forse un paesano ricco. Non un povero, certo, e tanto meno un servo! Per ora ella non ama nessuno."
Questo pensiero lo rallegrava tutto. Poi, qualche volta, si sorprendeva a pensare che dopo tutto egli, sebbene servo, apparteneva ad una famiglia di razza per lo meno non straniera, non girovaga come la razza di zio Nicola.
"Se avessi un piccolo capitale!", desiderava. "Non so leggere né scrivere, ma il senso pratico ce l'ho. Se ne son visti tanti che han fatto fortuna! Ma no", pensava poi. "Quelli che han fatto fortuna hanno rubato, oppure hanno, come zio Nicola, sposato una donna benestante. Anch'io potrei sposarla..."
Ma diceva a se stesso che questa "donna benestante" non sarebbe mai stata Maria Noina, e delle altre poco gli importava. E dopo aver scrollato la testa col suo solito gesto sprezzante, s'allungava sulla stuoia e si coricava, col berretto ripiegato sotto l'orecchio.

Così venne il tempo dell'aratura e della seminagione del grano.
Il terreno che Pietro doveva dissodare e seminare era assai lontano dal paese, al di là della vallata di Marreri, quasi vicino a Lollovi, miserabile gruppo di case perduto fra i monti e gli altipiani più deserti e melanconici del Nuorese.
Il giovine servo doveva passare lassù tutto il tempo della seminagione, solo coi buoi e col cane. Ma la solitudine non gli dispiaceva; egli vi era abituato, e d'altronde, in quei giorni, un oscuro istinto lo spingeva a desiderare la lontananza da quella casa tiepida, ove la sua fibra si rammolliva e la sua anima si perdeva dietro sogni insidiosi.
Prima di partire andò nella bettola del toscano, anche con la speranza di trovarvi la moglie, la facile Francesca. Ma nella bettola c'era solo il toscano, tranquillo, curioso e maldicente.
“Come va, Pietro?”
“Bene. Dammi da bere.”
“Accidenti, come sei assetato. Eppure i tuoi padroni del vino ne hanno.”
“Lascia stare in pace i miei padroni.”
“Oh, oh; non difenderli così. Credi tu che loro non parlino male di te?”
“Se parlano male, lasciali parlare. Dov'è tua moglie?”
“La è andata a lavare. Eh, so perché la vuoi”, disse l'altro, ammiccando coi suoi occhi infantili. “L'hai incaricata di cercarti moglie, dopo che Sabina ti ha dato corcofica (2).”
“Oh, va al diavolo”, disse Pietro, ridendo sinceramente all'idea che il toscano avesse tanta stima di Francesca da ritenerla degna di cercar moglie ad un giovine onesto.
“Sì, lo so; tu vuoi sposare una donna ricca. L'ha detto zio Nicola, l'altra sera, mentre era ubriaco fracido.”
“Ah, sì, ha detto questo?”, esclamò Pietro, sollevando la testa. “E poi?”
“E poi... niente! Perché non sposi la Maria?”
“Ah, tu ti beffi di me? Io non verrò mai più a bere qui, piccolo forestiere”, disse Pietro con disprezzo, alzandosi.
Ma, non seppe perché, sentì un'improvvisa gioia per lo scherzo del bettoliere.
Rientrò a casa e aggiogò i buoi; zia Luisa mise sul carro, oltre le sementi, una buona provvista di pane d'orzo, formaggio, olio, patate; e Maria una grossa zucca piena di vino rosso e un sacco perché Pietro si coprisse bene nelle notti fredde dell'altipiano ventoso.
“E un crocifisso non glielo date? E un rosario?”, chiese zio Nicola, ridendo sguaiatamente.
“Di fichi secchi?”
Zia Luisa strinse la bocca, perché non amava si scherzasse sulle sante cose, e Maria spalancò il portone.
“Bada, va a messa a Lollovi, ma non innamorarti di qualche bella lollovese...”
In altri tempi Pietro si sarebbe un po' piccato per questo scherzo, perché le donne di Lollovi sono le più misere del circondario; ora quasi si commosse e non osò guardare Maria.
Il padrone lo accompagnò per un tratto di strada, zoppicando più del solito. Era una giornata umidiccia, e la gamba di zio Nicola se ne risentiva.
“Ah, Pietro, Pietro, che bella cosa la salute, che bella cosa la gioventù! Non sciupartele, sai; tienile bene, come si tiene una moneta dentro la cintura. Va, buon viaggio. Se hai bisogno di qualche cosa, mandalo a dire per qualche viandante. Tieni le sementi in luogo ben asciutto e semina al più presto possibile. Addio.”
"Come è buono quell'uomo!", pensava Pietro.
Gli pareva di voler bene a zio Nicola come ad un padre, e quasi quasi sentiva di voler bene anche a quella boriosa della padrona.
Immerso nei suoi pensieri, di tanto in tanto egli pungeva forte il bue rosso dalla schiena coperta di chiazze bianche - segno evidente che la bestia era passata in luogo ove stava nascosto un tesoro, - e il bue rosso trottava pesantemente. Malafede abbaiava per incitare l'altro bue, e così Pietro arrivò presto al sentiero dirupato che scende alla valle di Marreri.
La giornata era umida e tiepida, il cielo lattiginoso. Sulla punta dell'aratro, capovolto sul carro, il vomero brillava con un tenue splendore d'argento nuovo. Nella lontananza vaporosa gli occhi lincei di Pietro scorgevano la chiesetta di Valverde, nera sull'orlo d'un dirupo, e più in là ancora la chiesa di San Francesco, bianchiccia sullo sfondo delle montagne selvagge: e fra queste Monte Albo che si staccava azzurro come una bandiera di velluto, e Monte Pizzinnu che sorgeva come uno scoglio grigiastro avvolto da ondate di nebbia azzurrognola.
Pietro ricordò che sua madre, come tutte le donnine nuoresi, nutriva una profonda devozione per il piccolo San Francesco, Santu Franzischeddu, e, sebbene con poca fede, si fece il segno della santa croce.
Egli credeva in Dio e nei Santi, andava a messa, e si confessava e comunicava per la santa Pasqua, ma non era divoto, non pregava mai, non pensava mai alla morte e all'eternità: in quei giorni, però, era un po' sentimentale, un po' mistico e più credente del solito.
Una sera, infatti, quando fu lassù, nel suo aronzu (3), egli sentì bisogno di pregare, come una donnicciuola.
Intorno a lui il paesaggio, sublime di tristezza, taceva sotto il crepuscolo argenteo. Era un luogo desolato: prati melanconici sovrastavano alle chine coperte di folte macchie di lentischio, di ginepro, di cisto selvatico, il cui verdissimo ondulare veniva qua e là rotto da rocce grige e nere che nell'incerto crepuscolo davano l'idea di mostri pietrificati.
Tutto il paesaggio, del resto, pareva un deserto, mai abitato dall'uomo e vigilato soltanto da una deità selvaggia o dallo spirito di un eremita preistorico.
Pietro s'inginocchiò per terra, si fece il segno della croce e pregò: gli sembrava d'essere in una chiesa senza pareti; le stelle ardevano sull'orizzonte, ceri lontani accesi da spiriti invisibili; il ginepro esalava un odore d'incenso.
Pietro aveva paura come fosse per morire: una malattia mortale s'era sviluppata in lui, ed egli ne sentiva tutto il pericolo.
"Dio mio, San Francesco mio, toglietemela dalla mente. Misericordia di me; toglietemela dalla mente. Ella non fa per me, e il mio desiderio può farmi commettere delle pazzie... Anima della madre mia, aiutami; liberami dalle cattive idee. Così sia."
E mentre pregava pensava a lei, col desiderio ardente di averla vicina, di vederla in realtà come la vedeva in sogno, e di circondarla con le sue braccia come le montagne velate dalla sera circondavano la valle fumigante, sotto gli occhi complici delle stelle.

Sì, dopo la sua partenza, dopo il segno di croce col quale egli aveva salutato il "piccolo San Francesco" per renderselo amico e complice come lo desiderano tutte le donnine, tutti gli amanti, tutti i delinquenti nuoresi, la figura della giovine padrona non l'aveva più abbandonato un solo istante.
Lontano da Maria, aveva istintivamente sperato di dimenticarla; la lontananza, invece, e soprattutto la solitudine gliela rimettevano dentro il cuore, gliela offrivano tutta, più seducente e bella che mai. Arrivò un momento in cui egli non ebbe più la forza di combattere la sua passione: essa cresceva e si sviluppava nel suo cuore come un innesto su un giovine tronco selvatico.
I giorni passavano. Pietro lavorava dalla mattina alla sera, dissodando, abbruciando le macchie, estraendo le radici dei lentischi, arando e seminando i lembi di terreno liberi di vegetazione.
Nei vaporosi crepuscoli si scorgeva ancora la sua figura sullo sfondo del paesaggio melanconico. Egli arava ore ed ore, andando lentamente dietro i pazienti buoi rossi che trascinavano l'antico aratro sardo. Giunto alla fine del lungo solco batteva il pungolo sul fianco del bue picchiettato di bianco e lo costringeva ad una giravolta. Ridiscendendo la china, fra la terra smossa, umida e quasi nera, che fumava esalando un odore di erba in fermentazione, egli tirava la corda perché i buoi non corressero; giunto al basso, ripeteva la giravolta e risaliva, sempre taciturno, col pungolo in mano.
I buoi respiravano faticosamente; le loro corte palpebre rosse si abbassavano quasi con dolore sui grandi occhi tristi, e le loro narici nere fumavano come fumava la terra smossa.
Il profilo dell'alta persona del servo spiccava tra i vapori violacei della sera. La solitudine del paesaggio immenso e triste, coi confini perduti in una lontananza indecisa, contribuiva a render più intenso il raccoglimento del giovine lavoratore.
La passione smuoveva il suo cuore come il vomero la terra: e come la terra egli non se ne domandava il perché.
Qualche volta si disperava ancora, ma non invocava più l'aiuto di San Francesco o dell'anima beata di sua madre perché lo liberassero del desiderio che lo vinceva tutto.

Raramente qualche mandriano, qualche paesano a cavallo, qualche donnicciuola di Lollovi con un canestro colmo di formaggio sul capo e una gallina in mano, attraversavano il sentiero a fianco del terreno lavorato da Pietro. Un saluto semplice, rozzo, animava per un attimo la solitudine; poi il cavallo si perdeva fra i ginepri, la donnicciuola fra i radi olivastri del pendio; poi ancora silenzio.
E Pietro lavorava e sognava, sotto il cielo autunnale sempre ineffabilmente triste e velato dalle nebbie grigio-rosate, dalle tarde aurore, dai vapori violacei della sera, dalle nuvole gravi dei giorni cattivi, quando le macchie verdi e rossastre pareva si gonfiassero d'umido, e le rocce bagnate diventavano più grige e tristi.
Per quasi un mese, egli non fece altro che smuovere e vincere la terra, e lasciarsi smuovere e vincere dall'amore.
Di sera si ritirava in una capanna; si sdraiava su un giaciglio di fronde e si copriva col sacco datogli da Maria. Anche per mangiare si ritirava lassù: qualche giorno faceva cuocere delle patate, altre volte si contentava di abbrustolire il pane sul quale versava poche gocce d'olio. I buoi pascolavano sulla china; Malafede, non avendo altro da fare, starnutiva ogni momento e abbaiava contro le foglie portate dal vento.
Di notte la solitudine, per uno strano effetto, si animava alquanto, o almeno non era così estesa e completa come di giorno.
Fuochi di altri contadini brillavano nella vallata; s'udivano tintinnii di gregge; qualche voce umana e qualche latrato di cane risuonavano nel silenzio della notte, portati dal vento.
E una figura di donna, un fantasma di bellezza e di piacere, illuminava e rallegrava i sogni di Pietro come il fuoco profumato del ginepro illuminava e rallegrava la capanna desolata.

La terra fu tutta arata e quasi tutta seminata. L'inverno lucido e freddo dissipò le nebbie autunnali.
A giorni pioveva, ma per lo più il tempo mantenevasi freddo e asciutto.
La tramontana sbatteva le sue grandi ali ghiacciate, su dai monti d'Orune; Pietro spandeva intorno a sé la semente che il vento portava lontano e la terra accoglieva sempre.
Anche i suoi pensieri si sparpagliavano così, ma cadevano sempre sullo stesso terreno.
Da qualche giorno egli si sentiva allegro; aveva ripreso a parlare con Malafede, aveva sorriso passando davanti alla pietra sulla quale si era una volta inginocchiato.
“Coraggio”, diceva ai buoi, “fra poco avremo finito il lavoro. Verrà Natale; canteremo con zio Nicola e ci prenderemo una sbornia solenne.”
A voce alta non osava dire altro; ma siccome non poteva più star zitto, si metteva a cantare.
Cantava a voce spiegata, qualche volta cercando di ripetere anche il coro che accompagna i canti nuoresi; dal tenore passava al basso e da questo alla mezza voce; poi riprendeva la strofa. Erano le stesse canzoni d'amore che aveva cantato per Sabina; ora volavano verso Maria.
In quei giorni, in quelle ore di gioia quasi puerile, egli sperava ancora. Non era più la speranza di un amore capriccioso e sensuale, inspirato alla giovine padrona dal servo bello e ardito, ma il sogno d'una gioia ignota, al di là di ogni desiderio impuro, la speranza infine dell'amore vero e casto.
Chi conosce l'avvenire? Egli ricadeva nelle sue fantasticherie; sognava di diventar ricco, di poter un giorno sollevare gli occhi fino agli occhi di lei, e spiegarsi con un solo sguardo.
Allora cantava, e la sua voce volava lontano, al di là della valle, perché giusto in quei momenti di speranza, quando egli tornava puro come un fanciullo e il pensiero di Maria lo faceva arrossire, l'immagine ardente di lei, che di solito lo accompagnava, migrava lontano, tornava nella cornice della casa paterna.

Ma a misura che s'avvicinava il giorno del ritorno, il senso della realtà riafferrava il giovine innamorato.
Qualche viandante gli portava le notizie dei suoi padroni, e le sementi e le provviste inviate da zia Luisa.
“Zio Nicola non è venuto a trovarti, perché è stato quindici giorni a letto, con forti dolori alla gamba.”
“E il medico cosa dice? Possibile che egli non trovi un rimedio?”
“Eh, altro che vorrebbe trovarlo; tanto più che, dicono, vuole sposare Maria.”
“Chi, il medico? Ah, ah ah!”
“Perché ridi?”
“Perché la mia padrona non sposerà certo un medico.”
“Sposerà il figlio del re, allora!”
“Eh, sì; sposerà un pastore ricco, ecco tutto!”
Medico o pastore, certo però non avrebbe mai sposato un servo. E Pietro ritornava cupo, ricordando con sarcasmo verso se stesso i sogni stolti che accompagnavano le sue canzoni.
Avrebbe voluto darsi dei pugni, allora, tanto la sua passione lo umiliava. Ma oramai non poteva più disperdere ciò che egli stesso aveva seminato nel suo cuore; era più facile togliere ad uno ad uno i granelli sparsi sulla terra arata.
I giorni continuavano a passare freddi e limpidi, o freddi e nuvolosi: ancora uno o due notti e Pietro sarebbe ritornato a dormire nella casa dei padroni. Zio Nicola gli avrebbe ancora raccontato le sue storie; lui... che avrebbe fatto lui?... Non lo sapeva e non ci pensava neppure.
Avrebbe continuato a vivere, a lavorare per gli altri.
Così arrivò l'ultima sera.
Prima di ritirarsi nella capanna, Pietro sedette su una pietra in mezzo alla terra seminata, e stette a lungo immobile, quasi piegato in due. Pareva che sentisse finalmente la stanchezza di tutto il suo lungo lavoro.
Intorno a lui anche la terra taceva, addormentata, in un riposo fecondo.
La sera cadeva; grandi nuvole bluastre macchiavano il cielo pallido; piegato sulle ginocchia, Pietro stette a lungo immobile, con gli occhi chiusi, formando una macchia stessa, una cosa stessa con la pietra su cui stava seduto, con le onde brune della terra smossa che lo circondava. Dormiva.
Dormì così a lungo, come il granello fra le zolle, granello anche lui buttato a caso su una terra misteriosa e selvaggia, germogliato alla ventura, abbandonato al capriccio del tempo e del destino.
Si svegliò ch'era già notte e si ritirò nella capanna. Fuori la notte, coi suoi grigi vapori, incombeva sull'altipiano, sulle valli, fino alle montagne della costa, donde veniva un rombo di vento che sembrava l'urlo del mare; e se un pezzetto di luna gialla appariva fra le nuvole correnti, Malafede non mancava di abbaiargli contro, forse credendolo l'occhio maligno di un ladro.



V.


Maria, a quell'ora, dormiva il suo sonno pieno e piacevole di ragazza sana: avesse anche vegliato, non avrebbe però pensato a Pietro Benu più che al grano ch'egli seminava.
Ella lo stimava come servo, ma non di più; anche la salute e la sveltezza di lui le piacevano in ragione dell'utile che potevano rappresentare.
In famiglia si parlava spesso del nuovo servo: tutti ne erano contenti, ma la padrona giovine si sarebbe strappati i capelli per la vergogna, se avesse dubitato di ciò che accadeva nell'anima di Pietro.
Un giorno si parlò di lui anche in presenza di Sabina. Era la vigilia di Tutti i Santi, pochi giorni dopo la partenza di Pietro.
Sabina aveva lasciato il servizio, e aiutava le sue ricche parenti a fare il pane e i dolci di pasta, sapa e uva passa, che ogni buona massaia nuorese non manca di preparare per la festa di Tutti i Santi.
Fin dall'alba Maria accese il forno, preparò la farina lievitata, le mandorle, la sapa e il miele; poi venne Sabina e tutte insieme, le due cugine e zia Luisa, gramolarono la pasta inginocchiate per terra intorno ad una tavola bassa. Zia Luisa sudava per lo sforzo, le due cugine chiacchieravano e ridevano, ma non risparmiavano i loro polsi, dimenandosi avanti e indietro, con le cocche dei fazzoletti rigettate al sommo della testa.
Un dolce tepore riscaldava l'ambiente, e dalla piccola finestra e da ogni spiraglio del tetto penetravano raggi di sole, che gettavano lunghe strisce di pulviscolo azzurrognolo attraverso la cucina e macchie d'oro sulle pareti e sul pavimento.
Dopo una notte di pioggia ritornava il sereno autunnale; per tutto il vicinato intorno alla casa dei Noina, rinfrescato e ripulito dalla pioggia e dal vento, si spandeva una frescura, un profumo campestre. Qua e là giacevano rami stroncati dal vento; i tetti coperti di musco giallognolo fumavano. Verso la montagna gruppi di piccole nubi di un grigio-rosato si scioglievano sul cielo inondato di sole; i galli cantavano ancora, le galline erranti per le viuzze scuotevano le ali umide, fregavano il becco per terra, sui ciottoli bagnati e lucenti, lo immergevano nell'acqua delle pozzanghere e poi sollevavano la testa quasi per respirare meglio l'aria del mattino.
Già le donnine d'Oliena dai capelli attorcigliati intorno alle orecchie passavano vendendo l'uva passa e la sapa; col loro costume barocco, scalze, con le scarpe in mano, rassomigliavano nei movimenti alle galline vagabonde. La loro vocetta stridula, che chiedeva: Papascja pjaes e fju? Binu 'ottu pjaes? (4), annunciava che le vendemmie erano terminate e che l'inverno s'avvicinava.
Maria e Sabina chiacchieravano e ridevano: la prima specialmente sembrava allegra e serena: dalla sua bella gola dorata il riso sgorgava come il canto dalla gola d'un uccello.
Anche Sabina scherzava e rideva: raccontava che il suo ex-padrone le aveva fatto la corte e per sedurla le aveva promesso un paio di scarpe.
“Molto splendido, davvero!”
“Aspetta, ora ti racconterò. Io gli dissi: "Me le faccia dunque vedere queste scarpe". Ed egli mi fece vedere un paio di scarpe di sua moglie!”, diceva Sabina, sollevando ogni tanto la mano bianca di pasta per raccogliere sotto il fazzoletto i capelli che le coprivano la fronte.
Qualche volta, per il troppo ridere, le due cugine rallentavano il lavoro; allora zia Luisa apriva la piccola bocca sdegnosa e diceva severamente:
“Le fanciulle oneste non si vantano di certe cose, fossero pur vere”.
“E che sono disonesta, io?”
“Io non so niente: so che una fanciulla di buona famiglia, come sei tu, non apre la bocca senza prima averci pensato bene.”
“Zia Luisa mia, la mia bocca si apre senza che io me ne accorga.”
Oppure la severa principalessa minacciava le fanciulle col matterello.
“O la finite o vi bastono!”
Ma le due cugine continuavano a ridere: ogni tanto Maria balzava in piedi, guardava se la pentola bolliva e riattizzava con un lungo bastone il fuoco del forno.
Mentre le tre donne impastavano la farina con la sapa per farne dei piccoli pani dolci, rientrò zio Nicola, ch'era stato alla bettola per bere il solito bicchierino di acquavite, e portò una notizia interessante:
“Ho visto passare un prete che recava la santa Comunione ad un malato, laggiù, al Corso. Ho domandato chi era il malato grave e mi dissero: zia Tonia Benu”.
“La zia di Pietro!”, esclamò Sabina, sollevando le mani gialle di sapa.
“E lui non sa niente?”
“E anche se lo sa, credi tu che gliene importi niente?”, disse zio Nicola, voltandosi e rivoltandosi davanti alla bocca del forno.
“Eh, dicono abbia dei soldi, quella donna!”
“Davvero?”, chiese Maria.
“Sciocchezze”, gridò zio Nicola. “Favole da donicciuole.”
“Il marito di zia Tonia era un ladro famoso: morì in reclusione”, affermò zia Luisa. “Dicono che abbia lasciato alla moglie un recipiente pieno di monete d'oro.”
“Donnicciuole!”, rispose zio Nicola, battendo il bastone contro il forno. “Storielle! Intanto quella povera vecchia ha solo una catapecchia e un pezzetto di terreno con due macchie di lentischio.”
“Ad ogni modo l'erede sarà forse Pietro!”, disse vivacemente Sabina.
“Allegra, dunque!”, le sussurrò Maria, ridendo maliziosamente.
Sabina, alquanto turbata, la urtò col gomito.
“Tu sta zitta!”
“Pietro! Pietro! Un corno! E gli altri nipoti, che son forse delle immondezze?”, gridò zio Nicola, curvandosi per riattizzare il fuoco del forno. “E poi Pietro rifiuterebbe forse l'eredità: l'eredità di un ladrone! È onesto, Pietro!”
“Ma egli vive con la zia, quando non è al servizio”, osservò Maria. “Ma lasciate stare il fuoco, babbo; ecco che il fumo vien tutto fuori.”
Sabina non osava più parlare, per timore che zio Nicola s'accorgesse del suo turbamento. Sì, ella voleva sempre bene a Pietro, sebbene egli, dopo il breve colloquio nella vigna, l'avesse trascurata e quasi disprezzata.
Però, chi mai conosceva l'avvenire? Forse Pietro, diventando erede di una piccola casa e di un pezzetto di terra, avrebbe pensato ad ammogliarsi. Sabina sperava.
Zio Nicola prese uno sgabello e sedette davanti al forno, attizzando ogni tanto il fuoco, nonostante le proteste di Maria. Fra le altre cose egli raccontò la storia del marito di zia Tonia Benu, un vecchio ladro morto venti anni prima in "quei luoghi" tristi, dove gli uomini si riducono a far la calza e lavorare all'uncinetto.
“Sì, era un famoso ladro; l'anima sua non fu accolta neppure nell'inferno, ed ora vaga per il mondo, assieme con altri sette spiriti di preti malvagi, coi quali talvolta penetra nel corpo di qualche creatura innocente. Una volta, parlando appunto per bocca di un fanciullo indemoniato, disse che per redimere l'anima sua bisognava celebrare mille messe e cento processioni. Basta, certo è stato un ladro astuto, spauracchio di proprietari e di pastori. Tutto ciò che vedeva era suo.
Passava vicino ad un gregge, adocchiava la più grossa pecora e il giorno dopo questa spariva; pareva che egli rubasse con gli occhi. Una volta passò vicino ad un ovile e adocchiò una grossa pecora nera di razza spagnola: il pastore lo vide e per sottrarre la pecora nera agli artigli del ladro, la uccise, la sventrò e l'appese ad un ramo della capanna. Ma il ladro trovò il modo di farla sparire egualmente.”
“Pietro non gode buona fama appunto perché parente d'un simile avvoltoio”, osservò zia Luisa, intenta a fare dolci di pasta e di uva passa, ai quali dava forme strane: anelli, scacchi, piramidi, croci e persino cappelli da prete.
Zio Nicola s'arrabbiò, batté il bastone contro il forno.
“Venga davanti a me qualcuno che osi parlar male di Pietro Benu; venga avanti, se può; venga avanti, se ha fegato! Venga; gli risponderò io con questo qui.”
E brandì il bastone, pronto a colpire i calunniatori del suo servo.
Verso il tramonto le donne smisero di lavorare dopo aver deposto il pane e i dolci entro i canestri d'asfodelo; la cucina calda odorava di sapa e d'uva passa cotta.
“Ora dovrei andare alla fontana”, disse Maria, scuotendo l'anfora vuota. “Se vuoi venire, Sabina, passeremo davanti alla tua casa; tu prenderai la tua anfora e andremo assieme.”
Indossò la tunica (5), mise sul capo l'anfora rovesciata e uscì con la cugina, alla quale zia Luisa aveva colmato di pane e dolci il grembiale.
Nella casetta di Sabina la vecchia nonna filava, badando alla piccola mola tirata da un asinello grigio bendato e silenzioso.
La pietra della macina, l'asinello e il viso affumicato di zia Caderina avevano lo stesso colore cenerognolo, e parevano d'una medesima sostanza; e in realtà formavano una stessa cosa. I pensieri della vecchia erano sempre corsi dietro l'asinello e l'asinello aveva sempre tirato la mola; la mola ogni giorno sgretolava un quarto di frumento e rendeva così mezza lira: tanto bastava a zia Caderina. Sabina lavorava e si sosteneva da se.
“Come va?”, chiese Maria alla vecchia, mentre Sabina attorcigliava uno straccio per farne un cercine.
“Si cammina, si cammina...”, rispose la donnina, accennando una strada invisibile.
“Andiamo”, disse Sabina, chinandosi per passare sotto la porticina.
L'asinello s'era fermato, come per ascoltare, e zia Caderina gridò invano: “Va, va!”.
Solo quando le due cugine furono uscite l'animale riprese il suo giro paziente intorno alla mola.
“Andiamo dunque alla Funtanedda”, disse Maria.
Andarono. L'una a fianco dell'altra, slanciate ed eleganti, vestite nello stesso modo, con le anfore rovesciate sul capo, le due cugine parevano due sorelle bibliche, Rachele e Lia, Marta e Maria, dirette alla fontana.
Chiacchierando scesero sino allo stradale di Orosei, lo stesso che Pietro aveva percorso ritornando dalla vigna.
Qualche borghese passeggiava, lento e tranquillo, respirando l'aria profumata della valle; qualche donna scendeva alla fontana, qualche paesano conduceva i buoi o i cavalli all'abbeveratoio: fuochi di dissodatori che incendiavano le brughiere cominciavano a rosseggiare nello sfondo azzurrastro dei monti d'Oliena.
Sabina e Maria, giunte alla fonte, sedettero su un masso aspettando che altre donne prima arrivate colmassero le loro anfore. La sera calava splendida e molle; l'Orthobene sorgeva al di sopra dello stradale, grigio e roseo sul cielo cinereo; l'ombra si addensava in fondo alla valle, i profili delle ultime case di Nuoro e della cattedrale fantastica spiccavano sul cielo d'oro.
“Vorrei una pala (6) di velluto in colore di quel cielo”, disse Maria, guardando in alto.
Ma Sabina guardava l'ombra in fondo alla china, e ricordava... Che faceva ora Pietro, al di là della valle e dell'altra valle ancora? Ricordava la promessa di "dire una cosa" alla povera serva? O si era pentito e pensava ad un'altra donna meno povera?
Intanto le donne chiacchieravano intorno alla fontana: una piccola bruna, con un occhio bendato, si lavava i piedi nel rigagnolo e imprecava contro la padrona lontana; dall'alto del muraglione un monello, arrampicato sul paracarri dello stradale, sputava sulle donne che sollevavano la testa e gli mandavano energiche maledizioni. Un uomo scendeva alla fonte per abbeverare tre porcellini di latte. Le tre graziose bestioline dal pelo morbido a strisce nere e gialle come quelle dei cinghiali, col musino roseo imbrattato di terra, si rincorrevano, grugnivano, rotolavano; e giunte presso il rigagnolo annusarono i piedi della piccola serva bruna, poi, invece di bere, continuarono a rincorrersi fra i cespugli. Il guardiano cominciò a fischiare per richiamarli; il monello cessò di sputare, e così le donne finirono di riempire le anfore, e venne il turno delle due cugine. Poi anche loro se ne andarono, con le anfore colme dritte sul capo; e la fontana gorgogliò nel silenzio vaporoso del crepuscolo.
Sabina continuava nel suo sogno sentimentale. Quando tornava Pietro? Avrebbero occasione di incontrarsi ancora? Ah, se ella avesse potuto aver le ali come un uccello e volare vicino a lui per scrutarne i pensieri!
“Se la zia muore, egli tornerà, non è vero?”
“Chi?”
“Ma Pietro Benu!”
“Ah, tu pensi a lui! Chi sa se tornerà! Ad ogni modo glielo manderò a dire. Ma credo che quella vecchia sia sempre inferma, e di tanto in tanto si confessi e comunichi.”
“Andate d'accordo con Pietro?”
“Certo”, disse l'altra sorridendo un po' sdegnosa. “Egli è un buon servo; io sono una buona padrona!”
“Ma non è bravo davvero?”
“Sicuro, un bravissimo giovine.”
Sabina si sentiva tanto felice quando qualcuno lodava Pietro Benu; il che veramente non accadeva troppo spesso.
“Ad ogni modo”, insisté, “egli tornerà presto?”
“Ma non so. Egli disse che sarebbe tornato solo a lavoro finito. Del resto tu dovresti saperlo meglio di me.”
“In fede mia, no!”, affermò Sabina, timidamente. “Io non so niente. Egli non mi disse più nulla dopo quel giorno, ti ricordi? Credo abbia soggezione di voi.”
“Egli non è un uomo da aver soggezione di nessuno.”
“Allora non so perché non m'ha più cercata, mentre son certa che mi vuol bene.”
“E tu? e tu?”, domandò Maria, volgendosi con curiosità verso la cugina.
“Ma... anch'io...”, mormorò Sabina, incoraggiata dalla benevolenza di Maria e dal silenzio e dal crepuscolo che la circondavano. “Dopo quel giorno... ho sempre atteso. Quando lo sento nominare, vedi, il cuore mi batte forte. Se egli almeno si spiegasse!...”
“E poi?”, insisté Maria.
“E poi? Se egli mi vuol veramente bene, ci sposeremo...”
Maria tacque. E per la prima volta la sua cugina, povera e semplice, che si contentava di così poco, di nulla quasi, ma che poteva diventar felice così facilmente, le destò un senso d'invidia non scevro però di compassione.
“Perché taci?”, domandò l'altra. “Dispiacerebbe a te e agli zii se avvenisse... ciò che io spero? Io sono povera. Che aspetto?”
“Ma no, anzi!”, esclamò Maria, pensierosa. “Pietro è un bravo giovine. E poi è anche bello! E poi, se la zia gli lascia il suo avere...”
“Che mi importa? Io voglio lui, non i beni della zia!”
“Ebbene, se lo vuoi, prenditelo! Ma parla piano, bella mia!”
Dopo un breve silenzio Maria riprese:
“Ma sei proprio sicura che egli ti voglia bene?”.
“Sì”, rispose Sabina, quasi offesa.
Intanto erano giunte. Attraverso una fessura illuminata della porticina si vedeva la vecchia nonna che filava ancora e il vecchio asinello che girava sempre intorno alla mola.
Maria sentì un impeto di compassione, rivedendo il melanconico quadretto.
"Povere creature!", pensò, guardando la vecchia e l'asinello; "stanno sull'orlo della fossa e lavorano ancora. Che triste cosa esser poveri! È vero, però, che si contentano di poco, come Sabina..."
“Addio”, disse quest'ultima, chinandosi sotto la porticina. “Stanotte dormirò come un sacco. A domani.”
“Addio. Addio, zia Caderina.”
“Addio”, rispose la vecchia, mentre l'asinello si fermava ancora per ascoltare.
"Voglio aiutare Sabina; parlerò con Pietro per vedere se veramente le vuol bene", pensò Maria, allontanandosi a passi tranquilli, nella oscurità sempre più densa della sera.
Le pareva di prender la cugina e il servo sotto la sua protezione, con benevola pietà da regina.
E avrebbe arrossito se le avessero detto che in quell'ora medesima, nella melanconia dell'altipiano selvaggio, Pietro Benu pensava a lei, non a Sabina. Le sarebbe anzi parso impossibile. Poteva mai l'asinello di zia Caderina scorgere, attraverso la sua maschera di stracci, nello sfondo della sua strada interminabile, un lontano sogno di gioia?



VI.


Pietro ritornò a Nuoro dopo circa cinque settimane d'assenza, e precisamente la vigilia di Natale.
Avanti, avanti, per gli aspri sentieri che scendevano in fondo alla vallata e poi risalivano fino a Nuoro, egli pungeva i buoi con crudeltà, spingendoli rapidamente al ritorno. Il vomero era consumato, il carro colmo di radici di lentischio.
Nonostante la sua fretta e la sua ansia, il giovine servo avrebbe voluto arrivare alla casa dei padroni a notte già fatta. Sentiva un vago timore del primo incontro con Maria; aveva paura che ella gli leggesse sul volto i sentimenti che lo agitavano: il braccio gli cadeva inerte, il pungolo cessava la sua opera crudele; allora i buoi rallentavano il passo e Malafede frugava qua e là per le macchie imbrullite, nere e rosse come mucchi di carboni semispenti.
Soffiava la tramontana acuta; il cielo basso e plumbeo prediceva la neve; ma Pietro sentiva un calore interno ardergli il petto: le sue mani nere scottavano, una vena gli pulsava forte forte alla tempia sinistra.
Gli pareva di aver la febbre; desiderava cantare, ma le labbra aride, serrate, rifiutavano di aprirsi, un cerchio ardente gli stringeva la fronte, e la pulsazione continua alla tempia sinistra sembrava il picchiare di un martello che fermasse quel cerchio invisibile.
Egli camminava, desideroso di incontrare qualcuno con cui parlare, ma la strada selvaggia era più che mai deserta; tutta la valle, con le sue macchie rugginose, le pietre lividognole, gli sfondi grigi, pareva morta sotto quel gran cielo oscuro e pesante.
Arrivato davanti alla chiesetta della Solitudine, nella strada dominante le due vallate, Pietro si scosse dal suo sogno febbrile. Ecco, Nuoro era lì, vicina, circondata dal vento, nella sera tetra. Le sue prime case apparivano già; qualche donna avvolta nella tunica, con l'anfora sul capo, e contadini, coll'immancabile cavallo o coi buoi sonnolenti, passavano spinti dal vento. Pietro volse le spalle ai monti velati di nebbia, alla vallata fumosa, e rientrò in paese. Nonostante il suo desiderio di attaccar discorso con qualcuno, non si fermò, non salutò i pochi passanti, finché non giunse alla porta dei suoi padroni. Il roteare del suo carro riempì la straducola con un rumore di torrente. Malafede si slanciò in avanti, con la coda dritta, e abbaiò.
Passando davanti alla bettola illuminata, Pietro intravide, dietro il banco, il viso soave e ardente della bella Francesca, e una fiamma di desiderio gli brillò negli occhi; ma subito pensò a Maria e per la prima volta in vita sua si vergognò d'aver desiderato una donna di mali costumi.
Oh, no: anche se Francesca lo avesse chiamato, egli non sarebbe più andato da lei; gli sarebbe parso di tradire Maria.
Il portone era chiuso: egli picchiò col pungolo, e subito, nel silenzio improvviso, s'udì, al di là del muro, la voce fresca della giovine padrona.
“Dev'esser Pietro!”
"Dev'esser Pietro!" Come ella lo diceva! pareva che lo aspettasse! Solo questa supposizione, che pure egli sentiva vana, gli riempì il cuore di gioia.
Malafede fiutava e raspava il portone: e come tardavano ad aprire cominciò a guaire, sollevandosi e cercando di introdurre una zampa in una fessura. Qualcosa di simile all'impazienza e alla gioia del cane fremeva nel cuore di Pietro.
Finalmente zia Luisa aprì, e Pietro intravide Maria ritta sul primo gradino della scala; ma non osò guardarla subito.
“Buona sera”, disse, spingendo i buoi dentro il cortile.
E solo quando zia Luisa si volse per chiudere il portone, egli guardò la giovine padrona e le chiese:
“Ebbene, che nuove abbiamo?”.
“Buone, grazie a Dio. Fa freddo, ma la nostra pelle non è fina come quella dei signori...”
“Qual migliore signora di te!”, egli disse, sospirando.
“Ma tu, Pietro, sei stato ammalato? Sei magro e giallo”, osservò zia Luisa, quando egli, slegati i buoi e rimesso a posto il carro, entrò in cucina, dove Malafede fiutava ogni angolo.
“Macché! macché! Ho avuto un po' di febbre, queste ultime sere, ma, come dice Maria, la mia pelle non è fina tanto da risentirsi di simili cose. E il padrone dov'è?”
“Febbre! febbre! Febbre interna, forse!”, esclamò Maria, un po' benevola, un po' beffarda. “Star cinque settimane senza veder l'innamorata... ecco la febbre!”
Pietro la guardò, ma tosto chinò gli occhi, tanto il sorriso di lei gli faceva male. Ah, quanto, quanto ella era lontana da lui! Lontana come una donna savia da un pazzo, al quale ella rivolge la parola solo per compassione!
Ridiventato triste, egli sedette davanti al fuoco, accanto a zia Luisa, e cominciò a ragguagliarla sull'andamento del suo lavoro.
Maria andava e veniva per la cucina, preparando la cena di magro della vigilia di Natale.
Fuori le campane suonavano l'Ave con rintocchi di gioia.
Zio Nicola non tardò a rientrare; anch'egli era dimagrito e pallido, insolitamente melanconico; ma appena vide Pietro, che si era alzato rispettoso e sorridente, rise e batté il bastone per terra.
“Ah, bravo”, disse, sedendosi al posto di zia Luisa, e battendo la mano aperta sul ginocchio di Pietro, “ti aspettavo! Stanotte veglieremo e canteremo a disputas. Se le donne vogliono andare alla messa, vadano pure; per me ci rinunzio con piacere. La messa di mezzanotte è per me stata sempre odiosa, perché tutti ci vanno per divertirsi, per fare degli scandali. Tu non vorrai andarci, spero...”
“Io no”, disse Pietro, lusingato. “Vi farò compagnia, giacché lo volete, sebbene pensi che voi potreste passare questa notte coi vostri amici.”
“Alla larga!”, gridò il padrone, allargando le braccia. “Gli amici vengono, oggi per bere il vostro vino, e parlar male di voi domani. Il miglior amico è il servo fedele. Ed anche il cane, non dico: qua Malavì! Diavolo, sei brutto come un cane!”
Malafede gli si era rifugiato fra le gambe e gli leccava le mani.
“Qui, da bere, donne”, disse poi zio Nicola.
Maria s'avvicinò, con la caraffa e il bicchiere.
“Tu non andrai alla messa?”, domandò Pietro.
“Io? Io no, davvero! Me ne vado subito a letto, appena avrò cenato. Io non ho da incontrare nessuno, alla messa. E anche voi, babbo, fareste bene d'andare a letto...”
Pietro non udì ciò che il padrone rispose. Maria non aveva dunque "chi incontrare alla messa". Ella dunque non aveva un amante, un fidanzato più o meno segreto. Ah, come ella era buona! Egli la guardò con riconoscenza, e bevette quasi con voluttà il vino offerto da lei.
“Le donne vanno a letto; tanto meglio”, riprese il padrone. “Di notte le donne non devono far altro che andare a letto; questa è la mia opinione. Noi, dunque, Pietro Benu, chiuderemo il portone e non apriremo neanche se viene il diavolo. Accenderemo un gran fuoco, metteremo accanto a noi una bottiglia di vino, e canteremo...”
“Ma io non so cantare”, osservò Pietro. “Invitate qualche altro...”
“Ma sei sordo? Non ascolti le parole che ti dico?”, gridò allora zio Nicola, irritandosi. “Ti dico che gli amici miei sono il servo, il cane, il bastone! Sì, anche il bastone! Ecco però un amico che l'anno scorso non avevo!”, concluse, rattristandosi e chinando il capo. Ma tosto lo sollevò, scosse il barbone. “Ebbene, se anche tu non vuoi restare, va pure! Canterò da solo!”
“Resterò, resterò!”, disse Pietro, ridendo.
Le donne, infatti, dopo cena, si ritirarono. Pietro avrebbe voluto che Maria restasse; egli non osava guardarla, ma la sola presenza di lei gli dava un dolce piacere. Non era l'ebbrezza ch'egli provava allorché, pur essendo lontano da lei, credeva di vedersela davanti viva e palpitante; ma ella era così bella, la sua voce così armoniosa, la sua persona emanava tale fluido di giovinezza e di piacere, che egli sentiva la sua presenza come in quella sera fredda sentiva il calore piacevole del fuoco.

Ecco, il servo mise tre grossi tronchi sul focolare, e spiegò due stuoie di giunco sul pavimento caldo; il padrone preparò due bottiglie di vino, una delle quali, più rossa dell'altra, risplendeva riflettendo la fiamma; e la scena omerica cominciò.
Zio Nicola e il servo sedettero sulle stuoie, e il padrone sollevò una delle bottiglie, guardandola attraverso la fiamma. Poi guardò così anche il bicchiere, entro il quale al riflesso del fuoco il vino scintillava come un rubino; e cominciò a cantare.
"Questo è il sangue ardente della botte, e bevendolo noi scaldiamo il nostro cuore. Beviamo, dunque, e riscaldiamoci, poiché fuori cade la neve ed anche su di noi cade la neve degli anni. Non fidarti, tu, giovinotto; anche per te passeranno gli anni, il tuo cuore diventerà freddo e occorrerà molto vino per riscaldarlo. Che cosa ne dici tu?"
Pietro rispose:
"Il mio cuore è già freddo, perché io sono un povero servo e nessuna donna mi guarda, e nessun piacere può sorridermi. Io bevo, ma neppure il vino può riscaldare il mio cuore".
"Tu sei un bugiardo e un vanitoso", rimbeccò zio Nicola, nella sua seconda ottava dai versi più o meno sbagliati, "e mentisci affermando che le donne non ti guardano e i piaceri non ti sorridono. Ora ti proverò il contrario..."
Fuori soffiava una violenta tramontana; grandi nuvole, chiare e dense come enormi blocchi di neve, s'avanzavano dai monti d'Orune: qualche falda di neve cominciava a cadere; nessun rumore, tranne il soffio rabbioso del vento, giungeva fino ai due cantori.
Talvolta Zio Nicola, infervorato, si alzava a sedere, e con un cenno della mano indicava a Pietro di non interromperlo: e invece di una componeva due e persino tre strofe, una peggiore dell'altra.
Pietro lo ascoltava religiosamente, poi anch'egli cantava la sua ottava, e beveva e beveva.
Verso le undici, mentre le campane suonavano con una letizia esagerata, tanto che parevano scrollate dal vento pazzo, servo e padrone cantavano ancora; le bottiglie erano vuote; e il loro splendore era passato negli occhi dei due cantori.
Qualche volta Pietro riusciva a comporre delle ottave con argomenti così vivaci e stringenti che zio Nicola si dichiarava vinto. Ma invece di offendersi guardava l'avversario con una certa ammirazione, e gli diceva:
“Bravo! Così ti voglio”.
Continuarono a bere, ma cessarono di cantare.
Verso mezzanotte gli occhi del padrone, che al riflesso del fuoco parevano di cristallo, s'aprivano e si chiudevano incoscienti; quelli del servo, pieni di languore, si smarrivano dietro sogni e visioni inverosimili.
“Pietro, figlio mio, tu canti bene ed io ti voglio bene. A che pensi? Dimmelo, su, tanto lo immagino...”
Diceva proprio così? E Pietro, doveva parlare, dire veramente ciò che pensava?
"Ah, padrone mio, se sapeste! Se sapeste che serpente ho nel cuore! Voi dite di volermi bene; ma se sapeste che io penso a vostra figlia vi gettereste sopra di me come un cane arrabbiato."
“Eh, anch'io...”, disse a un tratto zio Nicola, sollevando la testa.
E ricominciò a raccontare in prosa le avventure che aveva già ricordato nelle sue ottave. Oramai Pietro le sapeva a memoria; quindi cominciò a distrarsi, e in breve le parole del padrone gli arrivarono confuse alle orecchie, come un ronzio di api.
Tuttavia gli pareva di non essere ubriaco, e che non lo fosse neppure il padrone; e la confidenza che zio Nicola gli dava lo rendeva felice e ardito. E perché no? Ecco, ora apriva la bocca e parlava. Tutto era facile, tutto possibile. Sì, sì, bisognava parlare; ma prima occorreva cercar le parole adatte.
Nascose il viso fra le mani, pensò a lungo: d'un tratto staccò le mani dal volto ardente e fissò come un pazzo, attraverso le dita aperte, lo splendore rosso del fuoco... Le parole venivano:
“Zio Nicola, io non sono ricco, ma se voi mi aiuterete lo diventerò. Mia zia sta per morire e so che ha fatto testamento in mio favore... È poca cosa, lo so; una casetta in rovina e un pezzetto di terra, ma io venderò subito ogni cosa e col piccolo capitale metterò su un negozio di buoi. Me ne intendo io, di buoi, sapete. Chi lo sa? potrò fare fortuna. Anche voi, padrone mio, avete cominciato con niente. Datemi Maria, zio Nicola, datemela in moglie. Vedrete, diventerò ricco... Padrone, zio Nicola?...” chiamò dolcemente, abbassando le mani.
Ma zio Nicola, col capo reclinato sulla mano, non rispose. Pietro lo guardò e si accorse che il padrone dormiva.
Allora avvenne in lui una brusca reazione; come spesso gli accadeva, arrossì fino alle orecchie e sentì una profonda umiliazione.
"Sì, sono davvero ubriaco", pensò, scrollando il capo col suo gesto sprezzante. "Dormiamo, dormiamo..."
Si sdraiò sulla stuoia, poi si sollevò e guardò ancora il padrone.
"Non sarebbe meglio svegliarlo e dirgli che vada a letto?... Ma no, che s'aggiusti da sé..."
Ancora una scrollatina di capo, poi si sdraiò nuovamente: le orecchie gli ardevano, le palpebre, sebbene pesanti, non volevano chiudersi del tutto: strisce rosse solcavano le pareti, il tetto, il pavimento, e su queste straducole luminose passavano lunghe file di chiocciole verdastre mettendo fuor del guscio le piccole corna rosee tremolanti: poi tutto scoppiava e si sperdeva in mille e mille scintille d'oro.
Era il fuoco che scoppiettava.

“Che bel cantare avete fatto stanotte, Pietro”, disse Maria l'indomani, con una smorfia di disgusto.
“Bellissimo. Che hai da dire?”, rispose Pietro, fissandola.
“Ah, sì, vi siete ubriacati come due animali! Io non posso soffrire gli uomini viziosi. Pazienza mio padre, poveretto: egli ha molti dispiaceri e naturalmente cerca di svagarsi... Ma tu, Pietro! Vergogna! Sembravi un cane, quando sono entrata qui, stamattina: un cane davvero, buttato di traverso sulla stuoia, coi piedi sulla cenere.”
Pietro s'accorse ch'ella esagerava, ma si pentì d'aver bevuto e nello stesso tempo sentì piacere per l'interesse ch'ella gli dimostrava.
“Che t'importa se io bevo o no?”, le disse, sollevando la testa col suo gesto sprezzante. “Bada a te, piuttosto; bada, con tutta la tua superbia, di non prender per marito un ubriacone, più ubriacone di me”
“Gesù!”, ella esclamò, digrignando i denti, “me lo mangio! Meglio un bandito che un ubriacone!”
“Ebbene”, disse con tristezza il servo, guardandola, “io non mi ubriacherò mai più, te lo prometto!”
Questa promessa non commosse Maria, ma Pietro la mantenne. Quel giorno, infatti, egli andò alla bettola, ma non bevette e non guardò la moglie del bettoliere: stette lì a chiacchierare e a difendere i suoi padroni, dei quali il toscano parlava male.
Nei giorni seguenti egli lavorò in un orto che i Noina possedevano vicino al paese: all'imbrunire rientrava a casa e cenava coi padroni. Nei momenti ch'egli stava a casa, zia Luisa si serviva di lui per certe piccole faccende domestiche, e una sera lo mandò persino alla fonte con l'anfora sull'omero.
Egli, che in altri tempi si sarebbe ribellato, poiché un servo contadino lavora soltanto la terra, obbediva, e si umiliava con gioia, pur di far piacere a Maria.
Non sapeva perché, da qualche tempo si sentiva buono: talvolta triste, d'una tristezza dolce, ma più spesso allegro come un fanciullo. Certe volte si abbandonava tutto al suo sogno, come nella sera di Natale. Ecco, una sera egli rientrava a casa tardi e trovava Maria sola, seduta accanto al fuoco: anch'egli si sedeva davanti al focolare e guardava con insistenza la giovine padrona. "Perché mi guardi così, Pietro?" "Perché mi piaci, Maria." Ella rideva, egli balzava in piedi, le si curvava sopra, le arrovesciava la testa e la baciava.
Questo sogno bastava per renderlo felice, di una felicità ardente, e di giorno in giorno si mutava in progetto, in idea fissa.
Egli s'era poi procurato un pettine ed uno specchio tascabile, e appena si trovava solo non rifiniva di lisciarsi i capelli e la barbetta, guardandosi a lungo gli occhi, le labbra e la fronte.
Si trovava bello, e se ne rallegrava.



VII.


Di solito i padroni andavano a letto presto; qualche volta, però, se un bel fuoco ardeva nel focolare, zia Luisa e Maria s'indugiavano nella cucina, e chiacchieravano con Pietro. Seduta su un'alta scranna, la vecchia padrona filava: la luce gialla azzurrognola del lume ad olio dava un placido risalto, quasi una tinta di biacca, al suo largo viso bianco. Maria invece, un po' stanca dopo una lunga giornata d'attività, si rannicchiava in un angolo del focolare, e parlava poco, invasa dal torpore del caldo e del riposo. Così seduta per terra, spesso coi piedi scalzi, ella pareva una serva, ma non cessava di essere meravigliosamente bella. Pietro la guardava alla sfuggita, e ogni volta che incontrava gli occhi di lei sentiva uno smarrimento di desiderio.
Discorsi quasi puerili si svolgevano fra la vecchia padrona e il giovine servo: zia Luisa vantava la sua roba, Pietro si divertiva a lodare la roba degli altri.
“Ho visto oggi il servo di Franziscantoni Careddu: scendeva all'abbeveratoio coi buoi del padrone. Quelle sono bestie! Hanno la schiena lucida come specchio e sono forti come leoni.”
“Cosa dici? Ma se volevano venderli a me, quei buoi? Non li ho voluti perché troppo vecchi. È da paragonarsi col mio giogo (7), forse, quello lì?”
“Mi pare più bello del vostro!...”
“Tu sei pazzo. Si vede che non distingui il bestiame bello dal bestiame brutto. Il mio giogo, devi sapere, costa cento scudi sonanti...”
Ed ecco zio Nicola rientrava trascinando la sua gamba e battendo il bastone per terra: al solito era mezzo brillo e pretendeva che Pietro cantasse con lui una gara estemporanea. Per contentarlo Pietro cantava, ma si seccava, tanto più accorgendosi che anche le donne si annoiavano.
“Fatemi il santissimo piacere di finirla”, disse Maria una sera, sollevando il viso, indispettita. “Almeno tu, Pietro, finiscila!”
“Donnicciuola!”, gridò zio Nicola, sollevando il bastone.
Maria glielo strappò di mano e si mise a ridere. D'un tratto però vide che Pietro, improvvisamente ammutolito, le guardava il collo con uno sguardo da pazzo: e portandosi la mano al petto s'accorse d'aver la camicia sbottonata. Senza dubbio Pietro vedeva il neo bruno con tre peli d'oro, grande quanto una lenticchia, che ella aveva un po' sotto la fossetta della gola. Ella rimise entro l'occhiello il bottone d'oro della sua camicia, ma Pietro non cantò più, nonostante le preghiere e le minacce del padrone.
I giorni passavano; una sera zio Nicola uscì con Pietro e lo condusse nella bettola del toscano. Solo Maria Franzisca con la sua figura di madonna un po' sciupata animava la melanconica osteria: appena vide i due uomini s'avvicinò premurosa e sorrise a Pietro.
“Eh, ti piace questo giovinotto?”, chiese zio Nicola, battendo la punta del bastone sulle spalle di Pietro.
“È un bel giovine, certo!”
“E io non sono un bell'uomo? Dov'è tuo marito?”
“È andato ad Oliena per provvedersi di vino.”
Zio Nicola non scherzò oltre; chiese del vino forte e bevette due bicchieri uno dopo l'altro. Maria Franzisca era tornata al banco, ma Pietro s'accorse che il padrone fissava la donna con occhi lucenti, senza curarsi di lui.
“Pietro Benu”, disse infine zio Nicola, “mi sono scordato di mandarti da Salvatore Brindis per dirgli che domani lo aspetto a casa, per l'affare delle capre. Va: dopo puoi fare quel che vuoi.”
Subito Pietro s'alzò e andò via, ma invece di recarsi da Salvatore Brindis s'avviò verso casa. Gli pareva d'esser ubriaco: pensava a Maria come nei primi giorni della sua passione, quando l'istinto incosciente lo spingeva a desiderarla con un desiderio quasi crudele.
Rientrò e trovò la giovine padrona sola in cucina, seduta al posto di zia Luisa, sull'alta scranna vicina al lume ad olio. Era un'illusione del suo desiderio? Ella cuciva tranquillamente e non accennava a ritirarsi.
“E la padrona?”, domandò Pietro, attaccando il suo cappotto al solito chiodo.
“Si sentiva stanca, è andata a letto. E il babbo dov'è?”, domandò Maria serenamente, senza neppure sollevar la testa.
“Rientrerà fra poco; l'ho lasciato con Salvatore Brindis”, mentì il servo, staccando il cappotto dal solito chiodo per appenderlo allo spigolo della porta.
Egli non sapeva che fare per nascondere il suo turbamento; si sentiva impallidire e tremare, quasi stesse per compiere un delitto; e la tranquillità di Maria, la cui mano si sollevava e si abbassava lentamente, col ditale di argento sulla punta del dito medio, aumentava la sua commozione.
Uscì nel cortile e cautamente chiuse il portone, affinché zio Nicola, rientrando, non sorprendesse il colloquio pericoloso che egli voleva aver con Maria.
La notte invernale era limpida e fredda; la luna illuminava il cortile, dove le zappe e i vomeri brillavano come fossero d'argento; l'orologio di Santa Maria suonò le ore, con lunghe vibrazioni tremolanti: tutto era silenzio e gelo. Solo il cuore di Pietro ardeva e tumultuava.
Egli afferrò un grosso tronco nero coperto di musco gelato, lo sollevò sul suo petto, rientrò in cucina e lo depose sul focolare. Quello sforzo fisico lo calmò alquanto; sedette per terra, con la solita posa pittoresca, batté le mani una sull'altra per pulirle dai fili di musco lasciati dal tronco, si accomodò e poi si levò la berretta. Ma non seppe che dire.
Pensava confusamente che gli sarebbe stato facile alzarsi, balzare sulla giovine padrona e cogliere sulle sue labbra il bacio che egli desiderava come il febbricitante desidera un frutto fresco; ma non osava muoversi.
Per un po' i due giovani tacquero; poi Maria, vedendo Pietro seduto quasi ai suoi piedi, disse una cosa che lo colpì e lo turbò maggiormente.
“Pietro, ti aspettavo. Ho da parlarti.”
Egli sollevò il viso e la guardò; ma ella continuava a cucire, con gli occhi fissi sull'ago e le ciglia abbassate, e non vide lo sguardo lampeggiante di lui.
“Senti, Pietro. Volevo parlartene prima, ma non ho mai avuto l'occasione. Devi però promettermi che, qualunque cosa tu possa decidere, non dirai mai che io te ne ho parlato. Me lo prometti?”
Egli scosse la testa col suo gesto sprezzante: intuiva già quanto ella voleva dirgli. Tuttavia rispose:
“Te lo giuro sulla mia coscienza”.
“Senti, Pietro: che pensi di Sabina? Ti sei spiegato con lei? Ti hanno raccontato qualche storia sul conto suo, che l'hai così trascurata? Ella ti vuol bene... Che dici tu?”
Maria non smise il suo lavoro; parlava con calma, e non dimostrava d'interessarsi oltre misura alla causa da lei perorata; neppure si scosse per il prolungato silenzio di Pietro.
Egli non sapeva che dire; pareva colto da stupore e fissava gli occhi quasi smarriti sulla fiamma che cominciava a bruciare il tronco, del quale aveva già incendiato la scorza muschiosa.
Che dire? Sabina gli voleva bene? Chi se ne ricordava più? Quell'amore era stato per lui simile alla fiamma fugace del musco secco, mentre l'ardore che ora lo bruciava era come il fuoco che si sarebbe spento solo dopo aver incenerito il tronco.
Finalmente Maria sollevò la testa, ma senza troppa curiosità. Prese il rotolo del refe, fece scorrere il filo attraverso le dita, lo ruppe coi denti, e mentre infilava l'ago sollevandolo verso la fiammella del lume, domandò:
“Non dici nulla, Pietro? Parla”.
Pietro aveva anch'egli sollevato gli occhi e la investiva da capo a piedi con uno sguardo disperato. Quella sera Maria era più bella del solito, o almeno tale appariva al servo. La tela ch'ella cuciva le copriva il grembo e cadeva fino al pavimento; la camicia di lei, bianchissima, aveva riverberi di neve; fra tutto questo candore il collo di lei pareva più roseo, e il viso più affascinante; e la fiamma del lume e il chiarore del fuoco la circondavano d'una luce suggestiva.
Gli angoli della cucina si perdevano nell'ombra: fuori era notte e silenzio, e in quello sfondo di mistero la figura di Maria appariva a Pietro come gli appariva nel sogno, vicina, sua, solamente sua.
Egli non aveva che a stender le braccia per stringerla a sé.
“Ma non parli, dunque? Perché mi guardi così, Pietro?”, ella domandò, cominciando a inquietarsi.
“Che vuoi che ti dica? Che cosa vuole da me tua cugina?”, egli chiese allora con accento sincero. “Io non le dissi mai di volerle bene; io non le voglio bene. Che vuole da me?”
“Pietro Benu!”, esclamò con orgoglio la cugina ricca, offesa per la cugina povera. “Non si parla così! Non si tratta così una ragazza onesta! Non mentire; io stessa vidi, laggiù nella vigna, che tu la corteggiavi e le parlavi in segreto!”
Ma Pietro ebbe un'astuzia da innamorato.
“Le parlai in segreto? Ebbene, sì, è vero”, disse, chinando gli occhi e prendendo in mano il bastone di ferro, bucato, che serviva per soffiare e attizzare il fuoco.
“È vero, sì? Vedi dunque, Pietro...”
Egli fece un segno sulla cenere con la punta del bastone.
“Sì, dissi a Sabina che dovevo confidarle una cosa... ebbene, sì, il mio amore... ma non per lei, per un'altra donna. Volevo chiederle un parere.”
“A chi? A Sabina? E perché a lei?”, domandò meravigliata Maria.
Pietro fece un altro segno di croce sulla cenere: in quel momento egli si sentiva astuto, eppure timido come un fanciullo.
“Perché? Perché Sabina è parente dell'altra.”
Dell'altra!” ripeté Maria.
Tacquero. Lo sguardo di lei s'oscurò, le sue mani si fermarono.
“Una parente... una parente di Sabina?”, domandò come a se stessa, pensierosa, chinando il capo, col gomito sul ginocchio e il dito col ditale sulle labbra.
Pietro provava un'angosciosa sensazione di paura; eppure in quel momento non ricordava affatto zio Nicola, zia Luisa, e che egli era il servo della donna alla quale stava per svelare la sua passione insensata. Maria si batté tre volte i denti col ditale.
“Una parente? Una parente? Una parente?”
“Ebbene, sei tu!”, egli disse, quasi irritato.
Ella lo guardò senza stupore, senza indignazione; ma arrossì e rise.
“Scherzi, Pietro Benu?”
Egli riacquistò subito il senso della realtà; ricordò ancora il padrone, la padrona, la distanza sociale che lo separava dalla bella fanciulla beffarda, alla quale aveva finalmente aperto il suo cuore; ma non ebbe più paura.
Oramai erano di fronte: il segreto non li separava più.
“Ebbene, sì, tu! Perché ridi? perché son povero e servo? E se son povero e servo non posso volerti bene lo stesso? più degli altri, anzi, Maria; perché gli altri possono guardarti con secondo fine, per sposarti, per avere i tuoi beni, mentre io ti guardo così come si guarda una cosa che non si può toccare; io ti voglio bene per te sola, senza altra speranza che di esser ben voluto da te. Del resto, chi lo sa che anch'io non possa diventar padrone, chi lo sa che anch'io non possa diventar ricco...”
“Senti”, disse Maria, seria, troppo seria, “tutto questo è pazzia! Io ho riso, così, non per offenderti, ma perché... ti sei spiegato in un modo curioso! Se tu sei povero, che colpa ne hai? Siamo tutti eguali davanti a Dio.”
Egli capì che ella parlava così perché aveva paura d'irritarlo; ma si fece più ardito.
“E allora, dunque? Perché...”
“Ebbene, sii savio, Pietro. Pensa che se anch'io volessi, gli altri non vorrebbero...”
“Ma tu... ma tu?...”
“Io non posso volerti bene.”
“Vuoi bene ad un altro?”
“No, non voglio bene a nessuno; non penso di voler bene a nessuno.”
“Dici così perché non sai che cosa voglia dire voler bene, vedi”, egli insisté, con coraggio disperato. “Ma potrai volermi bene, vedi; ora che sai come io ti amo, ora mi guarderai con occhi diversi...”
Maria allora guardò con la coda dell'occhio, presa da un vago terrore.
Egli s'animava troppo.
Era forse diventato pazzo? Che pretendeva da lei? Ella lo ascoltava benevolmente, un po' per paura, un po' anche perché ci provava gusto, ma ora bastava. Egli parlava bene, questo sì; mai nessuno le aveva diretto una più calda e viva dichiarazione d'amore, ma ella aveva troppa coscienza del suo dovere per permettersi oltre il gusto di ascoltarlo.
Con ostentata lentezza ripiegò la tela, ficcò l'ago nel rotolo del refe, si tolse il ditale e si dispose ad andarsene.
Un velo oscurò gli occhi di Pietro. Ella si ritirava; egli non l'avrebbe veduta mai più così, sola davanti a lui, nel silenzio e nell'ombra della notte.
Con uno slancio balzò e sedette vicino a lei, e le afferrò una mano.
“Resta: ho da parlarti ancora...”
“Lasciami!”, gridò Maria, scuotendosi tutta con fiero sdegno. “Lasciami o chiamo la mamma. Rimani al tuo posto!”
Egli ricevette la frustata in pieno viso.
Lasciò subito libera la mano di Maria, e sentì come uno spasimo di pianto, e forse si sarebbe umiliato e avrebbe domandato scusa alla fanciulla, se ella, d'improvviso, non fosse balzata su, tentando di scappare.
D'un balzo fu anch'egli in piedi, la rincorse e l'afferrò quasi brutalmente.
“Non gridare”, le disse però con voce supplichevole. “Non voglio farti del male. Voglio solo che tu mi ascolti. Ti tengo, appunto per dirti che tu non devi aver paura di me... Ecco, vedi, ti potrei far del male, ma non voglio, non ci penso neppure.”
“Lasciami, allora, lasciami, Pietro”, ella disse minacciosa, svincolandosi.
Egli le recinse la vita con un braccio, avvicinò il viso di lei al suo e la baciò sulle labbra; poi la lasciò.
Tremava tutto, e come in sogno sentì ch'ella piangeva convulsa e diceva: “Vile, vile... dirò al babbo... ti farò mandar via...”.
E quando si trovò solo nella cucina silenziosa, davanti alla fiamma cigolante del tronco che pareva cosa viva, ripeté a voce alta le parole di Maria:
“Vile, vile... dirò tutto al babbo... ti farò mandar via...”.
Tutto era perduto. Era forse meglio andarsene prima di venir cacciato via come un cane. Che avrebbe fatto dopo? Dove sarebbe andato? La sua vita, oramai, non aveva più scopo.
Rimise in ordine il cucito di Maria, ch'ella nella fuga aveva lasciato sparso per terra, e sedette sulla scranna, aspettando il ritorno del padrone.
"Appena rientra gli racconto tutto, poi vado via. Ebbene, egli forse mi perdonerà. Gli dirò: sono un uomo anch'io; la passione mi ha tolto il senno. Voi che siete uomo di mondo, padrone mio, voi che stasera stessa avete peccato, scusatemi e perdonatemi se ho baciato vostra figlia... Baciata! L'ho baciata!", pensò rianimandosi.
E un brivido di voluttà, come non l'aveva sentito nell'atto del bacio, gli serpeggiò per tutta la persona. Allora, nonostante tutti i suoi timori e le sue incertezze, chinò il viso fra le mani e si sprofondò in un sogno di amore: aveva qualche cosa da ricordare, e fra il ricordo e il desiderio, entrambi disperati, la sua passione diventava più che mai forte e feroce.



VIII.


Maria pianse di rabbia e d'umiliazione, ma poi il sonno profondo della giovinezza la vinse e le raddolcì il cuore.
Svegliandosi, la mattina all'alba, ella ricordò subito la scena della sera avanti, e le parve di aver sognato.
Ma sì, aveva anche sognato: era scesa nella vigna, dove Pietro guardava l'uva. Faceva caldo, ma una vegetazione primaverile copriva le chine, e l'erba e la vitalba fiorita invadevano la vigna, nascondendo le viti cariche di grappoli già neri. Ella aveva sgridato Pietro:
"Che fai dunque? Perché non strappi via tutta quest'erbaccia? Vedi, bisogna curvarsi e cercar l'uva come si cerca un oggetto smarrito...".
Si curvava, infatti, quando due forti braccia l'avvinsero, la sollevarono, la strinsero. Era Pietro. Come aveva fatto la sera prima, egli avvicinò il viso di lei al suo, tenendole la testa ferma con la mano, e la baciò sulle labbra...
Uno, due, infiniti baci. Ella avrebbe voluto gridare, ma non poteva; d'altronde nessuno l'avrebbe sentita, nella solitudine della valle deserta. Egli la baciava e taceva, e teneva gli occhi chiusi: ella aveva paura, ma a poco a poco le ginocchia le si piegavano, l'ardore delle labbra di Pietro si comunicava al suo sangue; le pareva di dover morire...
Svegliandosi e ricordando che Pietro l'aveva veramente baciata, ella confuse l'impressione della realtà con quella del sogno; un senso di dolcezza mai provato le invase il cuore. Ma subito dopo sopraggiunse la reazione.
Pietro Benu, il suo servo, l'aveva baciata! Ella era stata baciata da un servo! Vergogna suprema! Non esistono imprecazioni e insulti che ella fra sé e sé non prodigò quella mattina al servo sfacciato e vile. Come gli sarebbe ricomparsa davanti? Oramai egli poteva guardarla con occhi da padrone e mancarle ogni momento di rispetto. Via, via, cacciamolo via, come un cane appestato... Egli però potrebbe vendicarsi; potrebbe spargere calunnie sul conto dei suoi padroni, far loro dei dispetti e dei danni, tagliare gli alberi della vigna, ammazzare i buoi, incendiare le messi. Un uomo offeso è più terribile della tempesta e del fuoco. Eppoi, non si sa mai, gli uomini sono tanto imprudenti e focosi! Che farebbe zio Nicola sapendo... Dio ne liberi, potrebbe provocare uno scandalo, forse un fatto di sangue...
Meglio tacere, essere prudenti, evitare i guai, con la dolcezza si ottiene ciò che non si ottiene con la violenza.
Eppoi... Le parole di Pietro le ritornavano in mente: "Vedi, non voglio farti del male. Se volessi...".
Infatti avrebbe potuto; invece s'era contentato appena di baciarla una volta sola. Sì, laggiù nella vigna - poiché era innamorato di lei fin da quel tempo, almeno così egli affermava, - quante volte non avrebbe potuto farle del male? Quante volte non s'erano trovati soli, nella valle deserta, nei recessi dell'orto, dove nessuno sguardo umano poteva arrivare?
Egli l'aveva sempre rispettata... Ora bisognava evitare le occasioni: intanto ella avrebbe trovato un mezzo per farlo congedare senza scandalo.
Maria si alzò, aprì la finestra e stette lungamente a guardare nel cortile silenzioso. Nuvole scure salivano sull'orizzonte e coprivano il cielo freddo e chiaro; un gallo cantava, Malafede abbaiava nel cortile.
Ella si sentì triste e contrariata, dimenticando alquanto la sua sgradevole avventura per ricordarsi che doveva fare il bucato! Con quel tempaccio lì! Venisse una buona volta il bel tempo; il cortile ritornerebbe pulito e gaio come una sala, la campagna rifiorirebbe. E Pietro non sarebbe più in paese; ritornerebbe in campagna, passerebbe il tempo a mietere e raccogliere il grano: ella, certo, non andrebbe più a trovarlo!
Sospirò, ricadendo nel ricordo della scena accaduta la sera prima, e quasi per sfogare il suo dispetto si mise a rifare il letto e a rimetter in ordine la sua camera, pestando i piedi nervosamente.
“Hai i diavoli in corpo, stamattina?”, gridò zio Nicola dalla camera attigua.
Allora ella uscì nella scaletta e scese nel cortile. Lo sportello della porta di cucina era aperto, ma non si sentiva alcun rumore. Che Pietro fosse uscito?
L'idea che il giovine, per non subire lo sfratto minacciato da lei, se ne fosse già andato, le sollevò il cuore. Ma entrando in cucina, trovò Pietro addormentato in una posa insolita, seduto per terra e col capo appoggiato ad una sediolina. Egli doveva aver passato una notte insonne e tormentosa, non aveva neppure spiegato la stuoia, e al barlume livido che penetrava dal finestrino il suo viso appariva pallido come il viso di un malato.
"Egli non ha dormito", pensò Maria; e, suo malgrado, provò pietà di lui.
Le parole di Pietro le tornavano in mente. "Non sono un uomo come gli altri?... Perché son povero?..."
"Ecco, egli mi ha baciato qui, proprio qui", ella pensava. "Egli mi ha baciato perché volevo fuggire... Che farà ora, svegliandosi e vedendomi?... S'egli balzasse su e m'afferrasse e mi baciasse ancora, come nel sogno?"
Dispetto, umiliazione, pietà, desiderio di vendicarsi, desiderio di non provocare il servo, ed anche una certa soddisfazione d'amor proprio, le agitavano il cuore: guardava con disprezzo il viso pallido del dormente; ma, senza volerlo, i suoi occhi si fermavano sulle labbra di lui, e sentiva ancora sulla bocca il gusto dei baci ch'egli le aveva dato in sogno.
Intanto accudiva silenziosamente alle faccende solite; non voleva svegliare il giovine, ma non sapeva se per vergogna di farsi vedere da lui, o per non interromperne il sonno...
Ma Pietro dovette sentire la presenza di lei, perché, mentr'ella frugava fra la cenere cercando una brage, egli si svegliò di soprassalto e la guardò spaurito.
“Perché hai lasciato spegnere il fuoco?”, disse Maria, senza guardarlo.
Egli si sollevò, s'inginocchiò e si curvò per riaccendere il fuoco.
“Poco fa ardeva ancora... non so come s'è spento; ora lo riaccendo, aspetta, non inquietarti”, balbettò, ancora assonnato, ma timido e quasi pauroso di lei.
"Poco fa ardeva ancora... Egli dunque non ha mai dormito fino all'alba", pensò Maria, ferma ritta presso il focolare.
Egli batté l'acciarino sulla pietra focaia e riaccese il fuoco, poi balzò in piedi e si scosse tutto.
“Maria”, disse, “ti prego di scusarmi se... sono stato pazzo. Non dir niente a tuo padre. Me ne andrò appena troverò una scusa. Tu sei tanto buona e mi perdonerai: io non solleverò più gli occhi per guardarti...”
Ella gli volse le spalle, e per il momento Pietro non disse altro.

Ma egli non mantenne le sue promesse, e tanto meno pensò ad andarsene. Per qualche settimana non osò veramente sollevare gli occhi davanti a Maria e non le rivolgeva la parola se non interrogato. Lavorava nella vigna, e spesso non ritornava in paese neppure alla sera.
Una domenica, però, agli ultimi di carnevale, egli si trovò solo con Maria nel cortile caldo e allegro di sole.
Entrambi si disponevano ad uscire, Maria vestita a festa per andare alla predica, egli bellissimo in un costume nuovo fiammante.
“Dove vai?”, ella domandò, allacciandosi il corsetto.
“Io vado a veder le maschere.”
“Faresti meglio ad ascoltar la predica.”
Pietro la guardò; i suoi occhi ardevano e la fissarono a lungo, insistenti e avidi. Ella ne arrossì.
“Se tu vuoi, vengo... Non mi importa niente del carnevale, Maria. Dove non sei tu io non vivo...”
“Comincia a finirla, Pietro...”
Egli la guardava sempre con occhi fascinatori. Maria s'allontanò rapidamente da lui e uscì, e Pietro ebbe l'impressione ch'ella fuggisse.
Altri giorni passarono; la primavera, la grande complice degli amanti, sopraggiungeva tiepida, eccitante. Dopo quella domenica di carnevale Pietro continuò a rivolgere qualche frase ardente alla sua giovine padrona, ogni volta che si trovavano soli; ed ella non si sdegnava più, non fuggiva più. Pareva si fosse abituata a considerar Pietro come un suo fervido ammiratore, e non avesse più timore di lui.
Del resto, ella non aveva altri adoratori o almeno adoratori coi quali potesse avere un contatto immediato e pericoloso. Era nota a tutti i ricchi paesani scapoli di Nuoro la superbia della bellissima Maria Noina; tutti dicevano:
“Ella pretende per marito un borghese, un avvocato, non un uomo vestito di pelli”.
I giovinotti poveri non osavano sollevar gli occhi fino a lei, e per i borghesi, per gli avvocati, ella non era abbastanza ricca.
Solo un proprietario di buona famiglia, Francesco Rosana, paesano ricco e intelligente, ma assai brutto, guardava con insistenza la bella figliuola di Nicola Noina. Ella lo sapeva, ma per più d'un anno aveva atteso invano una dichiarazione amorosa da parte di Francesco, ed ora non l'aspettava più. D'altronde il giovine proprietario non le piaceva affatto; le piaceva di più un giovinotto alto e svelto, ricco pastore, che però doveva sposare una fanciulla orfana, meno bella, ma più ricca di lei.
Un giorno il giovine fidanzato venne a cercare zio Nicola, e guardandolo bene, Maria provò una strana impressione; le parve che egli rassomigliasse a Pietro. Non seppe perché, ella sospirò, e per tutto il giorno provò una vaga tristezza.

Sogni d'amore turbarono allora le sue notti, e in quei sogni era sempre la figura di Pietro, e a volte anche quella del paesano fidanzato, che la stringevano e la coprivano di inesprimibili carezze.
Quasi sempre sfondo a questi sogni era la vigna silenziosa e verde, lontana dal mondo pieno di pregiudizi, come un'oasi dove l'amore soltanto regnava, l'amore che domanda la bellezza e la forza, la dolcezza e il piacere, e non la ricchezza e le altre vane doti dell'uomo.
Una sera ella attendeva che zio Nicola rientrasse dalle solite scorribande per le osterie del vicinato, quando udì picchiare al portone. Uscì e domandò chi era.
“Io”, rispose la voce di Pietro.
Maria credeva che egli tornasse la sera del sabato, e nel sentire improvvisamente la sua voce si turbò. Aprì subito ed egli entrò.
La notte era oscura, ma tiepida e stellata; non giungeva al cortile silenzioso alcun rumore, alcuna luce.
“Perché sei tornato?”, domandò Maria con voce cauta, quasi indovinando già la risposta.
“Son tre giorni che non ti vedo...”, egli disse, immobile accanto a lei. “Son venuto per vederti soltanto. Se vuoi, me ne vado via subito.”
Ella non seppe che cosa rispondere, ma istintivamente si avviò verso la scaletta. Egli la seguì, ma timido e rispettoso.
“No, fammi vedere almeno il tuo viso, Maria; vieni un momento in cucina, poi me ne andrò...”
Ella non rispose; Pietro allora, vinto un'altra volta dalla sua passione, la prese per la vita e la trascinò, un po' riluttante, ma silenziosa, fin verso la cucina, la cui porta era socchiusa.
“Non c'è nessuno?”, mormorò.
“No”, ella rispose sottovoce.
Entrarono, e alla luce del lume egli la guardò come un pazzo, così vicina a lui, palpitante e quasi smarrita, ma non osò baciarla: anzi la lasciò e disse:
“Ora sono contento; se vuoi, vado via”.
“No, è meglio che tu resti; possono averti veduto. Aprirai tu, quando il babbo ritorna... Buona notte.”
Ella uscì, e appena fu nella sua camera cominciò a tremare senza rendersi ragione del suo turbamento.
Passò una notte agitata, sognò, si svegliò che era buio ancora e non poté riaddormentarsi. Ma una gioia fino allora ignota le gonfiava il cuore al pensiero che fra pochi istanti avrebbe riveduto Pietro.
Ella non sapeva bene il perché di questa gioia, né si domandava che cosa sarebbe accaduto, ma il pensiero di corrispondere alla passione del servo era ben lontano da lei. Solo... lasciarsi amare, ebbene sì, che male c'era? Pietro era così buono e rispettoso: la presenza di lui non solo non le dava più timore, ma le procurava un acuto piacere.
Bastava mostrarglisi gentile per renderlo mansueto e tremante come un agnello; e perché non dargli questa felicità, che procurava anche a lei tanto piacere?
All'alba si vestì, si pettinò accuratamente e scese: il cuore le batteva d'ansia e di un desiderio che ella non voleva confessare a se stessa.
Pietro era già in piedi, pronto a partire, ma pareva l'aspettasse.
“Vado”, disse; “oggi è davvero una bella giornata. Perché non vieni più, laggiù, Maria?”
“Che vengo a farci, ora?”, ella rispose, con finta durezza. “Verrò quando sarà tempo di venire.”
“Allora verrai?”
“Sicuro verrò: perché non dovrei venire?”
Intanto accudiva alle solite faccende.
“Bene, buon giorno”, diss'egli, avviandosi.
Ella non rispose, ma quasi senza accorgersene si volse.
Egli le si avvicinò, acceso di desiderio.
“Maria, dammi almeno la mano.”
“Ma va; tu diventi pazzo davvero! Lasciami una buona volta tranquilla!”
“Non adirarti, Maria! No, io non voglio turbarti; ebbene, non stringermi neppure la mano, se vuoi. Ma la mia mano non è sporca, no, Maria! Solo è la mano di un povero, e tu perciò...”
“Taci, taci, vattene”, ella pregò, indicando la porta e allontanandosi da lui.
“Guardami almeno! Perché chini gli occhi?... Almeno uno sguardo, Maria! Perché, perché son povero?”, egli insisté, avvicinandosele. “Sì, per questo. Ma te lo dissi, Maria: chi sa che anch'io non diventi ricco!... D'altronde... che cosa ti domando io? Niente; ma non trattarmi male, ma dammi almeno uno sguardo. Solleva la testa...”
Maria pareva affascinata. Sì, ecco, era questa la gioia che ella agognava; sentirsi adorata umilmente e supplicata d'un solo sguardo.
Pietro le prese una mano, gliela strinse forte; un brivido li investì entrambi, al solo contatto delle loro mani.
“Addio; verrai alla vigna?”
“Chi sa!”
Egli partì, ma l'aspettò invano, e il sabato sera rientrò nella casa dei padroni con l'ansia e la febbre di un affamato che cerca di rubare un pane. I padroni però vegliavano e si ritirarono tutti insieme.
Egli attese l'alba attraverso un sonno pieno di inquietudini e di sussulti. No, non poteva più lottare; non poteva più vivere così. O Maria si abbandonava al suo amore, o lui... che avrebbe fatto lui?... Non sapeva; ma era deciso a tutto.
Ella scese più tardi del solito.
Pareva tranquilla, impassibile: appena entrata si curvò sul focolare e mise la caffettiera sul fuoco.
“Perché non sei venuta? Ti ho aspettato, ti ho aspettato sempre. Il tempo era bello... Hai avuto paura di venire?”
“Non ho avuto tempo”, ella rispose con voce fredda.
Ma d'improvviso si animò, lo guardò, parve prendersi il perfido gusto di provocarlo, di fargli sentire che non aveva paura di lui.
“Verrò quest'altra settimana. Ci devono essere dei finocchi e verrò a coglierli. La vigna è già lavorata? Hai cominciato a potare?”
“Sì, sto a potare. No, tu non verrai, me ne accorgo...”
“Ma cosa vuoi che venga a fare?”
“Così, per vederti, per... vederci... Perché anche tu mi vuoi bene, lo so, sì, ora mi vuoi bene; dimmelo...”
Ella scosse la testa un po' con sdegno, un po' con tristezza.
“Anche se io ti volessi bene...”
“Ebbene?”
“Niente.”
Egli s'alzò; ella s'avvicinò alla porta e guardò fuori; il sole batteva già sul muro del cortile; zia Luisa poteva scendere da un momento all'altro.
Cautamente Pietro si avvicinò a Maria e l'abbracciò.
“Se tu mi volessi bene... ebbene, ebbene?...”, insisté. “Che t'importa degli altri?... Ma tu... tu mi vuoi bene?”
“Lasciami, Pietro, lasciami... Possono vederci...”
“Sì, ti lascio, subito; ma dimmi prima che mi vuoi bene.
“Lasciami andare, Pietro...”
Ella diceva così, ma non si dibatteva più. Non sembrava più Maria Noina, e Pietro credeva di sognare.
“Sì, ti lascio... te lo prometto; ma prima dimmi...”
“Sì, ti voglio bene.”
Ma egli non mantenne la promessa.



IX.


Per qualche mese Pietro Benu visse come in un sogno, al quale però finì d'abituarsi. I primi giorni, specialmente, visse stordito, febbricitante, sospeso fra cielo e terra. Si svegliava e si addormentava sempre con la stessa gioia in cuore: non era stato mai così felice, e neppure aveva mai sognato tanta fortuna.
Maria si mostrava tenera e ardente, nei brevi convegni che seguirono dopo il primo colloquio d'amore; ella gli si abbandonava quasi completamente, con passione spontanea e fiduciosa.
Oh, ella non dubitava di lui, ed anch'egli non era geloso, non diffidava, ma si sentiva sempre un po' timido, sempre un po' servo davanti a lei.
Del resto passavano intere settimane senza che essi potessero rivedersi; e rivedendosi davanti a persone estranee, assumevano un contegno gelido quasi ostile. Maria anzi coglieva ogni occasione per lamentarsi di lui, e sgridarlo per cose da nulla; egli la rimbeccava, e spesso si bisticciavano così bene che zio Nicola interveniva e quasi sempre prendeva le parti del servo.
Tutto questo, però, oscurava alquanto la gioia di Pietro. Gli pareva che Maria, così tenera e affascinante nelle ore d'amore, volesse poi ricordargli in qualche modo la sua condizione e la distanza che li separava.
Ah, egli lo sapeva bene d'essere un servo, ma sperava sempre! L'amore può far miracoli.
“Mia zia ha finalmente fatto testamento in mio favore”, egli disse una notte a Maria, nella cucina ov'ella era scesa cauta e vibrante. “Vedrai, mia zia è tanto vecchia. Ah, se tu vorrai aspettarmi! Io venderò subito la casetta, la terra, tutto, e farò il negoziante. Vedrai... vedrai...”
Maria si lasciava baciare, ma non incoraggiava le speranze di Pietro. Fra loro non si parlava mai apertamente di matrimonio, ma ad ogni modo Maria prometteva fedeltà al suo giovine innamorato. Qualche volta un'ombra turbava le loro ore di dolcezza; Pietro si rattristava, Maria s'irrigidiva.
“Che hai, cuore mio?”
“Nulla, Pietro. Ma sono di malumore, stanotte. Non badarci.”
“Anch'io.”
Non osavano dire ciò che pensavano, ma si scambiavano baci che avevano un sapore di lagrime. Poi dimenticavano la loro tristezza per godere istintivamente l'ora presente, l'attimo che fuggiva per non ritornare più.
Si vedevano quasi sempre di notte, e durante il convegno chi più tremava d'una sorpresa era Pietro. Ogni tanto egli s'affacciava alla porta e spiava, e in quei brevi istanti Maria pareva ritrovasse il senso della realtà perché cambiava fisionomia, s'oscurava, qualche volta piangeva.
"No, io non sarò mai sua", pensava. "Che faccio io qui? perché lo inganno?"
Ma egli ritornava verso di lei e la riavvolgeva nel fascino del suo sguardo e delle sue parole.
Ella era abbastanza intelligente per comprendere che Pietro non era un seduttore; vedeva benissimo ch'egli stesso era stato travolto dalla passione e l'aveva trascinata con sé, in un vortice pericoloso, spintovi da una forza fatale; tuttavia qualche volta ella si ribellava a questa potenza misteriosa e incolpava il giovine servo d'essersi fatto amare.
"Che vuole da me?", si domandava. "Io non posso sposare un servo... Egli stesso lo sa, tanto che non osa parlarmene. Egli non è onesto, no; non si tenta così una ragazza di buona famiglia. Egli mi avrebbe corteggiato anche se avessi avuto marito..."
Egli invece la rispettava perché di giorno in giorno cresceva in lui la speranza di farla sua moglie; e voleva sposarla pura, o almeno baciata solo da lui. Non osava parlarle di matrimonio anche perché temeva ch'ella credesse il suo amore interessato.
E di giorno in giorno, mentre in lui la passione diventava calma e profonda, e la sua anima si rasserenava davanti alla luce di un avvenire felice, il capriccio di Maria s'intorbidiva, si mutava in passione fosca.
La curiosità di sapere che cos'era l'amore l'aveva spinta verso l'uomo giovine e bello; e l'amore si era rivelato, avvincendola ma non penetrandola fino al cuore.
Era lei che non sapeva, o non voleva sapere lo scopo della sua passione. In fondo al suo cuore regnava una nebbia torbida; i sentimenti perfidi dei quali accusava Pietro vibravano invece in lei.
Un giorno ella scese nella valle, dove Pietro finiva di coltivare la vigna. Si rividero sotto i peri, dove per la prima volta egli aveva notato la bellezza di lei.
Il cielo era azzurro, la valle tutta verde e morbida come una immensa culla di velluto; tutto invitava all'amore, e per un momento Pietro si credette perduto. Maria lo aveva attirato dietro la roccia ov'egli aveva sognato di baciare Sabina; l'edera odorava, due passeri s'amavano su una fronda. Gli occhi di Maria diventavano incoscienti; Pietro tremava, soffriva, ma ricordava la sua promessa:
"Non ti farò del male...".
No, non voleva ch'ella si pentisse di averlo amato: ma ebbe il torto di farglielo capire.
Maria ripartì, e quando fu sola nello stradale rabbrividì pensando al pericolo scampato.
"Egli crede sempre di potermi un giorno sposare; vuol essere ben voluto dai miei genitori; ed io... io non oso dirgli che è pazzo. Oh, Dio mio, Dio mio, son io la pazza; oh, la mia povera testa; che faccio io? Perché sono venuta oggi qui? Non sarebbe tempo di finirla? Sì, bisogna finirla. Stanotte glielo dico: 'Pietro, smetti ogni speranza, non tormentarmi più'. Fra giorni egli va lontano, va a trasportare carbone e cenere da una foresta alla riva del mare; dopo cominceranno le messi, e così non ci vedremo che una o due volte ogni tre mesi ed egli potrà dimenticare. Sì, è tempo di finirla."
Per tutta la sera ella stette inquieta e triste; si buttò sul letto, in attesa che i genitori si addormentassero, e pianse di rabbia e d'amore. Si morsicava le labbra e sentiva ancora il fuoco delle labbra di Pietro; si ficcava le unghie nelle palme delle mani fino a sentire una pulsazione dolorosa, ma ricordava le carezze di Pietro.
"No, vattene, Maria mia; non facciamo del male; vattene per carità..."
Ella se n'era andata, e avrebbe voluto non rivederlo mai più; ma ancora una volta bisognava rivederlo.
"Non facciamo del male..."
E non facevano già del male? Era forse bene che si amassero, così, senza speranza? Finalmente ella si accorgeva d'essere in peccato; peccato di desiderio, di menzogna, di disubbidienza verso i genitori, d'inganno verso il suo inferiore. Ma Dio era grande e misericordioso: con una buona confessione l'anima si lava come un panno alla fontana. Però bisognava prima troncare la relazione disonesta e indegna di lei; ora, subito. Si alzò e uscì nella loggia sopra la scaletta. Pietro attendeva in cucina, ansioso, fiducioso, buono e carezzevole... Povero Pietro!
Per un momento Maria esitò, s'appoggiò alla ringhiera, sotto il raggio pietoso della luna.
Poi rientrò nella sua cameretta e pianse ancora. Perché egli era un servo? E perché aveva osato innalzare gli occhi fino a lei? Se ora soffrivano entrambi, la colpa era tutta di Pietro. Pazzo, spensierato, sciocco! Ebbene, che il male ricada sopra di lui. È tempo di finirla.
Riassalita da un impeto di collera, Maria ritornò fuori, scese, entrò nella cucina. Pietro aspettava, ancora tutto commosso per la visita di lei e dei baci che si erano scambiati dietro la roccia; appena la vide la prese fra le sue braccia e la baciò. Ed ella dimenticò i suoi perfidi proponimenti: ma da quella sera più che mai, la lotta tra i suoi sensi e la sua ragione si fece aspra e felina.
Giunse un momento in cui ella non si domandò più che cosa voleva; non osò più esplorare i bassi fondi del suo cuore e si abbandonò agli eventi, sperando che un giorno o l'altro l'avvenire si schiarisse. Di Pietro non aveva più timore: egli era un fanciullo, non un uomo; era anzi un servo, umile e obbediente anche in amore.
Ma da qualche tempo Maria dimagriva, si sciupava, non era più una massaia interessata e meticolosa; distrazioni inesplicabili intorpidivano le sue mani, oscuravano i suoi occhi.
Zio Nicola le rimproverava sovente il disordine in cui ella teneva ora i registri e le carte; zia Luisa ricordava la sua giovinezza, e pensava:
"Maria ha bisogno di marito; è tempo che qualcuno si decida".
E poiché gli avvocati e i ricchi borghesi non si decidevano a domandar la mano di Maria, zia Luisa parlava male di loro e cominciava a lodare i ricchi paesani.
“Gli avvocati! Pezzenti, imbroglioni: uomini di mala fede, che vendono l'anima loro per un pugno di soldi: chi di loro è degno di legar le scarpe a Francesco Rosana? Soldi ci vogliono, in una casa per bene, non chiacchiere e scarpe lucide sopra e rotte sotto. Francesco Rosana, e qualche altro, quelli sì, sono uomini: uomini forniti di tutto; di sapienza e di beni; gli avvocatucci e i piccoli borghesi muoiono di fame.”
Le chiacchiere di zia Luisa arrivavano fino al Rosana, il quale non cessava di guardare Maria quando l'incontrava in chiesa o per la strada.
Quell'anno Maria non fece neppure il precetto pasquale; non aveva la forza di confessarsi, e temeva che il sacerdote non l'assolvesse dal peccato di amare e baciare un uomo che ella non intendeva sposare.
"Io sono doppiamente peccatrice", ella pensava, "poiché inganno i miei genitori e inganno Pietro."
Intanto arrivò il tempo della mietitura. Pietro stette lunghe settimane lontano, ma ottenne da Maria la promessa che ella sarebbe andata a trovarlo lassù, sull'altipiano, ove il suo cuore si era aperto all'amore come la terra alla semente. Maria mantenne la promessa, e Pietro poté vedere la bella persona di lei ergersi fra l'oro delle spighe come un papavero fiammante.
La valle esultava di messi, all'ombra dei monti selvaggi; il cielo ardeva; i mietitori curvi, stanchi, ma compresi da una gioia quasi religiosa, tagliavano le spighe e tacevano. Solo qualche fanciulla cantava e rideva, e il gorgheggio del suo riso fondevasi col canto delle quaglie, col trillo delle cicale.
Maria stette qualche giorno lassù, nella sua terra, della quale pareva un fiore vivente, e il sole abbronzò e indorò anche il suo viso.
Fra le mietitrici c'era anche Sabina, che in quel tempo perdé l'ultima speranza dell'amore di Pietro.
Nel silenzio del meriggio, quando le falci abbandonate sui covoni brillavano come d'argento, e tutto il paesaggio, giallo di messi e di sole, pareva assopito in una sonnolenza febbrile, e le montagne lontane si fondevano con le vaporosità bluastre dell'orizzonte, i mietitori dormivano all'ombra delle macchie, dispersi qua e là, stanchi, frustati dalla fatica e dal caldo.
Un giorno Sabina, che s'era anch'essa addormentata con le sue compagne, all'ombra di una macchia, si svegliò di soprassalto, e si guardò attorno. Maria non c'era.
Un pensiero, prima vago e informe, passò in mente alla mietitrice innamorata. Silenziosa strisciò fra le stoppie, salì le chine, cauta come una lucertola, nascondendosi ogni tanto fra le macchie, e vide, non vista, che Pietro e Maria, dietro il muro della capanna, si baciavano perdutamente, obliosi d'ogni prudenza. Pareva che si fossero rifugiati là solo per l'ombra.
E soli, nel cerchio del paesaggio fiammeggiante, essi coglievano i baci, l'uno sulle labbra dell'altra, al cospetto del cielo e della terra come i mietitori coglievano le spighe mature.



X.


La notte tra il sette e l'otto settembre un gruppo di fanciulle nuoresi percorreva i sentieri mal tracciati che, attraverso tancas, pascoli aperti e boschi di querce, conducono dalle campagne di Nuoro al monte Gonare.
Le graziose pellegrine notturne si recavano a piedi al santuario che sorge sulla cima del monte Gonare; alcune intendevano di sciogliere un voto, altre domandare una grazia, le più volevano semplicemente divertirsi. L'indomani si celebrava la festa: gente di ogni paese del circondario sarebbe salita a Gonare; c'era da vedere, da ballare, da divertirsi.
Ciascuna delle pellegrine portava seco un piccolo involto con la colazione e il desinare, e teneva gettata sul braccio o sull'omero la tunica di gala da indossarsi solo lassù nel luogo della festa. Alcune camminavano scalze, per voto; una aveva i capelli sciolti sulle spalle e un cero dipinto in mano. Era Maria Noina, che scioglieva un antico voto.
I lunghi capelli neri le ondeggiavano sulle spalle, inumiditi dalla rugiada; la brezza talvolta glieli scompigliava, gettandoglieli sul viso, ma questo fastidio le veniva poi compensato dalla soddisfazione di sentirsi lodare dalle sue compagne di viaggio.
“Sembri una fata, Maria Noina, coi tuoi capelli sciolti.”
“Sembrano i capelli di Mariedda, i tuoi capelli, Maria Noina.”
Mariedda è la fanciulla delle favole, rapita dall'orco; i suoi capelli erano così lunghi ch'ella gittò la sua treccia dalla finestra e il figlio del re se ne servì come d'una corda per salire fino a lei.
“Dio guardi i tuoi capelli, Maria Noina: lascia ch'io li tocchi Per evitarti il malocchio...”
“Preghiamo”, propose Rosa S'ispina, invidiosa delle lodi che le compagne rivolgevano a Maria.
Questa guardò una stella che tremolava sopra il santuario del monte Gonare, e intonò a voce alta il rosario.
Ma la prima a ridere scioccamente fu Rosa, e le compagne non poterono proseguire. Allora Maria propose che ciascuna pregasse per conto proprio, e tutto fu silenzio.
La luna illuminava il vasto paesaggio desolato, le grandi tancas inaridite dall'estate e qua e là annerite da recenti incendi. Qualche fuoco di pastore perduto in quelle solitudini melanconiche appariva misterioso come un fuoco fatuo, come una lingua rossa emergente dalla terra nera, dietro i muricciuoli o fra le stoppie rase e l'asfodelo secco; e in lontananza, da qualche piccola palude formatasi dopo le prime piogge di settembre, saliva una nebbiolina azzurrastra che pareva l'alito della terra febbricitante. Intorno, pel vastissimo circolo dell'orizzonte, le montagne svanivano azzurre nella vaporosità lunare, e su tutte le cose arcanamente tacite vegliavano le stelle, vive sul cielo chiaro e profondo.
Le ragazze camminavano e camminavano, bianche di luna, silenziose e raccolte; i capelli di Maria volavano alla brezza, e pareva volessero staccarsi, seguire il soffio che li accarezzava; ma poi ricadevano sulle spalle della giovine donna, come stanchi e pentiti del loro capriccio.
D'un tratto le ragazze si fermarono, ascoltando. Nel profondo silenzio che precedeva l'alba s'udiva il trotto di parecchi cavalli. Un'eco di voce umana giungeva con la brezza. Chi sarà, chi non sarà? Ecco, sull'ultima linea azzurrognola della tanca si profila una lunga macchia nera che a poco a poco s'avvicina, si divide; ombre di cavalli e di uomini s'allungano sulle stoppie illuminate dalla luna.
“È gente che va alla festa”, disse Maria.
Uomini e donne in costume, i primi con l'archibugio ad armacollo, le altre sedute sulla groppa o in sella o a cavalcioni di piccole achettas (8), apparvero e circondarono le ragazze ferme fra le stoppie.
Nella carovana si distingueva fra tutti un giovine paesano, che montava una calabrina bianca, alta, irrequieta, dalla testa fina e la coda abbondante.
Il giovinotto non era bello, ma aveva una cert'aria di fiera distinzione: col cappottino nero di orbace e di velluto, dal cappuccio rigettato sulle spalle, il fucile scintillante alla luna, la cintura ricamata, gli sproni sopra le ghette che disegnavano due gambe nervose, la sua figura ricordava i cavalieri erranti, o i boriosi hidalghi spagnuoli.
Era infatti un principale, cioè uno di quei ricchi paesani che formano tutta una razza caratteristica, vantano una certa nobiltà di sangue, ed anche un po' di coltura.
“Salute, le nuoresi”, cominciarono a gridare i sopraggiunti, fermando i cavalli vicino alle fanciulle.
“Salute, Nuoro!”
“Volete venire in groppa? Volete da bere?”, chiese un vecchio galante, piegandosi su un fianco per estrarre dalla bisaccia una zucca piena di vino.
“Grazie”, disse vivacemente Maria. “Il vino bevetelo voi, o datelo alle vostre donne, che possano cascare dalla groppa dei vostri cavalli! Così al ritorno potrete pigliar noi.”
“Brava!”, gridò il vecchio. “Vedi che seguo il tuo consiglio!” E mise la zucca sulla bocca e arrovesciò la testa fin sulle spalle per bere meglio, mentre le donne sedute sui cavalli rimbeccavano Maria con parole argute.
“Salute, Maria Noina; vai tu pure alla festa?”, chiese il giovinotto dalla cavalla bianca, curvandosi sulla sella, e parlando piano. “Che bel manto ti copre le spalle; Dio guardi i tuoi capelli. Mi dispiace non poterli toccare.”
“Salute, Francesco Rosana”, ella disse, sollevando il viso e scuotendo indietro i capelli che le arrivarono fino alle anche. E finse di veder solo allora il giovine.
Egli la guardava dall'alto con due occhi avidi; ma incontrando lo sguardo un po' malevolo e beffardo di lei, si fece timido, si raddrizzò in sella e rallentò il freno alla cavalla.
“Franziscu”, disse allora Maria, provocandolo, “al ritorno mi prenderai in groppa al tuo cavallo?”
Francesco si volse di scatto e gridò con impeto:
“Magari subito! Vieni?”.
“Ora no: al ritorno.”
“Va bene! Buona festa, ragazze”, egli disse, raggiante di felicità.
La cavalla sparava calci, si sbatteva la coda sui fianchi, mordeva il freno. Francesco dovette allontanarsi, seguire i suoi compagni; ma per lungo tratto tenne il viso sorridente rivolto verso Maria.
“La cosa è fatta!”, disse malignamente Rosa.
“Che cosa?”
“Il matrimonio. Non vedi che egli è innamorato come una donna?”
“È brutto”, disse Maria.
“Chi disprezza compra.”
“È consigliere comunale.”
“È ricco.”
“Ha quattro tancas: fra poco ne attraverseremo una.”
“È brutto, è brutto. Ha gli occhi belli, ma non guarda mai in viso: ha il naso che sembra il becco d'un avvoltoio.”
“Chi disprezza compra...”
Maria pensava a Pietro, lontano, solo là nella vigna. E sentiva che era giunto il momento di sacrificarlo, e provava pietà di lui, ma come d'una vittima necessaria. Che colpa ne aveva lei? Sapeva forse lei che Francesco Rosana le sarebbe apparso quella notte in mezzo alle tancas, mandatole incontro dal destino?
Cammina, cammina. Ecco, così si cammina nella vita, senza sapere chi si deve incontrare nella propria strada.
L'alba di cristallo perlato risplende dietro le creste lontane dell'Orthobene, dietro le azzurre montagne d'Oliena; lentamente si colorisce di rosa, e le stoppie cominciano a scintillare umide di rugiada: la brezza tace, l'allodola canta nascosta fra le macchie.
Le fanciulle tacevano, e si fermarono ancora una volta nella tetra spianata che circonda la vecchia e misteriosa chiesetta dello Spirito Santo; alcune si lavarono nell'acqua di una pozzanghera stagnante fra giunchi umidi, poi ripresero la via, sempre silenziose, avvolte dal vago splendore dell'ora mattutina.
Cammina, cammina. Maria pensava sempre a Pietro ed a Francesco: il primo s'allontanava dietro di lei, sempre più, sempre più, nello spazio silenzioso; Francesco s'avvicinava, la chiamava, l'aspettava, lassù sulla montagna, avido e avvincente come un avvoltoio.
Così ella seguiva sognando le sue compagne, senza guardare il paesaggio. Attraversarono campi coperti di macchie di rovi e di prugni selvatici, cariche le prime di more lucenti e le altre di bacche violette: passarono fra gruppi di rocce enormi dalle cime forate, battute dal luminoso chiarore dell'aurora. Maria si scosse quando vide le falde della montagna, coperte di boschi che ondeggiavano dorati dal sole nascente. In cima al monte il santuario si profilava grigio fra le rocce rosee di sole, sul cielo azzurro.
Le ragazze s'inginocchiarono e fecero una breve preghiera.
Maria trasse di tasca un pettine, e aiutata dalle compagne si districò e lisciò i capelli; poi ripresero tutte assieme la salita e s'internarono nel bosco di querce rade e nane.
Soltanto allora cominciarono a incontrar gente: gruppi d'uomini, donne, fanciulli di Bitti e d'Orune, a piedi o a cavallo, scendevano dopo aver ascoltato la prima messa e ritornavano ai loro paesetti lontani, perduti fra i monti selvaggi al nord di Nuoro. Gli uomini, scuri in viso, con fieri occhi neri, vestiti di orbace, di saia, di cuoio, ricordavano i mastruccati, ladroni di Cicerone; le donne indossavano costumi ruvidi, di orbace e di panno giallo, non privi però d'una primitiva eleganza.
“Salute, Nuoro!”, dissero i bittesi con la loro pronunzia latina.
“Salute, Orune; salute, Bitti”, risposero le ragazze.
Più in alto incontrarono gente di Olzai, paese noto per il caratteristico sentimento religioso dei suoi abitanti; una donna olzaese, pallida e severa come una monaca, raccontava a una deliziosa fanciulla di Gavoi, dal cappuccio rosso, la leggenda di Santa Barbara.
“La Madonna di Gonare e la nostra Santa Barbara (in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, così sia)”, diceva l'olzaese, segnandosi, “si sono incontrate proprio qui, in questo punto. Si guardarono, si strinsero la mano, poi la Madonna disse:
Barbaredda de Orzai,
Ube nos an a ponner
No nor bidimus mai
(10)”
Infatti il santuario della Madonna di Gonare si vede da tutto il circondario fuorché dalla chiesa di Olzai, dov'è Santa Barbara.
A poco a poco la montagna si popolava; su per i sentieri saliva una folla variopinta: i paesani, le donne, i pastori d'Orane, il villaggio più vicino, formavano quasi una processione.
Sotto le querce nane, nel bosco un po' arido e selvatico, risuonavano mille voci, dall'alto arrivavano grida di fanciulli, di venditori ambulanti, di gente allegra.
Maria si trovò fra la calca, in mezzo a un gruppo d'uomini che ammirandola oltre il necessario le rivolgevano frasi galanti e scherzavano a proposito dei suoi capelli sciolti.
“Sembrano la coda della mia cavalla nera; guarda, Predu Maria, guarda.”
Custa pizzinna (11) sembra davvero la tua cavalla quando le mosche la molestano.”
“Peccato che non si lasci mettere il freno.”
“Predu Maria, prova a montare in sella.”
Maria arrossiva, ma fingeva di pregare, e non rispondeva.
La folla aumentava: da tutti i sentieri, da ogni sfondo di bosco, affluivano cavalli, pedoni, carri tirati da buoi, cani, mendicanti; era gente della Barbagia, erano nuoresi superbi, belle fanciulle di Orane, rosee nella loro benda bianca, donne di Mamojada dal corsetto rosso, pastori d'Orgosolo col costume lanoso e primitivo dei Sardi pelliti: erano azzimati Dorgalesi dai lunghi riccioli, e donne d'Oliena con gl'immancabili cavalli carichi di vino. E salivano anche i Baroniesi dalle calzature di pelle, e tra la folla si distingueva qualche donna del Goceano, pallida e coi grandi occhi arabi, e qualche donna del Campidano, col fazzoletto giallo spiegato sul capo, dorata e rosea in viso come una Madonna bizantina.
Il sole era già alto e penetrava nel bosco quando Maria e le compagne arrivarono all'accampamento dei venditori, intorno alle catapecchie ove qualche famiglia di Nuoro e di Orane passava il tempo della novena.
Prima di fare l'ultima salita fino alla chiesa le fanciulle deposero i loro fardelli e sedettero a piedi d'un albero. Maria guardò se vedeva Francesco, ma fra i numerosi cavalli legati agli alberi non vide la calabrina bianca.
Allora si distrasse alquanto, scosse indietro i capelli e si guardò attorno.
Il luogo non era bello; gli alberi gettavano ombre rade sulla china sparsa di macchie aride, di cespugli grigiastri; fra queste ombre e queste macchie tutto un popolo si agitava, e credeva di divertirsi soltanto perché era convenuto lassù.
I venditori ambulanti vigilavano le loro mercanzie di latta, e gridavano i prezzi e lanciavano scherzi grossolani alle ragazze che passavano; donne di Tonara, strette fasciate in un ruvido costume, insensibili al sole e ai rumori della folla, misuravano nocciuole o segavano e vendevano i loro torroni bianchi che si scioglievano al caldo.
Sotto capanne di frasche i negozianti esponevano le loro stoffe d'occasione; lo scarlatto sanguinava al sole, i broccati scintillavano; tutta una flora inverosimile sbocciava sui fazzoletti e gli scialli paesani.
E intorno alle botti e alle bottiglie dei liquori si accalcavano comitive d'uomini, di amici nuovi e d'amici vecchi incontratisi per caso lassù, e fra i quali spiccava con bizzarro contrasto la figura di qualche borghese. E il vino e i liquori rallegravano l'anima dei fieri paesani: e l'acquavite odorava con un profumo di fiore fatale.
Maria e le compagne mangiarono e poi indossarono la tunica e si avviarono nuovamente verso la chiesa.
Il sentiero s'allargava, aspro, a scalinata, quasi tutto tagliato sulla roccia, fra massi enormi e macchie e alberi sempre più selvaggi e contorti. I costumi colorati delle donne sfolgoravano sullo sfondo luminoso della salita; le voci si perdevano nel silenzio puro delle cime incoronate d'azzurro.
Ma intorno a sé Maria continuava a sentire delle frasi sciocche, qualche volta indecenti; i giovinotti correvano per vederla, si fermavano, la fissavano; era tutta un'esplosione di ammirazione primitiva, che offendeva e lusingava la bella dai capelli sciolti.
Qualcuno domandava:
“Di dove è quella ragazza?”.
“Di Nuoro.”
“No, è d'Orane.”
“No, è d'Orotelli.”
“Di dove sei, bella?”
“Di casa del diavolo”, rispose Rosa, seccata e invidiosa.
Tutti risero e si misero a gridare:
“Viva Nuoro!”.
I mendicanti, fermi presso le croci che sorgevano di tratto in tratto ai lati del sentiero, tendevano la mano e cantavano con voce cadenzata una specie di lamentazione dolorosa. Nessuno ascoltava le loro parole, ma quasi tutti buttavano monete nei berretti deposti per terra.
Maria gettava anch'essa una moneta ad ogni mendicante.
Appena raggiunta la vetta, le ragazze nuoresi entrarono nella vecchia chiesa, già gremita di fedeli, e Maria poté appena aprirsi un varco tra la folla e arrivare fino all'altare.
Il caldo era intenso, e il volto della fanciulla ardeva, bellissimo nella cornice dei capelli sciolti.
Francesco Rosana, appoggiato alla balaustrata dell'altare, si scosse tutto nel vederla, e la fermò toccandole dolcemente il braccio.
“Sei arrivata adesso?”, le domandò con voce sommessa.
“Adesso”, ella rispose, avanzandosi senza guardarlo.
Depose il cero, s'inginocchiò e volle pregare.
“Maria mia di Gonare, ecco sciolto il voto che feci quando mio padre cadde da cavallo. Tu lo hai salvato, Maria, ed io sono venuta scalza ed a capelli sciolti, e ti ho portato un cero di tre libbre... Maria di Gonare, sii lodata...”
Non seppe dir altro, sebbene nel cuore le fremesse un'onda di preghiera. Ma non osava formulare gli oscuri desideri del suo cuore. Avrebbe voluto chiedere alla Madonna di Gonare la grazia di farle dimenticare subito Pietro ed amare colui che la fissava ardentemente, lì, pochi passi distante; ma non osava.
Tre sacerdoti vestiti di bianco e d'oro intonarono la messa: un adolescente con una giubba rossa si mise vicino a Maria, col turibolo acceso che oscillava e fumava.
Allora la folla si accalcò fin sui gradini dell'altare, e Maria dovette alzarsi in piedi. Qualcuno le sfiorò la mano; ella si volse, vide Francesco alle sue spalle e sorrise; allora egli fece di tutto per mettersele vicino, e quasi la cinse e l'abbracciò.
La folla aumentava sempre. Volgendosi, Maria scorgeva un'ondulazione di teste variopinte, e attraverso la porta spalancata, in un quadro di luce vivissima, vedeva altra folla, altra folla ancora, stretta, pigiata sulla spianata della chiesa e sui dirupi intorno. Ella non aveva mai veduto uno spettacolo più importante, un quadro più luminoso e colorato, neppure nei giorni della settimana santa nella cattedrale di Nuoro. Erano costumi e tipi di quindici o venti villaggi; vecchie teste ieratiche di pastori; figure di nobili, aristocratiche come figure di duchi autentici; profili bronzini di isolani delle montagne; lunghe capigliature preistoriche; visini di cammeo, occhi saraceni neri e profondi come la notte; bocche rosse e guance pallide; teste avvolte in bende gialle, nere, bianche, coperte da cappucci, acconciate all'orientale, nascoste da larghi fazzoletti frangiati, velate di merletti, inquadrate da bende dure inamidate.
Qualche altra donna coi capelli sciolti appariva tra la folla, ma nessuna aveva la magnifica chioma di Maria: quando, all'Elevazione, ella si inginocchiò, spingendosi verso il sacrista rosso, i suoi capelli sfiorarono il suolo.
Francesco non cessava un momento di guardarla, e talvolta i loro occhi s'incontravano. Ella pensava sempre a Pietro; nei momenti di distrazione e di sogno vedeva davanti a sé i dolci occhi chiari che l'avevano guardata come nessun altro uomo avrebbe saputo più guardarla; ma volgendosi incontrava gli occhi neri e vivi di Francesco e li fissava con abbandono e con tristezza.
Sì, il sogno era finito; la realtà cominciava. D'altronde ella si sentiva triste, ma non molto. Francesco era brutto, ma aveva una fisionomia dolce, buona, che inspirava confidenza.
Tutto non si può avere, nella vita: bisogna sapersi contentare...
I fedeli cantavano i Gosos (12), con un motivo melanconico che pareva il lamento di un popolo abbandonato:
Sas roccas distillan perlas,
Sas mattas grassias e donos;
Cun milli boghes e tonos
T'acclaman sas aes bellas
Sas relughentes istellas
Falan prò t'incoronare.
(13)


XI.


Appena uscita dalla chiesetta, Maria raccolse i capelli in due grosse trecce, che attortigliò sulla nuca, e s'avvolse la testa con un fazzoletto scuro.
Francesco la seguiva e vedendo che le compagne di lei s'erano smarrite tra la folla le disse:
“Vieni con me, laggiù, fra quelle rocce. I Nuoresi sono tutti laggiù. Guarderemo la corsa dei cavalli”.
Maria accettò l'invito, e sorrise quando egli ricominciò a farle la corte. Scesero assieme fino alle rocce, un po' al di sotto della spianata, e trovarono un gruppo di Nuoresi intenti a guardare i cavalli che correvano nel sottostante altipiano. Da quell'altezza i cavalli sembravano topi, montati da fantini lillipuziani. La folla s'era sparsa sulla spianata e fra i dirupi; grida selvagge risuonavano intorno. Tutti parlavano dei premi, consistenti in buoi, denaro, drappi di velluto e di broccato.
Maria si divertiva assai; vicino a lei alcune donne d'Orotelli si porgevano di mano in mano una fiala, nella quale introducevano il dito mignolo che poi si passavano religiosamente sulle palpebre.
“Cos'è?”, domandò Maria.
“È il miracoloso olio della lampada di Nostra Signora, che preserva dal mal d'occhi”, rispose Francesco con ironia.
Ma ella non rise: anzi chiamò una delle Orotellesi.
“Mi dai quella fiala d'olio benedetto? Mia madre soffre spesso mal d'occhi.”
“No, bella mia, non posso; se vuoi, puoi servirtene tu, ora...”
“I suoi occhi non han bisogno di medicine”, disse Francesco. “Non vedi come son belli; o sei cieca?”
“Ti do una lira”, insisté Maria.
“Anche se tu mi dessi mille scudi non accetterei, bella mia...”
“Va in pace, allora...”
“Maria”, disse Francesco, “vuoi che domandi il binocolo a quel signore? Guarderemo verso Nuoro.”
“Ma sì, Francesco”, ella rispose, sorridendogli.
Francesco domandò il binocolo e lo avvicinò agli occhi di lei; e mentre ella guardava le cinse le spalle con un braccio e le disse:
“Guarda: quel villaggio qui sotto è Sarule; vedi quel bosco più in là? Due anni fa, io ci stetti tre mesi, in quel bosco, dove pascolavano le mie vacche. Guarda da questa parte lontano: vedi, quella è la pianura di Macomer. Peccato che oggi ci sia un po' di nebbia; la giornata si guasta. Ma un altro anno verremo assieme, non è vero?”.
Ella non rispose.
Le compagne di viaggio le si avvicinarono e cominciarono a scherzare e fare allusioni maliziose. Poi tutta la comitiva dei Nuoresi ridiscese verso il bosco. A metà strada Maria si fermò presso un masso calcareo, sul quale si appoggiavano alcune donne di Alà; altre avvolgevano in pezzetti di carta e serbavano religiosamente alcuni pizzichi di polvere che raschiavano dal masso.
“Qui”, spiegò una vecchietta, cieca di un occhio, “qui s'è appoggiata Nostra Signora Santissima quando saliva la montagna. L'appoggiarsi su questo masso preserva dai dolori alle spalle, e la polvere qui sopra raccolta guarisce la febbre.”
“Se non erro”, disse allora Francesco, parlando in italiano, “questo è il monte dei miracoli.”
“Miscredente!”, esclamò Maria, appoggiandosi al masso.
Ma vedendo che anche lui s'appoggiava vicino a lei, cominciò a ridere e domandò:
“Ma insomma, credi o non credi?”.
“Credo in te, Maria, e vado dove tu vai.”
Questa galanteria le piacque molto; sì, certo, Francesco era grazioso e gentile.
Da quel momento non si lasciarono più.
Ritornati nel bosco, i Nuoresi s'indugiarono alquanto intorno a una comitiva di paesani che ballavano il ballo sardo; poi fecero alcune compre e s'avviarono al ritorno, proponendosi di fermarsi ancora a metà strada, nella tanca di Francesco Rosana.
Come aveva promesso, Maria sedette sulla groppa del cavallo di Francesco, e cinse col suo braccio la vita del cavaliere. E la comitiva si avviò.
Il giovine proprietario sentiva il busto di Maria appoggiarsi lievemente alle sue spalle, stringeva nella sua la mano cara, e si sentiva felice come non lo era stato mai.
“Mi sembra d'essere ubriaco”, disse sottovoce; “meno male che tu mi sostieni...”
Rosa S'ispina, in groppa a un ronzino montato da un vecchio paesano, guardava ogni tanto la cavalla bianca di Francesco e faceva una smorfia maligna.
Prima di arrivare alla chiesetta dello Spirito Santo tutti smontarono e pranzarono all'ombra di un boschetto di querce.
“Guarda”, disse Rosa a una compagna, additandole Maria e Francesco, “fanno all'amore in modo scandaloso.”
“Sei gelosa?”, chiese l'altra.
“Di chi? Di quel porco spino?”
“Chi è il porco spino?”, domandò uno della comitiva.
“Tu”, rispose la ragazza.
Maria indovinò di chi si trattava e arrossì di stizza. Sì, Francesco era brutto davvero; più lo guardava meno le piaceva, così pallido, terreo, con le mascelle sporgenti e la rada barbetta nera, la fronte bassa, corrugata, il naso aquilino che gli dava un'aria d'uccello da preda. Ma i suoi occhi eran dolci, il sorriso buono; eppoi egli vestiva con eleganza, calzava stivaletti signorili, portava l'orologio, il fazzoletto bianco con la cifra; era insomma un giovine distinto, un uomo ricco, e Rosa poteva ben schiantare d'invidia.
Inoltre le tancas vastissime che circondano la chiesetta dello Spirito Santo appartenevano a Francesco; era suo il bosco dove la comitiva s'indugiava a meriggiare, suo il ruscello, sue le vacche pascolanti; e tutto questo formava come una magnifica cornice intorno alla figura non bella del giovine possidente.
Il sole cominciava a declinare quando la comitiva riprese il viaggio. Il pasto, il vino, l'ora, rendevano allegri, ma d'un'allegria alquanto sentimentale, i cavalieri e le fanciulle. Queste, sedute in groppa ai cavalli un po' stanchi, si abbandonavano mollemente sulle spalle dei giovinotti, e questi stringevano loro la mano con dolcezza.
Il sole calava sul cielo turchino; una dolcezza ardente era nel paesaggio deserto, sul cui sfondo dorato le ombre degli alberi e delle macchie spiccavano vivamente; i ruscelli e le acque stagnanti riflettevano i roveti e i giunchi della riva e sprizzavano scintille verdi al passar dei cavalli.
Francesco spronava la sua bella calabrina e precedeva sempre i compagni di viaggio; poi, con la scusa di attenderli, fermava la cavalla e si volgeva indietro per guardare. E i suoi occhi si fermavano sempre sul viso di Maria, ardenti e avidi. Ella chinava gli occhi, ma spesso rideva, e le fossette delle sue guance finivano di entusiasmare l'innamorato cavaliere.
Finalmente Francesco, durante un'ultima tappa prima d'arrivare a Nuoro, dichiarò il suo amore alla fanciulla.
“Maria”, disse, “vorrei farti una domanda. Oggi tu sei stata così gentile con me, che finalmente ho il coraggio d'aprirti tutto il mio cuore.”
“Parla”, ella rispose semplicemente.
La voce però le tremava alquanto, e un velo di tristezza le copriva gli occhi.
“Senti Maria, e scusami se oso tanto. Sei libera? Hai qualche impegno amoroso?”
Ella pensò a colui che, sebbene scacciato, tornava sempre nell'anima sua. E un impeto di pietà e di umiliazione la assalì: pietà per lui, umiliazione per se stessa che si era abbassata ad amare un servo. Che avrebbe detto Francesco Rosana s'ella confessava la verità?
Ma ella taceva e il giovine le strinse la mano, sollecitando la risposta. Ella si morsicò il labbro inferiore, guardò lontano, e per un istante ebbe l'idea generosa di confessare la sua passione disgraziata; ma subito arrossì di questa idea pericolosa.
“Sono libera”, rispose.
“Vuoi allora diventare mia sposa? Lo dirò subito a tuo padre.”
“Francesco”, ella disse con serietà, “io ti ringrazio molto dell'onore che mi fai, ma capirai che non posso subito darti una risposta. Lasciami un po' pensare; fra due settimane ti farò sapere qualcosa.”
“Quindici giorni!”, egli esclamò. “Quanto sono lunghi! Ma sia pure.”
Egli non disse altro; ma strinse forte la mano che ella teneva sempre appoggiata alla cintura di lui, e sospirò più volte.
Sì, egli le voleva bene, forse quanto gliene voleva quel disgraziato servo... Ella chinò il viso, e due lagrime di dolore caddero sul suo seno commosso. Ma fu un istante. Già si scorgevano le prime case di Nuoro, nel luminoso crepuscolo di settembre. I paesani che attraversavano lo stradale si fermavano e salutavano Francesco con rispettosa deferenza; i compagni di viaggio spronavano i cavalli e si riunirono per rientrare tutti assieme in città.
Maria scosse la testa, quasi per scacciarne i pensieri tristi, e sollevò fieramente il viso. La comitiva rientrò trionfalmente in città, e Francesco propose ai cavalieri di condurre a cavallo fino alle rispettive case le donne che li avevano onorati della loro compagnia. Così egli attraversò tutta la città, e poté passare davanti alla sua casa.
“Vedi”, egli disse, additando a Maria una casa bianca con quattro finestre aperte, “tu sai che quella è la mia casa. Dietro c'è l'orto con un bel mandorlo, un melograno, un pergolato. Ti piace?”
“Non l'ho mai visitata, la tua casa”, ella rispose, guardando le finestre.
“In estate c'è fresco nell'orto”, egli riprese. E aggiunse, sottovoce:
“Prenderemo il fresco sotto il pergolato, non è vero, Maria?”.
“Non so ancora...”, ella rispose timidamente.
“Ma la casa ti piace, non è vero? La strada è bella; di carnevale è sempre piena di maschere e di gente allegra...”
Salude sos festaresos”, salutavano le vicine di Francesco, uscendo sulle porte. “Vi siete divertiti? Ci avete portato del torrone?”
“Comare mia, l'abbiamo perduto per via, poiché i sorci hanno bucate le nostre bisacce!”, diceva scherzando il giovine proprietario, mentre Maria salutava col capo, sorridendo alle sue future vicine.
Intanto zia Luisa aspettava, filando, ritta sul limitare del portone.
Qualcuno passò e le annunziò che Maria ritornava, seduta in groppa alla cavalla di Francesco Rosana. Un lieve rossore colorì il viso scialbo di zia Luisa: poi ella si toccò il corsetto, per assicurarsi che era allacciato, si ricompose la benda intorno al volto, strinse le labbra e attese, solenne e imponente. Appena vide i due giovani e distinse la mano di Francesco posata su quella di Maria, disse a se stessa che il matrimonio era bell'e concluso e si sentì giustamente assalita da un impeto di gioia.
Salude sos festaresos”, salutò agitando il fuso . “Non smonti dunque, Francesco Rosana?”
“No, è tardi”, egli rispose, aiutando Maria a smontare. “Verrò un altro giorno.”
“Ebbene, ti degnerai almeno di attendere un momento? Accetterai un bicchiere di vino?”
“Date pure.”
Zia Luisa andò a prendere il vino, e Maria rimase ancora un momento sola con Francesco.
“Fra due settimane, non è vero?”
“Fra due settimane...”



XII.


Le due settimane passarono.
Francesco Rosana frequentava la casa di Maria, andava spesso in giro con zio Nicola, passava qualche volta nella via. Era veramente innamorato, tutti se ne accorgevano ed egli non lo nascondeva.
Ma, trascorsi i quindici giorni, Maria ne chiese altri sette per decidersi.
“Ancora!”, disse Francesco, quasi offeso. “Ma questo è un martirio.”
Credeva però che Maria lo tormentasse così per provare il suo amore: e attese, sempre più impaziente. Già i regali fioccavano, da casa Rosana a casa Noina; quasi ogni giorno le vicine e il bettoliere curioso vedevano arrivare una donna di servizio, che teneva sul capo un canestro ben coperto da un tovagliolo bianco.
“Sarà un canestro di frutta”, diceva il bettoliere, scacciando le mosche dalla sua botteguccia.
“No, saranno dei biscotti con la cappa (14)”, rispondeva una vicina dalla porta di contro.
“Scommettiamo?”
“Peccato non sia in paese Pietro Benu; lui avrebbe saputo dirci qualche cosa. Perché poi, dopo tutto, non si sa nulla: non si sa se si sposano o no.”
“Maria ha domandato un mese di tempo per decidersi”, diceva il bettoliere, che pareva molto bene informato. “Non si capisce perché quella donna non si decida. Voglio domandarglielo.”
Un giorno infatti entrò dai Noina per comprare una misura di grano e chiese a Maria:
“Zia, quando vi sposate?”.
“Dio solo lo sa.”
“Come Dio? Voi lo dovete sapere. Francesco Rosana si consuma, aspettando la vostra risposta.”
“Come sapete ciò?”, chiese l'altra, meravigliata.
“Me lo ha detto un uccello! Anche gli uccelli lo sanno! Chi non conosce il segreto?... Misurate bene il grano, zia!”
Ella pensò a Pietro, che in quei giorni si trovava nella vigna. Sapeva anche lui? Un lieve involontario spavento l'assalì.
“No, no”, disse, versando il grano polveroso nella sacca del bettoliere. “Io non mi sposo, non mi sposerò mai. La gente chiacchiera, ma io non so nulla.”
“Chi volete dunque per marito, se Francesco Rosana non vi piace? Così ricco, così simpatico, così gentile? Sembra un cavaliere vestito in costume. Degno di voi, zia! Una coppia così bella! Decidetevi, decidetevi...”
Anche gli altri vicini, specialmente le donnicciuole, lodavano continuamente Francesco, e consigliavano Maria d'accettarlo per sposo.
Intanto Pietro aveva compiuto il suo anno di servizio e rinnovato il contratto per un altro anno.
Maria, veramente, aveva cercato di convincere il padre a non rinnovare il contratto, ma zio Nicola l'aveva guardata da capo a piedi con disprezzo e meraviglia.
“Come sono sciocche le donne! Sciocche tutte! Perché vuoi licenziare quel servo? Dove ne troverai uno migliore? Se Pietro Benu è la perla dei servi? Ecco, tu sei come colui che cercava del pane migliore del pane di frumento...”
Pietro lavorava nella vigna e sognava. Qualche voce vaga, sul possibile fidanzamento di Maria, era giunta fino a lui, ma già altre volte egli aveva sentito chiacchiere e notizie false, a proposito del matrimonio di Francesco con la sua giovine padrona, e non credeva più a nulla. Egli era cieco e sordo; viveva tutto della sua passione, lontano dalla realtà, come relegato in un'isola di sogni.
Il tempo era dolce, sereno; la vigna maturava all'ombra della montagna cinerea sulle cui falde i lentischi abbruciati da qualche incendio sembravano melanconiche macchie di ruggine.
Pietro guardava sempre in su, verso lo stradale, con la speranza di veder giungere Maria; Maria invece pensava a lui quasi con odio. Perché si era fatto amare, quel servo? Perché si era messo sulla sua via, come una pietra che bisognava saltare con pericolo?
Spesso, bisogna dirlo, bastava il ricordo degli occhi e dei baci del povero servo perché Maria rivolgesse il suo rancore contro Francesco; quel ricordo destava in lei un tumulto di passione e di rimorso, la incatenava al passato, la faceva piangere di angoscia e di desiderio. Ma poi una vicina veniva per comprare orzo o frumento o mandorle, guardava sorridendo servilmente la giovine proprietaria e le diceva:
“L'hai visto passare?... Fa pena davvero! È diventato magro... Eh, via, sei più dura di queste mandorle: hai il cuore nero, tu! E dire che egli è così ricco, così grazioso! Il più bel giovine di Nuoro; il più ben vestito! Bada di non pentirti Maria!”.
Ed ella ricadeva nei suoi sogni ambiziosi.
Vennero i giorni della vendemmia. Pietro ritornò in paese, e a mala pena ottenne da Maria un breve colloquio notturno.
“Sono malata”, ella gli disse. “Ho la febbre: senti come brucio. Ho paura di morire.”
Scottava davvero, era pallida e tremava. Pietro la fermò un momento, poi la pregò di ritirarsi, di mettersi a letto e di curarsi.
Ella s'avviò barcollando: quando fu vicina alla porta si volse e disse:
“Pietro, bisogna esser prudenti. In questi giorni ho rifiutato un grosso partito, e mio padre e mia madre sospettano che io abbia qualche passione in cuore. Sarai prudente? Farai tutto quello che vorrò io?”
“Tutto, tutto, cuore mio! Dimmi di buttarmi sul fuoco, dimmi di tagliarmi le mani...”
“Non tanto! Basta che non cerchi di vedermi e di parlarmi spesso...”
“Come tu vorrai”, egli esclamò, esaltato.
Avrebbe voluto chiederle chi era il "grosso partito" rifiutato, ma pensò a Francesco Rosana, e non osò trattenerla più a lungo. Poveretta, aveva la febbre.
La seguì con gli occhi, mentre ella attraversava il cortile illuminato dalla luna, e gli parve che ella piangesse.

Per segreta suggestione di Maria, zia Luisa fece partir Pietro subito dopo la vendemmia.
Come l'anno passato, egli si recava sull'altipiano, per la seminagione: il suo carro era carico di sementi e di provviste; il vomero intatto brillava sulla punta dell'aratro.
Era una sera di luna, una sera di ottobre, dolce e tiepida. Pietro era ripartito senza aver riabbracciato Maria, e spasimava d'amore e di tristezza. Ella non era più la stessa, no; ella era mutata, sofferente, infelice. Tutto per lui, sì, tutto per lui. Perché egli se n'era ben accorto: zia Luisa e zio Nicola la trattavano con freddezza sdegnosa perché ella non voleva accettare la domanda di matrimonio di Francesco Rosana.
"Per paura dei suoi genitori ella non mi ha più permesso di vederla durante la notte", pensava Pietro. "Ed ora passerà tanto tempo..."
No, egli non poteva proseguire la strada. Si fermò in un podere, raccomandò ad un contadino il suo carro ed i buoi, legò il cane perché non lo seguisse, e rifece la via...
Camminava come un sonnambulo, spinto da una forza misteriosa. Il cuore gli batteva d'angoscia e di amore. S'aggirò cautamente intorno alla casa dei padroni, vide zio Nicola nella bettola, batté al portone. Maria venne ad aprire.
“Pietro!”, ella disse con spavento. “Perché sei tornato?”
“Non ho potuto... non ho potuto proseguire...”, egli rispose anelante e fremente. “Perdonami: non ho potuto. Son tornato per vederti... Dimmi che cosa succede, Maria, dimmelo subito .. Dimmi che hai, e perché non possiamo vederci più come prima...”
Supplicava e basiva e pareva dovesse cader fulminato ai piedi di lei.
Ella lo guardava, tremante di paura e di pietà. Ah, sì, il povero servo la amava, la amava più che non l'amasse il ricco proprietario; ma che poteva ella fare? Per un attimo ebbe l'idea generosa di rivelare a Pietro tutta la verità; ma il coraggio le mancò. Mentì ancora, mentì sempre.
“Ma non lo sai, dunque”, disse con voce dolce, “non lo sai che i miei genitori vigilano? Non te lo dissi già? Ho rifiutato più d'una proposta di matrimonio... e loro dubitano che io sia innamorata... Innamorata di te... Vattene, Pietro, sii prudente; non farmi soffrire...”
“Mai; vorrei piuttosto morire che farti soffrire...”, egli disse fervidamente. “Ma ho bisogno di vederti, qualche volta, Maria; ho bisogno di te come del pane e dell'acqua. Ritornerò, qualche volta. Qualche volta, Maria!”
“No, no, in segreto mai! Sii buono, Pietro, non farmi soffrire. Ed ora vattene, vattene...”
Ella lo spingeva, davvero paurosa che venissero sorpresi; ma egli non poteva allontanarsi, non poteva muoversi. Avrebbe voluto morire, sentiva una grande sventura pesargli sul capo.
“Lascia almeno, Maria! È tanto tempo...”
Con impeto folle la strinse a sé; la baciò sulle labbra con l'avidità di un affamato. Ella non poté resistere; lo baciò e pianse disperatamente.

Da circa due settimane Pietro aveva ripreso possesso del melanconico altipiano, e lavorava alacremente.
Una sera, ai primi di novembre, passò di là un giovine contadino nuorese che gli portò un cestino di provviste.
Pietro lo invitò ad entrare nella capanna ed a riposarsi accanto al fuoco; anche Malafede s'aggirava intorno al viandante, fiutandogli le vesti e leccandogli le mani. Ma il giovine aveva fretta. Curvo sull'apertura della capanna, porgeva il cestino e salutava.
“Dammi almeno qualche notizia dei miei padroni”, disse Pietro.
“Maria s'è finalmente decisa a fidanzarsi con Francesco Rosana. Il toscano dice ch'è stato lui a convincerla”, rispose l'altro, ridendo.
“Cosa mi racconti?”, gridò Pietro, slanciandosi violentemente contro il viandante.
“Oh, come, non lo sapevi?...”, disse una voce.
Oh, che era? Una voce umana, o la voce del vento, o il latrare del cane? Pietro non seppe: sentì un urlo, poi un rumore stridente, come d'una sega che gli aprisse il cranio, che gli penetrasse fino alla gola, al petto, alle viscere... Le sue labbra si schiusero, fredde e pesanti come labbra di marmo; i suoi occhi videro l'ombra d'un mostro che gli si avventava addosso per strozzarlo.
Fu un attimo. Il viandante non finiva di pronunziare la frase "come, non lo sapevi?" che già la vertigine era cessata.
“No, non è possibile”, egli mormorò come fra sé; “tu t'inganni. Maria ha rifiutato Francesco. Lo disse a me.”
L'altro aveva fretta d'andarsene; nella penombra non aveva veduto il viso sconvolto di Pietro, e quindi rispose tranquillamente:
“Non so. Certo è che tutte le sere Francesco Rosana va a visitare Maria, e quasi ogni giorno manda regali. Tutti dicono che gli è stata concessa l'entrata (15) in casa Noina. E del resto, cosa c'importa? Addio. Mettiti a bagno” (16).
Il viandante s'allontanò, ma Pietro fischiò per richiamarlo.
“Senti, tu! Mi dimenticavo. Io volevo stasera ritornare a Nuoro per un mio affare; se zia Luisa t'interrogherà, le dirai che io ero già partito, quando tu sei passato. Hai capito? Così dirò che ritorno per rifornirmi di viveri.”
“Va bene, buona notte.”
Pietro s'avviò, più cieco e triste della notte. Perché andava? Dove andava? Che avrebbe fatto? Egli non lo sapeva, ma andava. Andava come l'ariete che spinto dal prurito della sua testa rosa da un verme va a sbatterla contro una pietra, un tronco, un ostacolo qualunque.
Bisognava camminare, vedere, cercare un sollievo peggiore del male.
Per un buon tratto di strada camminò così, spinto da un impulso cieco: le tempie gli battevano forte, gli pareva di sentire un galoppo di cavalli su una strada rocciosa; vedeva grandi macchie violette volteggiare nell'aria fredda della notte.
Ma a poco a poco si riebbe. Guardò il cielo, per indovinare l'ora dal corso delle stelle, vide Giove, verde e brillante, poco alto sull'orizzonte cristallino, e pensò:
"Saranno le sette: fra un'ora e mezzo sarò là. Oggi è sabato. Se la notizia è vera trovo Francesco Rosana ancora ... Se lo trovo mi metto su di lui e lo strozzo... No, Maria non lo ama, non lo vuole! Ella non può tradirmi, così, come Giuda tradì Cristo. Dev'essere stata la famiglia a imporle il fidanzamento. Ed ella, timida e paurosa, ha ceduto... Come ella deve soffrire! Chi sa, forse è stata lei a farmi avere la notizia, ed ora mi aspetta...
Più andava, più il dubbio del tradimento si dileguava dalla sua anima smarrita: in fila serrata i ricordi gli ripassavano nella mente; ogni sguardo, ogni promessa, ogni parola di Maria gli ritornava nella memoria, destandogli un sentimento di profonda tenerezza.
In meno di due ore attraversò e risalì la valle; correva, ansava, smaniava; gli pareva di andare verso un luogo pericoloso, per salvare Maria da un incendio, per strapparla ad un destino abbominevole. Stendeva le braccia in avanti, e stringeva i pugni quasi per misurare la sua forza ed esercitarsi per la prossima lotta contro un nemico ignoto. Tutti gli istinti dell'uomo primitivo risorgevano in lui.
"Lo ucciderò... lo strozzerò, lo getterò a terra e come un albero schiantato dall'uragano. Lo ucciderò, lo ucciderò!..."
Per lungo tratto di strada non fece che ripetere queste parole: gli sembrava di urlarle, le sentiva ripetute dal rumore dei suoi passi, dal palpito delle sue tempia, dalla pulsazione violenta del suo cuore e della sua gola.
E più s'avvicinava a Nuoro più sentiva di odiare Francesco, più Maria gli appariva come una vittima...
Giunto davanti alla chiesetta della Solitudine si fermò di botto, ripreso bruscamente dal senso della realtà. Là, davanti a lui, Nuoro stendeva le sue casette nere e silenziose; qualche fanale rosso brillava nel buio; una campana annunziava il coprifuoco, l'ora del riposo, dei sogni e dei delitti...
"Dove, dove vado io?", si domandò Pietro.
Un soffio di vento veniva giù dall'Orthobene nero; gli batté alle spalle, gli gelò il sudore, lo avvolse tutto come in un lenzuolo funebre.
Sì, dove andava? Fra pochi istanti sarebbe arrivato, sarebbe rientrato nella casa dei padroni. Francesco Rosana forse era già partito; ma fosse pure ancora là, che avrebbe fatto egli, il povero servo? Avrebbe salutato, niente altro che salutato...
"Ebbene", pensò, avviandosi, "io non rientrerò: spierò, e dopo aver visto uscire quell'immondezza cercherò di rientrare e di riveder Maria. Bisogna prima intenderci con lei; poi vedrò che cosa conviene fare".
Ma d'un tratto sentì un respiro ansante, un anelito quasi umano, e prima ancora ch'egli avesse avuto tempo di voltarsi, Malafede lo raggiunse e gli passò avanti.
“C'è il cane”, egli disse a voce alta; “come si fa ora?”
Imprecò, fischiò, ma il cane, tutto fremente di gioia e di stanchezza, correva dritto verso il paese.
Allora Pietro pensò che doveva rientrare subito a casa: ma a misura che s'avvicinava il cuore gli tornava a battere forte, e i pensieri gli si confondevano nella mente.
"Se io lo trovo là lo uccido, mi getto sopra di lui come un cane arrabbiato. Come si fa? È meglio che aspetti fuori; non voglio perdermi... no... perché Maria, ne son certo, mi ama ancora... Devo, devo frenarmi, devo vincermi... per amor suo."
Davanti alla casa dei padroni si fermò. Malafede raschiava il portone e guaiva; egli lo afferrò per il collare e lo trascinò fino allo svolto del muro.
Il cane si scuoteva tutto e abbaiava; Pietro, curvo e ansante, lo accarezzava, lo supplicava:
“Sta zitto, diavolo; sii buono, sta zitto...”.
Quanto tempo lui e il cane stettero lì dietro il muro, agitati da una lotta innocua ma ostinata? Egli non calcolò il tempo, ma gli parve lunghissimo.
D'improvviso un quadrato di luce rossastra tremolò sulla via, davanti al portone che si apriva: un uomo uscì, si fermò un momento, finì di dire qualche cosa, poi salutò:
“Buona notte, Maria”.
“Addio, Francesco.”
Pietro si sentì morire: il cane gli sfuggì di mano; egli si rizzò, s'avvicinò, si fermò anche lui sul quadrato di luce, e vide come in un sogno la figura di Maria. Ella teneva la candela in mano; vedendo Pietro impallidì e lo guardò spaventata, ma il cane era già in cucina e zio Nicola s'affacciava alla porta gridando:
“C'è qui Malafede! Oh, che diavolo vuol dire? Ah, ci sei anche tu, bello mio?”.
Pietro non l'ascoltava: guardava Maria, e Maria si allontanava dal portone.
Non una parola fu scambiata; ma egli intese che tutto per lui era finito. Entrò e chiuse il portone.
“Buona notte”, disse poi, attraversando il cortile. “Ah, voi non m'aspettavate certo?”
Maria sentì che egli si rivolgeva a lei: ebbe paura; istintivamente spense la candela e si rifugiò in cucina, dietro le spalle di Zio Nicola.
Ma Pietro non le rivolse più neppure lo sguardo.
Egli entrò e sedette accanto al fuoco, nell'angolo dove aveva trascorso tante ore felici, sullo sgabello forse abbandonato dal suo rivale... Sentiva un desiderio feroce di urlare, di rompere e devastare tutto intorno a sé; avrebbe voluto prendere un tizzone ardente dal focolare, scuoterlo in giro, appiccare il fuoco a tutto, a tutti, perire in questo incendio d'odio e di disperazione. E non mosse una mano, non sollevò gli occhi. Il dolore lo paralizzava.
“Tu sembri un cadavere”, disse zia Luisa, guardandolo con uno sguardo meno indifferente del solito. “Sei malato?”
“Sì, sono malato. Son tornato per ciò. Ho la febbre. Datemi del chinino e ripartirò subito.”
“Hai fatto bene. Ma giacché sei qui, riposati: ripartirai domani mattina. Sì, ti darò il chinino; ne ho comprato giusto una boccetta; anche Maria ha avuto la febbre.”
“Anche lei!”, disse Pietro, come fra sé.
Sollevò gli occhi, si guardò attorno. Nulla era mutato intorno a lui: le figure erano sempre le stesse, zia Luisa filava, zio Nicola stringeva il bastone fra le gambe, Maria volgeva le spalle, riordinando alcuni bicchieri in un vassoio deposto sopra il forno.
Ma egli aveva l'impressione di trovarsi in un mondo nuovo, in un luogo triste e quasi lugubre: gli pareva di esser morto; sì, qualcuno lo aveva percosso con una pietra, sul cranio, e l'aveva ucciso; il Pietro che ora respirava in lui era un altro, e riviveva in un luogo di morte e di dolore.
“Sì, tu sembri un cadavere”, ripeté zia Luisa. “Prendi subito un po' di chinino. Avrai fame, anche.”
“Vi dico che ho la febbre: non ho fame.”
“Febbre d'amore”, disse zio Nicola, battendo sul pomo del bastone la tabacchiera di corno turata con un tappo di sughero intagliato.
“Vi dico che ho la febbre”, ripeté Pietro, irritato.
“Eh, diavolo, mi pare che hai anche il delirio, bello mio! Non gridare così! Se hai la febbre, coricati”, disse il padrone. “Ma almeno un bicchiere lo bevi, eh? Da' qui da bere, Maria. Voltati dunque; oh che vedi ancora la figura di Francesco Rosana dentro quel bicchiere?”
Maria si scostò, ma non si volse: allora Pietro vide i bicchieri in uno dei quali doveva appunto aver bevuto Francesco. E respinse con ribrezzo quello che Maria venne lentamente a porgergli.
Ah, il cuore gli si infrangeva: avrebbe dato tutto il resto della sua vita per trovarsi solo con Maria e domandarle la spiegazione di quello che a lui pareva un abominevole mistero.
Ma ella porse il bicchiere a zio Nicola, poi si allontanò ancora, fece lentamente il giro della cucina, uscì e non rientrò più.
"Ha paura di me", pensò il servo. "Perché, perché ha paura? Che posso farle io? Non ho giurato di non farle mai del male? Ella è vile; è vile, vile; ma io l'amo più di me stesso e se ella mi domandasse perdono..."
Non sapeva perché, pensando a lei diventava debole come un bambino; ma d'improvviso sentì nuovamente come un lontano galoppo di cavalli, una fiamma gli bruciò il viso, una nube rossa gli passò davanti agli occhi.
Uccidere, uccidere! Bisognava uccidere qualcuno, bisognava bere un po' di sangue umano per estinguere la sete terribile che gli bruciava la gola.
"Stanotte strangolo zio Nicola, questo cinghiale rosso e sciocco..."
Ma dopo che zia Luisa si fu ritirata, il padrone sollevò il bastone e lo batté lievemente sulle spalle del servo.
Pietro trasalì; parve svegliarsi da un sogno.
“Che c'è?”
“Buone notizie”, disse zio Nicola, con voce ironica. “Ora te le racconto.”
Spiegò un gran fazzoletto turchino, lo scosse sul fuoco, poi si soffiò rumorosamente il naso.
“Sì, buone notizie, almeno si dice così. - Prendi tabacco, Pietro Benu? No? Allora, buona notte! Sì, anch'io ho cominciato a prender tabacco: invecchio. E lasciamo andare! Dunque mia figlia Maria sposa Francesco Rosana.”
Pietro ascoltava e taceva. Le ultime parole del padrone lo colpirono come bastonate. Ah, ebbene, sì, fino a quel momento egli aveva sperato d'ingannarsi!
“Come si fa?”, proseguì zio Nicola. “Si poteva aspettare ancora, si poteva sposare un bel giovine; ma alle donne, oramai, credi pure, piacciono gli uomini brutti. Tu sei un bel giovine, per esempio; ma credi tu che piacerai alle donne? Passati quei tempi, bello mio! Il cuculo non canta più... Sì, bello mio, zia Luisa lo vuole, Maria lo vuole, tutto il mondo lo vuole...”
“Chi?”
“Chi? Sei sordo? Non ho nominato Francesco Rosana? Giovine ricco, spaccone, consigliere comunale. È vero che Maria poteva sposare un borghese, un medico, un avvocato; ma gli avvocati, dice zia Luisa, sono spiantati. Dunque, sai tu chi ha fatto la domanda di matrimonio? Indovina un po'.”
Pietro sollevò il capo, fece il suo solito gesto sprezzante.
“Il sindaco, bello mio; il sindaco in pelle ed ossa”, annunziò il padrone: e voleva essere ironico, ma non riusciva a nascondere una certa soddisfazione vanitosa. “Benissimo”, proseguì, levandosi la berretta e rimettendosela un po' di sbieco sul testone arruffato. “Faremo come vorrete voi. Soldi ci sono, in casa Rosana! E Maria pare fatta apposta per contar denari.”
“Dicono però...”, cominciò Pietro; ma ripeté il suo gesto sprezzante e s'interruppe.
“Dicono? Che cosa dicono? Rispondi, eh! Dicono?...”
“Dicono che Maria non è innamorata di Francesco...”
“Innamorata? Peuh, chi lo sa? Le donne, ti ripeto, non s'innamorano più. Però nessuno la costringe. Lei lo vuole, lei se lo piglia. Io non ho neppure tentato d'esprimere la mia opinione.”
"È finita!", pensò Pietro.
L'accento sincero e le confidenze del padrone gli mostravano le cose nella loro brutta realtà. Maria lo aveva tradito volontariamente: e chi sa da quanto tempo ella covava il tradimento!
Sì, ella lo aveva tradito baciandolo, come Giuda aveva tradito il Signore.
Tutto era finito.

Rimasto solo, Pietro si abbandonò tutto alla sua rabbia e alla sua disperazione. Uscì nel cortile e s'avvicinò alla scaletta; s'aggirò qua e là, spiando il modo di poter arrivare fino alla camera di Maria. Impossibile; tutto era chiuso, tutto era silenzio. Sopra il muro del cortile una stella verdognola, luminosa come una piccola luna, forse la stessa che aveva accompagnato col suo raggio la corsa pazza di Pietro attraverso la vallata di Marreri, scintillava e pareva ridesse di lui e delle sue smanie.
Egli rientrò nella cucina e si buttò per terra. I ricordi lo stringevano, lo soffocavano. Lì, proprio lì, accanto al sacro focolare, davanti al fuoco che pareva cosa viva, Maria lo aveva baciato, aveva promesso, aveva spasimato... Come ogni cosa poteva svanire?
Chiudendo gli occhi, egli credeva di sentire ancora la voce sommessa di lei: la cara mano si posava ancora sulla sua... Tutto il resto era un sogno crudele. Ma d'un tratto la voce mutava; diventava quella d'un uomo, una voce alquanto nasale che pronunziava parole ricercate; sì, il rivale era lì, seduto davanti al fuoco; un sogghigno di scherno gli sollevava il labbro superiore, l'ombra del suo profilo aquilino vagava sulla parete come il profilo d'un uccello di rapina.
Maligne visioni apparivano: ecco, zia Luisa rideva di gioia; il suo insolito riso aveva qualcosa di lugubre, quasi d'osceno; il suo fuso cigolava, emetteva uno stridio misterioso come di porta che s'apra lentamente sui cardini arrugginiti: zio Nicola raccontava le sue antiche avventure amorose, con particolari licenziosi, e Pietro si sentiva ardere di desiderio. Ma d'improvviso tutto taceva: le figure dei padroni sparivano, il fuoco si spegneva a poco a poco. E nella penombra rossastra si delineava un gruppo: un uomo e una donna avvinti, con le labbra unite.
Erano loro: Maria e Francesco.
Pietro balzò coi pugni stretti, si slanciò attraverso il focolare, verso l'insopportabile apparizione.
Ma dal pavimento alla parete sprazzata dal chiarore rosso del fuoco semispento si mosse solo, gigantesca e deforme, un'ombra che parve battere e spezzarsi la testa contro il tetto.
Pietro tornò a sedersi per terra e si portò le mani alla testa: sì, gli pareva davvero d'aversela fracassata. Di nuovo sentì il galoppo lontano di molti cavalli, un rumore di pietre cadenti su pietre; e il sangue gli velò ancora gli occhi.
Un lieve rumore nel cortile lo richiamò in sé.
"È lei? Oh, se venisse, se mi dicesse: è tutto un sogno, Pietro: eccomi, son tua ancora..."
Ella non venne, ma bastò questo momento di speranza per intenerire il cuore del disgraziato. Perché disperarsi così presto? Dopo tutto, il matrimonio non era celebrato ancora! Eppoi, fosse anche tutto finito con Maria, non esistevano altre donne nel mondo?
"Potrò dimenticare; son giovine, son forte..."
Ricordò Sabina, ripensò a tante altre fanciulle povere che avrebbero potuto amarlo perdutamente. Perché impazzire per una che lo tradiva?
Ma al pensiero del tradimento di Maria il dolore riafferrò l'anima del tradito: e Maria era l'amata, era l'unica; era l'aria che egli respirava, il sangue che lo animava, il dolore che lo urgeva. Senza di lei nulla esisteva, tutto era tenebre.
Le ore passarono. Egli fece anche un severo esame di coscienza, domandandosi se aveva commesso qualche colpa, qualche errore che giustificasse il tradimento di Maria. Nulla. Egli non aveva fatto altro che amarla.
E neppure nei momenti di rabbia poté indovinare la vera ragione del repentino mutamento di lei. Egli l'aveva collocata tanto in alto, tanto in alto, come una stella; non ne vedeva quindi che lo splendore.
"Ella mi lascia perché non mi ama più", pensò. "Mi lascia perché tutti davanti a lei hanno lodato Francesco Rosana, ed ella ha cominciato ad amarlo... Francesco è brutto", pensò poi, "ma è istruito, è astuto, sa parlare come un avvocato. Chi sa quali arti seduttrici, quali malie di sguardi e di parole avrà egli adoperato per rubarmi il cuore di Maria. Ah, quella festa di Gonare, mai non fosse arrivata! Maria è donna e debole: me l'hanno rubata, me l'hanno ammaliata; mi hanno assassinato. Che siano tutti maledetti! Guai, guai a loro! guai a Francesco Rosana, falco maledetto, assassino, guai..."
Mille progetti di vendetta gli attraversarono la mente.
"Lo ammazzerò qui, qui, davanti a questo sacro focolare", disse a voce alta, stendendo la mano verso il fuoco. "Qui, qui, il giorno delle nozze, prima che ella diventi sua! Sangue e lagrime: di questo ho bisogno."
Di nuovo un rombo di rovina gli risuonò entro le orecchie, e una nuvola di sangue gli passò davanti agli occhi: poi tutto tacque, tutto sparve. Il ricordo dei giorni oramai spariti per sempre gli raddolcì il cuore. Ed egli scoppiò in pianto.
Dopo la morte di sua madre non aveva più pianto: e queste furono le ultime lagrime della sua vita.



XIII.


L'indomani mattina egli attese invano Maria. Scese zia Luisa, gli diede un po' di chinino e lo incitò alla partenza.
“Anche Maria ha avuto la febbre, stanotte. Non ha riposato un momento.”
“Febbre d'amore”, disse Pietro, accingendosi alla partenza. “Spero mi farete ritornare per le nozze.”
“Va là, per le nozze faremo il pane col grano che tu semini!”
“Allora io sarò morto”, disse Pietro, avviandosi.
“Curati; hai davvero una brutta cera, figlio caro”, rispose zia Luisa, senza che il suo viso scialbo esprimesse la minima espressione di affetto per il servo sofferente. “Curati, hai capito? Per lavorare occorre della gente sana.”
Per via Pietro fu ripreso dalle sue smanie. Dunque Maria si nascondeva: era decisa a non accordargli più un colloquio. Come fare?
"Ritornerò, qualche altra volta; ma ella starà in guardia. Ah, se sapessi scrivere! Che lettera le manderei, scritta col mio sangue!... Come farò dunque?", pensava, disperato. "Come farò, come vivrò?"
Gli venne in mente di nascondersi in qualche casa vicina, e di là mandare a chiamar Maria.
"Ma come scusarmi coi vicini? Eppoi ella starà in guardia, non verrà, e si offenderà del mio procedere."
Ma poi ricordava le parole della padrona vecchia: "Per le nozze di Maria faremo il pane col grano che tu semini", e un barlume di speranza gli rischiarava la mente.
"C'è tempo, dunque. Aspettiamo."
E così ritornò al suo posto di lavoro, e seminò con amarezza il grano che "doveva servire per fare il pane delle nozze".
Ah, avrebbe voluto avvelenare o gettare al vento la semente!
I giorni passarono, lenti, eguali, tristissimi. Nei violacei crepuscoli dell'altipiano la figura del servo tradito appariva sempre più cupa, dura e nera; quando egli si fermava su qualche roccia e scrutava l'orizzonte con occhi melanconici e selvaggi sembrava la statua dell'odio.
Odiava tutti: zia Luisa, la grassa adoratrice del denaro, per la quale un uomo povero era un essere incompleto; zio Nicola, che aveva saputo conquistare con la sua bellezza e la sua audacia una donna come sua moglie; Francesco, "l'avvoltoio", Maria, che s'era lasciata afferrare da questo uccello di rapina. Anche lei, sì; lei più di tutti, in certi momenti; ma anche durante questi impeti d'odio, che gli ricordavano i suoi primi giorni d'amore quando aveva desiderato Maria con l'ardore selvaggio di un predone, la passione lo dominava, feroce. Allora egli ritornava l'uomo primitivo: tutto quanto v'era di generoso in lui, e quell'istinto di bontà quasi femminea che lo aveva ingentilito durante il periodo felice del suo amore, tutto cadeva, come al cessare della primavera cadono le ali delle farfalle. Resta solo il bruco, immondo e devastatore.
Sogni tormentosi turbavano il suo riposo: le sue notti erano più tristi dei suoi tristi giorni.
Quasi sempre sognava un corteo di nozze che attraversava l'altipiano e calpestava il grano nascente: egli s'adirava, prendeva un fucile e colpiva lo sposo. Una notte, poi, sognò una lunga strada grigia, fra due siepi nere; una via senza fine, che attraversava tutto il mondo. Egli la percorreva, con un fascio di legna sulle spalle, come usava portarlo da bambino, quando per aiutare in qualche modo sua madre andava a raccogliere rami d'elce sulla montagna.
Cammina, cammina, veniva la notte, la strada non terminava mai. Egli aveva fame, sudava, tremava di stanchezza; la strada non finiva, e d'altronde egli non sapeva dove era diretto.
Laggiù, in fondo, dove il cielo scuro confinava con le siepi nere, si nascondeva un fantasma terribile come i fantasmi dei quali egli aveva paura da bambino, al cader della sera, quando scendeva col suo carico di legna dall'Orthobene.
Dopo questi sogni da febbricitante si sentiva debole, languido; ma allora gli pareva di diventare astuto, la sua mente si affinava, progetti da delinquente esperto gli fermentavano nella mente.
Appunto in uno di questi momenti di languore fisico, dopo aver ucciso Francesco Rosana in sogno, egli previde ciò che sarebbe accaduto dopo.
"Mi arresteranno, mi condanneranno; passerò la vita in reclusione. A che servirà la vendetta? Sarà peggiore della sventura. No, bisogna essere astuti; astuti come le donne. Vedi", diceva a se stesso, "vedi come è stata furba e maligna Maria? Mi ha tradito, ha tessuto la sua tela senza farmi sospettare di niente. Io non riuscirò neppure a chiederle: 'perché hai fatto così?'. Eppure mangio il suo pane e dormo sotto il suo tetto. Mi ha tradito senza che io me ne accorgessi. Bisogna che anch'io diventi maligno, calcolatore, astuto..."
E diventava maligno, calcolatore, astuto; e il suo dolore aumentava, cresceva nella solitudine, liberamente, come era già cresciuto il suo amore: come una pianta selvatica...
Una notte egli ritornò in paese: questa volta però non lo spingeva un impulso cieco, ma un desiderio angoscioso di riveder Maria, di muoversi, di combattere contro il destino.
Legò il cane e partì; arrivò in paese verso le nove. Il portone dei Noina era chiuso. Egli picchiò, con la speranza che aprisse Maria; un barlume infatti illuminò la facciata della casa, al di sopra del muro del cortile, ma subito si spense: nessuno venne ad aprire.
Senza dubbio Maria, uscita nel cortile, indovinando chi era che picchiava, si era ritirata senza aprire.
Un impeto di rabbia assalì Pietro: gli venne il desiderio di abbattere il portone a colpi di pietra; ma poi pensò:
"A che serve? Uno scandalo inutile. Bisogna essere astuti. Vedi come è astuta, lei? Ah, come è astuta!".
Allora s'avviò verso la casetta delle zie, evitando i radi passanti per non essere riconosciuto. Anche la casetta delle sue parenti era circondata da un cortile aperto; le due vecchie vegliavano ancora nella cucina appena illuminata da un fuocherello di sarmenti.
Pietro conosceva la casa a menadito: salì cautamente la scaletta esterna ed entrò nella cameretta da letto che dava sul ballatoio di legno. Al buio trovò l'arca di legno nero, ove le due vecchie riponevano i loro stracci. Egli l'aprì e cercò la pistola del bandito.
Zia Tonia conservava quest'arma come una reliquia; Pietro gliela portò via senza scrupolo. Fu il suo primo passo.
Ma, non seppe perché, quando si trovò nella valle, lungo i sentieri selvaggi appena rischiarati dal fantastico chiarore della luna che or sì or no appariva fra grandi nubi livide, egli ricordò vagamente il sogno della via grigia senza fine, animata da fantasmi.
"Dove andrò, dove finirò?", si chiese istintivamente.
La strana notte autunnale, in quella valle nuda e desolata, rinnovava la misteriosa suggestione del sogno. Pietro palpava la pistola e a momenti, fermandosi dietro qualche macchia, aveva l'impressione che il suo rivale gli passasse davanti, nel chiarore vago del sentiero silenzioso: egli sollevava l'arma e sparava. Un grido interrompeva il silenzio pauroso della valle; poi di nuovo tutto taceva.
Egli sentiva il cuore battere violentemente: gli sembrava di aver già commesso il delitto. Ma poi si scuoteva, si svegliava dal suo sogno malvagio e riprendeva la via.
"Che accadrà di me? Dove andrò? Dove finirò?"
E camminava, camminava, sotto quel cielo misterioso e macchiato: camminava su pei sentieri selvaggi, ora bui, ora illuminati da un chiarore azzurrognolo di luna fuggente. Anche nella sua anima regnava una luce vaga, che talvolta si estingueva completamente: e davanti a lui si stendeva, interminabile e misteriosa come nel sogno, la via del male.

L'indomani, dopo aver esaminata l'arma ancora servibile, la nascose fra due pietre concave, in una macchia folta e inesplorata. E riprese il lavoro. Gli pareva di essere un altro, di essersi svegliato da un lungo sogno.
"Come ero stupido!", pensava. "Avrei potuto esser felice e non ho voluto. Ah, il giorno in cui ella venne nella vigna! Avrei potuto diventare il suo amante, costringere i suoi parenti a lasciarci sposare, e invece... invece sono stato stupido come un fanciullo... Ma guai, guai! Io ero simile al cane che dorme: voi mi avete svegliato con una sassata... Ah, tu non hai voluto aprire la tua porta, Maria Noina: è giusto, tu sei la padrona, io sono il servo. Ma bada a te, donna: tu ti sei presa gioco di me, ti sei divertita; hai voluto i miei baci, ed ora mi chiudi la porta. Furba sei stata, ma adesso m'insegni... Sarò astuto anch'io..."
Ma mentre pensava così sperava ancora. Ah, se avesse saputo scrivere!
"Ritornerò", pensava. "Verrà l'inverno, dormirò ancora sotto quel tetto fatale. Riuscirò a parlarle, le dirò tutto ciò che mi rode il cuore..."
Intanto lavorava. Era una giornata triste, livida e fredda. Verso sera soffiò il vento di tramontana, ed egli volle accendere il fuoco. Ma si accorse di aver smarrito l'acciarino, probabilmente durante la sua gita a Nuoro, e si avviò verso una capanna di contadini nuoresi che lavoravano un terreno attiguo al terreno seminato da lui.
Voleva domandare in prestito un acciarino o farsi dare un tizzone ardente.
La notte era fredda e buia; giù dai monti di Orune la tramontana gelata soffiava con impeto pazzo. Pietro trovò i contadini riuniti intorno ad una fiammata di ginepro, al cui profumo si mischiava un odore di grasso bruciato.
Il fumo riempiva la capanna, scossa da un vento furioso che pareva volesse portarla via: i contadini, seduti accanto al fuoco, facevano arrostire due intere cosce di pecora infilate in lunghi schidioni di legno.
Vedendo Pietro si confusero alquanto, ma poi risero e lo invitarono a cena.
“Che odore di carne rubata”, egli disse, prendendo un tizzone.
E stava per andarsene, ma i contadini dissero:
“Se non accetti il nostro invito crederemo che vuoi farci la spia. Resta: la carne rubata fa ingrassare. Eh, che, non abbiamo il diritto di mangiar bene anche noi, qualche volta? Solo i padroni devono mangiar bene?”.
Pietro rimase. I contadini dissero d'aver rubato la pecora da un ovile poco distante. Ma uno esclamò:
“No, è venuta fin qui; pareva dicesse: "prendetemi e mangiatemi". Mangia, Pietro Benu; hai un viso d'affamato. Perché diventi così magro? Non ti danno da mangiare i tuoi padroni?”.
Poi parlarono di Maria.
“Ah, se l'avessi qui”, diceva uno, strappando coi denti da lupo lunghi brani di carne dalla porzione che teneva fra le mani. “Se l'avessi qui me la mangerei come questo pezzo di carne. Io non ho mai veduto una donna più bella! Ah, Pietro, se fossi al tuo posto!”
Pietro fremeva, ma taceva. Ah, egli era stato così stupido, invece!
Anche dopo il pasto pantagruelico egli rimase nella capanna: si sdraiò vicino all'apertura otturata con rami e con pietre, e finì con l'addormentarsi. Ogni tanto si svegliava, sembrandogli di sentire Malafede ad abbaiare; tendeva l'orecchio, pensava:
"Qualcuno può rubare i miei buoi. Ebbene, che li rubi pure: qui c'è caldo, non mi muovo. Dopo tutto i buoi sono dei padroni maledetti. Vadano tutti al diavolo".
E si riaddormentava.
Ma verso l'alba si svegliò di soprassalto. Questa volta s'udiva davvero, attraverso il vento, il caratteristico urlo di Malafede: pareva una voce umana, rauca e lamentosa, e Marianedda, la piccola cagna dei contadini, simile ad una volpicina, tremava e abbaiava furiosamente.
“Che c'è?”, gridò Pietro inquieto.
Strappò i rami dall'apertura della capanna e impallidì: quattro carabinieri, rigidi e bruni nel primo chiarore cinereo dell'alba, salivano l'erta.
Egli balzò fuori, ma ancor prima che si rendesse conto esatto del pericolo a cui voleva sfuggire, si trovò preso.
Anche gli altri contadini furono subito arrestati; la carne cruda e cotta, avanzo della malaugurata cena, venne sequestrata, avvolta nella pelle della pecora rubata, e messa sulle spalle ad uno dei colpevoli.
Pietro urlava, si morsicava le mani. Invano egli e i suoi compagni protestavano la sua innocenza.
“Cammina, intanto”, gli disse uno dei carabinieri, urtandolo col calcio del fucile. “Se sei innocente si vedrà.”
Egli dovette avviarsi: gli pareva di fare un brutto sogno. Rifaceva la strada tante volte percorsa così dolorosamente, e imprecava come un dannato.
"Sono dunque maledetto?", si domandava. "Chi mi ha scomunicato? Che diranno i miei padroni quando sapranno? E lei? Mi crederà davvero un ladro?"
Più giù incontrarono il padrone della pecora, il quale aveva avvertito i carabinieri.
“Bobòre”, gridò Pietro, minacciando e supplicando, “io sono innocente! Fammi rilasciare o te ne pentirai! Io non ti ho mai offeso, Bobòre, te lo giuro, come è vero Dio. Lasciami libero: io sono un uomo perduto.”
“Pietro”, disse il pastore, “io ti credo, ma non ho colpa se ti hanno arrestato. Io sono un povero diavolo: è la terza pecora che questi demoni qui mi hanno rubato; ora non ne potevo più.”
I contadini dissero:
“L'abbiamo trovata morta, vicino alla siepe... Morta di mal di Dio...”.
“Che il diavolo vi impicchi; questo si vedrà.”
“Io sono innocente”, gridava Pietro.
“Cammina, intanto”, ripeteva il carabiniere, spingendolo col calcio del fucile.
“Bobòre”, supplicò Pietro, “va almeno dai miei padroni; va, per l'anima di tua madre, e racconta come sono andate le cose...”
Per fortuna giunsero presto a Nuoro, e quasi nessuno li vide.
Interrogati dal giudice, i contadini dissero che Pietro era innocente; tuttavia egli attese invano, per tutto il giorno, l'ora della liberazione.
Zio Nicola, avvertito, si mise in moto: andò dal giudice, consultò un avvocato.
“Che volete”, rispose l'uomo della legge, “i cavilli della Giustizia sono intricati come i capelli di Medusa...”
"Va al diavolo, con le tue parole difficili", disse zio Nicola fra sé; e continuò a darsi attorno.
Ma verso sera Pietro fu dalla camera di sicurezza condotto in carcere.
Vi rimase tre mesi.

Pietro sapeva benissimo che un accusato, anche se gli indizi del reato son vaghi, soffre spesso una lunga prigionia preventiva: ma non poteva rassegnarsi; l'ingiustizia gli pareva enorme. Di giorno in giorno cresceva nel suo cuore un tumulto di ribellione e di cattivi istinti. V'erano giorni in cui egli credeva di impazzire. Che faceva Maria? L'idea che ella forse si sarebbe sposata mentre egli languiva in carcere, inacerbiva la sua pena e la sua ira.
Da casa Noina gli mandavano qualche volta un po' di cibo e bottiglie di vino: zio Nicola spinse la sua benevolenza fino ad ottenere un colloquio col carcerato, e lo confortò e gli raccontò storielle allegre. Egli aveva dovuto far surrogare il servo, ma disse a Pietro:
“L'anno venturo ti riprenderò al mio servizio”.
Pietro non rispose, cupo e triste; pensava a Maria, alle nozze che zio Nicola diceva prossime, e la sola idea di dover rientrare in casa Noina e assistere alla felicità degli sposi lo rendeva folle.
Qualche giorno dopo fu introdotto nella camerata di Pietro un nuovo prigioniero, non nuorese. Era un giovine svelto, sbarbato, con una fisionomia da ragazzo maligno e intelligente. Si chiamava Zuanne Antine. Appena entrato nella camerata salutò i compagni di sventura, stringendo loro la mano, chiedendo il loro nome ed informandosi minutamente dei loro affari.
Pareva volesse scegliersi un compagno, un amico, e Pietro fu quello.
“Dimmi”, gli chiese l'Antine, “hai tu rubato davvero?”
“No”, rispose Pietro.
“Hai fatto male! Se tu avessi rubato, ora non avresti sofferto. Così avresti avuto l'utile e il conforto.”
Pietro sorrise.
“Chi non ruba non è uomo!”, rispose l'altro. “Dimmi una cosa. C'è o non c'è Dio? se c'è, ed è giusto, egli deve aver fatto il mondo perché gli uomini se lo godano. Quindi tutta la roba che c'è nel mondo appartiene a tutti gli uomini: basta sapersela prendere, la roba...”
“Ma vedi”, osservò Pietro, “poi ci mettono in prigione.”
“Bisogna essere astuti, perciò”, disse l'Antine; “bisogna sapersela prendere, la roba!”
“Ma anche tu ti sei lasciato prendere”, rispose Pietro, al quale i discorsi del compagno, metà seri metà scherzosi, riuscivano ripugnanti e divertenti nello stesso tempo.
L'Antine socchiuse gli occhi maligni.
“Che ne sai tu”, disse, “che io non mi sia lasciato prendere apposta? Io uscirò dal carcere più bianco d'una colomba. Io sono innocente del reato del quale ora mi accusano, e proverò la mia innocenza; un'altra volta potrò essere davvero colpevole, ma potrò dire al giudice: "Io sono perseguitato, io sono odiato e calunniato: sono innocente come lo ero l'altra volta e confido nella giustizia imparziale". E il giudice mi crederà, in fede mia, mi crederà.”
“Ma io potrò deporre contro di te, e ripetere quanto tu ora mi dici!”, esclamò Pietro.
L'altro lo fissò e sorrise; i suoi bellissimi denti scintillavano nella penombra della camerata, come denti di lupo in agguato.
“Tu sarai mio amico e non mi tradirai!”, disse l'Antine. “Gli uomini sono tutti fratelli e devono aiutarsi a vicenda, non tradirsi e offendersi.”
Pietro non rilevò le contraddizioni delle selvagge teorie dell'Antine. D'altronde pareva che il giovine carcerato scherzasse; e poi egli era così simpatico ed insinuante, col suo visino da bimbo malizioso, coi suoi occhi furbi, con la sua voce sonora, che tutti l'ascoltavano volentieri, quasi lasciandosi suggestionare da lui.
Poco dopo il suo arrivo egli incominciò a raccontare storie terribili di banditi, colorandole poeticamente; gli altri carcerati gli si raccolsero intorno, silenziosi e attenti.
E Pietro sentiva il suo cuore palpitare, acceso da un ardore feroce. Così gli uomini primitivi dovevano infiammarsi ascoltando i racconti di guerra, le gesta epiche, le narrazioni favolose dei padri selvaggi.
L'Antine si vantava di conoscere tutti i latitanti del Nuorese (allora infestato dai banditi), e fece vedere, estraendola dalla suola della scarpa, una lettera del famoso Corbeddu, che gli dava un appuntamento su una cima dei monti d'Oliena.
Gli altri carcerati provarono un senso d'invidia, e cominciarono anch'essi a vantarsi d'avere relazioni coi banditi.
La lettera del Corbeddu passò di mano in mano; qualcuno non sapeva leggere, tuttavia esaminava attentamente il foglio del bandito e lo toccava con rispetto. Anche Pietro guardò lungamente la lettera e sospirò.
“Questo è un uomo!”, disse battendo due dita sul foglio.
E parve volesse aggiungere qualche cosa, ma improvvisamente tacque e si fece cupo.
"Ah", pensò, "quest'uomo, questo Corbeddu, non si sarebbe certamente lasciato offendere come mi sono lasciato offendere io! Egli avrebbe spazzato ogni ostacolo, come il vento spazza la paglia. Mentre io... io sono vile!"
“Ecco”, disse, restituendo la lettera, “bisogna che anch'io impari a leggere e a scrivere, perché se diventerò bandito avrò bisogno di scrivere qualche lettera!...”
Egli scherzava: ma l'Antine tornò a fissarlo stranamente.
“Se vuoi”, gli disse, “poiché qui ci avanza tempo, ti insegnerò a scrivere e a leggere!”
Pietro accettò con entusiasmo, e la nuova occupazione, a cui egli si dedicò con intensità profonda, gli rese meno lunghe le ore, lo assorbì, lo confortò.
Un vecchio guardiano, al quale l'Antine dava qualche bicchiere di vino, fornì ai carcerati l'occorrente per scrivere, e un sillabario e qualche numero di giornale. In pochi giorni Pietro fece progressi meravigliosi.
Alla vigilia della sua liberazione egli poté leggere e capire un'intera colonna di giornale e scrivere il suo nome e quello di Maria.
E ne provò una gioia velenosa; gli parve d'aver acquistato un'arma, buona per difesa e per offesa!
I giorni intanto passavano monotoni ed incerti; Pietro perdeva quasi la nozione del tempo; a momenti gli pareva d'essere in carcere da pochi giorni, a momenti gli pareva di essere recluso da anni ed anni.
Di notte, nel silenzio lugubre del carcere, rotto soltanto dalla voce sonora del vento e dai gridi acuti delle sentinelle, ricordava le notti passate accanto al fuoco, nella calda cucina dei padroni. E nel sonno rivedeva Maria, la baciava, spasimava d'amore.
Signore! Era dunque tutto passato, tutto finito davvero? Svegliandosi pensava a Francesco Rosana con un delirio d'odio: pronunziando il nome del rivale digrignava i denti. Accusava Francesco persino della sua presente disgrazia, pensando che se non fosse tornato una notte a Nuoro per rubare la pistola della zia, non avrebbe smarrito l'acciarino e non sarebbe andato poi in cerca di fuoco dai contadini, coi quali l'avevano arrestato.
Una rabbia cupa e concentrata, un rancore profondo, un istinto di ribellione contro il mondo e contro la sorte gli fermentavano in fondo all'anima. E sul terreno vergine di quest'anima sconvolta, le perverse teorie del compagno di carcere cadevano come semi di erbe velenose, e germogliavano subito.
“Gli uomini, siamo tutti uguali!”, diceva l'Antine, talvolta scherzoso e talvolta serio, “siamo tutti eguali come i figli d'uno stesso padre. Dio è il padre di tutti, e quando fece il mondo disse agli uomini: "Ecco, figli miei, io ho fatto una focaccia: a ciascuno la sua porzione: prendetevela, figli miei". Gli uomini sono stati in parte astuti ed in parte stupidi, perché gli uni si son presa una porzione grossa, gli altri sono rimasti senza. A questi ultimi, poi, quando si lamentano, Dio dice: "Arrangiatevi, figli miei; ognuno per sé e Dio per tutti! Peggio per chi non si arrangia!".”
“Ma”, osservò allora Pietro, “non basta aver della roba per esser felici.”
“Chi te l'ha detto?”, esclamò l'altro con disprezzo. “Te lo sei immaginato tu, idiota? Io ti dico invece che chi ha roba ha tutto: è rispettato, amato, temuto. Persino le donne, che tante volte non capiscono niente, amano e preferiscono gli uomini che posseggono qualche cosa, anche se essi sono brutti, loschi, sciancati...”
“È vero!”, disse Pietro, poi domandò:
“Perché tutto questo?”.
“Perché siamo stupidi, perché non vogliamo capire che siamo tutti eguali e che il mondo appartiene a tutti. Guarda, per esempio, gli uccelli dell'aria; essi sono tutti coperti all'istesso modo e prendono il cibo dove lo trovano e fanno il nido dove loro piace. Perché gli uomini non dovrebbero imitarli? Perché gli uomini sono più stupidi degli uccelli, ecco tutto!”
“Ma infine c'è chi è astuto, come tu dici, e c'è chi è stupido. Io, per esempio, sono stupido; mi lascio offendere senza reagire, e non sono capace di prendere il bene dove lo trovo. Che colpa ne ho io? Ah sì!”, disse Pietro con rabbia, pensando che se avesse voluto avrebbe potuto posseder Maria e goderne l'amore e la fortuna. “Sì, sono stato stupido sempre.”
“Si può diventare astuti, però.”
“Come si fa?”
“S'impara. Hai visto come s'impara a leggere ed a scrivere? Così!”
E a volte Pietro era tentato di rivelare all'Antine la sua passione disperata; ma non osava. In fondo conservava un barlume di speranza.
Speranza e sogno che un ostacolo qualunque potesse sorgere ed impedire il matrimonio di Maria: Francesco poteva ammalarsi e morire; Maria poteva pentirsi, ricordare, ritornare al passato. Ma intanto l'ordine di scarcerazione non arrivava mai! Perché tanta ingiustizia nel mondo?

La notizia che Maria e Francesco dovevano sposarsi presto mise il colmo al calice amaro che Pietro cercava invano di allontanare dalle sue labbra. Egli diventò furente; scosse con violenza l'inferriata del carcere quasi volesse infrangerla, e gli parve di soffocare.
Lo avessero almeno liberato! Avrebbe potuto fare, tentare qualche cosa; avrebbe pregato, minacciato, ucciso...
L'ultima settimana che passò in carcere fu un continuo martirio di rabbia. Fuori pioveva, pioveva sempre: dalla finestruola sbarrata egli non vedeva che una fetta di cielo livido, uniforme, dove solo passava qualche corvo dal grido rauco.
"Non v'è Dio! Non v'è Dio!", pensava il carcerato. "Se ci fosse non farebbe soffrire così un innocente!"
Un giorno, però, la giustizia riconobbe il suo errore, ed egli fu rilasciato libero.
“Appena anch'io uscirò dal carcere verrò a cercarti”, gli disse l'Antine. “Ti proporrò un affare. Sta allegro, divertiti e ricordati di me.”
Quando Pietro rivide le note strade gli parve di destarsi da un brutto sogno, e provò la gioia del convalescente che è stato vicino a morire.
Coi nervi vibranti e il volto sbiancato dalla prigionia e dal dolore, egli s'avvicinò a casa Noina. Maria non c'era; zia Luisa lo accolse un po' freddamente, e gli annunziò che le nozze della figlia erano vicine.
“Rientrerai al nostro servizio?”, ella chiese. “Ho sentito dire da Francesco ch'egli ha bisogno di un servo.”
Pietro fremette. Servo di Francesco Rosana? Mai!
“Dov'è Maria?”, domandò.
“Non so; credo sia andata alla novena... Bevi dunque, Pietro: sei bianco come un agnello. Bevi; il vino ti ridonerà un po' di colore. Verrai alle nozze?”
Egli bevette, ma il vino gli parve veleno.
Uscì e attese Maria girovagando attorno alla casa, ma ella non tornò e l'ombra della sera cadde sulle cose e sull'anima di lui.
"Ella doveva essere a casa, e non mi ha neanche voluto vedere!", pensò amaramente. "Tutto, tutto è finito davvero."
Ricordò i suoi progetti di vendetta, l'idea di uccidere Francesco prima delle nozze: e pensò che avrebbe potuto farlo quella stessa sera, mettendosi in agguato dietro il portone dei Noina...
Ecco, gli pareva di veder giungere il fidanzato, felice e sicuro; bastava un po' di coraggio per gettarsi sopra di lui e strangolarlo. E poi ancora il carcere, la reclusione, il buio eterno in questo e nell'altro mondo. Ah, no!
L'idea di ritornare in carcere era così spaventosa, che vinceva la passione e l'odio di Pietro. Egli ricordò le parole di Antine: "Bisogna aspettare l'occasione e profittarne!..."
"Sì", ripeté a se stesso, "bisogna aspettare!..."
E col cuore gonfio e l'anima avvolta d'ombra, si allontanò dalla casa fatale.



XIV.


Era la vigilia delle nozze di Maria.
La facciata e le stanze della casetta erano state imbiancate e messe a nuovo. Nella cucina le masserizie splendevano, accuratamente pulite; le casseruole sembravano d'oro e i coperchi d'argento, così almeno affermava zia Luisa.
Anche la balaustra della scala e del ballatoio, strofinata con cenere ed olio, luccicava al riflesso del tiepido sole di febbraio.
Dopo le ultime piogge, il tempo s'era raddolcito; si sentiva già la primavera, e nel cortile e nella casetta gaia degli sposi l'aria pareva ancor più tiepida, piena di carezze e di promesse.
Nel focolare e sui fornelli le caffettiere grillavano, nelle stanze superiori della casa spandevasi un forte profumo di dolci e di liquori; sui tavolini, sui letti, sulle sedie, su tutti i mobili stavano grandi vassoi contenenti torte dai vivi colori e gattòs, specie di piccole costruzioni moresche di mandorle e miele.
Nel cortile e nelle stanze terrene era un continuo viavai di gente; ogni momento il portone s'apriva per lasciar entrare donne in costume, attillate, che recavano sul capo torte e gattòs e soprattutto corbe d'asfodelo ricolme di frumento, dal cui oro polveroso emergevano bottiglie di vino rosso e giallo turate con mazzolini di fiori.
Questi presenti venivano mandati agli sposi dai parenti, dagli amici e dai servi dei Noina e dei Rosana.
Sabina prendeva garbatamente i vassoi e le corbe, e mentre un'altra parente dei Noina conduceva le donne in una stanza dove venivano serviti dolci e liquori, ella entrava nella dispensa e vuotava il grano, riponeva le torte, e nei recipienti da restituirsi ai donatori metteva un bel pezzo di carne bovina, un cuore di pasta dolce e di mandorle ed altri pasticcini in forma di uccelli, di fiori, di triangoli.
Una ragazza dai capelli rossi, seduta davanti ad una tavola ingombra di pezzi di carne e di mazzolini di fiori, scriveva su una striscia di carta i nomi dei donatori.
Sabina entrava, dettava, vuotava il frumento ed il vino:
“Zia Maria Rosana una torta di mandorle”.
“Il signor Antonio Maria Zoncheddu un presente di grano.”
“Donna Grazia Casula un presente di grano e un gattò... presto, scrivi, svelta, Caderiné; sembri una gatta morta.”
Caderinedda scriveva con calma e non rispondeva: ma appena si trovava sola balzava di qua e di là, rubacchiava quanti più dolci poteva e se ne riempiva le tasche, il seno, le calze...
Maria in quei giorni aveva l'obbligo, per lei intollerabile, di non far niente: tutta vestita a nuovo, con una camicia bianca come la neve, un fazzoletto a fiorami, e un cordoncino nero intorno al collo, ella se ne stava seduta accanto ad un braciere colmo di brage e chiacchierava con le parenti dello sposo.
Le donne che recavano i doni le stringevano la mano, si curvavano su lei augurandole "tanti punti di buona fortuna quanti chicchi di grano le portavano", poi andavano a bere il caffè.
Maria ringraziava con sussiego, dicendo fra sé che non tutti gli auguri erano sinceri; zia Luisa invece riceveva le donne con affabilità aristocratica, costringendole a servirsi abbondantemente di dolci, caffè e liquori.
Maria disapprovava questo "fare splendido" della madre; anzi a un certo momento attirò zia Luisa nella camera attigua e le disse:
“Ma lasciate che prendano quel che vogliono e non vuotate il vassoio nel loro grembiale!”.
“Lascia fare, figlia”, disse zia Luisa, accomodandosi la benda intorno al capo. “Questi son giorni rari nella vita: bisogna festeggiarli...”
Non aggiunse che giusto in quei giorni occorreva "mostrarsi splendidi" per far capire alla gente che la famiglia Noina era ricca; ma la sposa lo indovinò e non insisté.
“Maria”, chiamò una graziosa fanciulla, cugina del fidanzato.
Maria le andò incontro e le strinse la mano, poi l'accompagnò fino alla scala, la seguì con gli occhi e la vide fermarsi a chiacchierare con Sabina.
“Sei lieta, Sabina”, disse la fanciulla.
“Sicuro che son lieta”, l'altra rispose.
“Eh, domani verrà anche Pietro Benu.”
“Lascia che venga”, disse Sabina con finta indifferenza.
“Non ti fa piacere che venga?”
“Venga o no, per me è la stessa cosa!”
“Come sei furba, Sabì! Come sai fingere bene...”
Sabina sorrise, poi andò incontro ad un'altra donna, prese la córbula (17), entrò nella dispensa. Un'ombra le oscurò il viso. Pietro sarebbe venuto? Perché? Che voleva?
"Ah", pensava Sabina, "vorrò ben vederlo!"
Pietà, paura, rancore e speranza la animavano. Ella non osava confessare a se stessa che, dopo il fidanzamento di Maria, la speranza e la pietà avevano di nuovo acceso in lei la fiamma di un amore pronto al perdono ed all'oblio.
Per un tacito accordo il nome di Pietro non era più stato pronunziato fra lei e Maria; e Sabina scusava la ricca cugina per il suo breve errore, e perdonava perché sperava.
Ora egli tornava. Da mesi Sabina non l'aveva più riveduto. La notizia della sua visita ai padroni, nel giorno delle nozze di Maria, la inquietava, ma in fondo al cuore le ridestava una vaga speranza. Ella sarebbe stata là pronta a guardarlo con occhi pietosi; forse egli sarebbe ritornato a lei.
Con questi pensieri per la mente ella continuò fino a tarda sera a raccogliere i presenti; le toccava anche di segnarli perché la ragazzetta, sazia e imbottita di dolci, aveva abbandonato il suo posto.
Verso l'imbrunire giunse il fidanzato. Sbarbato, attillato, con le scarpette che scricchiolavano, le brache bianchissime. Sembrava quasi bello: i suoi occhi splendevano di gioia e di desiderio.
Ma la sposa era alquanto turbata e lo accolse quasi con freddezza.
La notizia della visita di Pietro l'inquietava e la rattristava. Che voleva, che veniva a fare il disgraziato?
Dopo la sera della sua scarcerazione Pietro non era più tornato. Con sua grande meraviglia Maria aveva un giorno ricevuto, per mezzo del bettoliere toscano, una lettera, con la quale Pietro la supplicava di dargli un convegno.
"Tutte le sere, alle undici, io passerò davanti al tuo portone; aprimi, se hai ancora un cuore di donna."
Ella non aveva risposto, non aveva aperto: egli non s'era più lasciato vedere. Che veniva ora a fare? Che voleva? Si era rassegnato, o coltivava progetti di vendetta?
"Forse", pensava Maria, "forse era meglio lasciarmi vedere, convincerlo, domandargli scusa... D'altronde, se egli avesse voluto vendicarsi avrebbe potuto farlo prima. Forse domani neppure verrà: sarà stato uno scherzo di Tatana a Sabina."
Ma intanto aveva paura e suo malgrado un pensiero poco pietoso le attraversava la mente:
"Ah, non potevano tenerlo dentro ancora un po'? Come c'è stato tre mesi poteva starci quattro. Non per desiderargli del male... ma per la pace di tutti... Se usciva di carcere dopo le mie nozze, forse si sarebbe rassegnato più facilmente".
Ecco, quattro mesi di lontananza avevano finito di smorzare il fuoco indegno che le aveva acceso disgraziatamente il cuore. Non amava Francesco, ma le pareva d'aver dimenticato Pietro: il suo cuore, guarito dal terribile male dell'amore, sonnecchiava con dolcezza, come un convalescente.
"No", diceva a se stessa, "non devo aver paura. Pietro non è capace di fare del male. Io, meglio d'ogni altro, lo so."
Mille piccole cure, d'altronde, la occupavano e la distraevano. Dopo lunghe discussioni, ella e Francesco avevano deciso di restare presso la famiglia di lei: in tal modo la casa dello sposo, affittata, poteva rendere un centinaio di scudi, e Maria, restando presso i parenti, avrebbe goduto meglio la sua felicità. C'era l'utile e il dolce.
Francesco finì con l'accettare.
La camera di Maria fu rimessa a nuovo, tinta d'azzurro e di rosa: il letto nuziale fatto venire da Sassari, le sedie, i quadri, lo specchio, formavano la meraviglia di tutto il vicinato.
Per mesi e mesi non si parlò d'altro.
Del resto la fama della camera e del corredo di Maria varcò i confini del misero vicinato; destò persino l'invidia e le critiche dei borghesi, tanto più che le cose venivano esagerate: si diceva che la sposa di Francesco Rosana avrebbe indossato il costume delle dame paesane, cioè gonna di panno ricamata in oro, e corsetto con bottoni d'oro; e che si sarebbe messa i guanti e su junchillu (18).
Tutto ciò era falso; ma queste dicerie lusingavano Maria. Ella viveva di queste piccole vanità.

La mattina delle nozze ella si alzò più presto del solito e si lavò tutta, chiudendo forte la bocca per non inghiottire qualche goccia d'acqua, poiché doveva comunicarsi durante la cerimonia nuziale; poi si vestì, e calzò un paio di stivaletti lucidi, che le strinsero un po' i piedi, ma glieli resero piccoli ed eleganti.
E per qualche momento stette a guardarseli con compiacenza infantile, poi chiamò Sabina e sollevò alquanto le sottane.
“Guarda come sono bellini i miei piedi”, le disse, con la sua solita voce un po' ironica.
Sabina spalancò la finestra e si volse pensierosa a guardare la cugina. La luce di una limpida giornata inondò la vasta camera rosea; i paesaggi incrostati di madreperla, dipinti sulla testiera del magnifico letto, si tinsero d'un riflesso d'aurora. Nel cortile garrivano le rondini, i galli cantavano ancora. Tutto annunziava pace e letizia.
Nella camera attigua zio Nicola sbadigliava rumorosamente. E già qualcuno picchiava al portone.
“Presto, puliamo la camera”, disse Sabina, già rimettendo in ordine ogni cosa. “È una bellissima giornata. Buon augurio.”
“Senti come scricchiolano”, riprese la sposa, intenta ai suoi stivaletti. “Sembrano le scarpe di Francesco. Come sono stretti, però! La gente mormorerà, vedendomi calzata con stivalini lucidi! Che ne pensi?”
Sabina sorrise, un po' sdegnosa. Possibile che Maria non avesse altre preoccupazioni, quella mattina? Perché era così leggera? Beata lei che poteva dimenticare, e vivere di piccolezze!
Ma no; d'un tratto il bel viso calmo e sorridente della sposa si oscurò, i suoi occhi diventarono quasi tristi. Sabina la guardò e le chiese con ironia:
“Ti fanno male i piedi?”.
“No, ma pensavo...”
“A che pensavi? Tira un po' la coperta, così: ecco il guanciale. Non s'è visto mai un più bel letto di sposi.”
“Pensavo... Francesco vuol condurmi al suo ovile, in primavera. Resteremo là una quindicina di giorni. Verrai tu a tener compagnia a mia madre?”
“Vedremo. Togliti di lì che spruzzo d'acqua il pavimento. Presto, presto; levati di lì. 'Sciú, 'sciú (19)...”
Sabina spazzò e Maria passò nella camera attigua. Zio Nicola intanto s'era alzato, aveva indossato il costume delle feste, e già andava e veniva, attraverso il cortile e la cucina, strascicando il suo bastone e dando ordini e contrordini che non venivano eseguiti. In cucina zia Luisa, più impassibile e solenne del solito, chiacchierava con qualche donnicciuola del vicinato.
“Che meraviglia di presenti, zia Luisa”, le dicevano queste vicine, adulandola; “non s'è mai visto una cosa simile. Ma che "trattamento", il vostro, anche! Siete veramente splendidi.”
“Eh, queste occasioni capitano raramente nella vita. Eppoi, quando la roba c'è, perché mostrarsi avari? Grazie a Dio la roba c'è.”
“Ah, certo, Dio ve la benedica.”
Rimesse in ordine le camere, Maria e Sabina scesero in cucina, inseguendosi per le scale e ridendo come bambine. Le vicine ammirarono subito i piedi della sposa.
“Sembrano due penne da scrivere, tanto sono piccini”, dissero chinandosi per veder meglio.
Sabina offrì scherzando a Maria una tazza di caffè e latte.
“Non lo vuoi? Allora lo bevo io.”
E siccome Maria sbadigliava, una vicina le disse maliziosamente:
“Va là, stanotte non digiunerai”.
Ella arrossì e scappò via. Ritornò nella sua camera e cominciò a preparare le vesti da sposa. Intanto zio Nicola e un fratello di zia Luisa erano andati a prendere lo sposo per condurlo in casa della fidanzata.
Le sorelle di Francesco, che dovevano vestire Maria, non tardarono a giungere, e benché fossero vestite da spose, con ricche tunicas pesanti e cinture e corsetti strettissimi, e con le mani coperte di anelli, compirono il loro obbligo.
Ritta davanti allo specchio, Maria non rifiniva di guardarsi, girandosi e rigirandosi, torcendo il collo per vedersi alle spalle; ma la luce dello specchio era falsa, rendeva l'immagine rimpicciolita e irregolare, ed ella non rimaneva soddisfatta della sua bellezza ed eleganza.
Ma più che lo specchio, ne la persuase lo sposo quando, entrando d'improvviso, si fermò a guardarla con occhi scintillanti.
“Come sei bella!”, esclamò.
Vestita da sposa, coi fianchi prominenti, la vita fortemente stretta da una cintura d'oro, e il busto ben disegnato dal corsetto di raso bianco ricamato, ella era davvero d'una bellezza splendente: la benda bianca che lasciava trasparire il colore roseo della cuffietta, e non nascondeva i lunghi pendenti di corallo, le circondava il viso come di un'aureola lunare.
Solo un'altra volta Francesco l'aveva veduta altrettanto bella, sebbene d'una diversa bellezza: la notte di Gonare.
E glielo disse, avvicinandosele, carezzevole, e aggiustandole con le mani un po' tremanti il nastro del ricco grembiale.
“Che matto!”, ella rispose, dandogli un colpettino sulla mano con la medaglia d'oro del suo rosario di madreperla.
“Andiamo”, disse la sorella di Francesco. “Scherzerete dopo.”
Ma egli cinse la vita di Maria, e volle baciarla.
“Ah”, ella disse, svincolandosi, “tu vuoi dunque comunicarti in peccato mortale?”
“Se i baci sono peccati, quanti ne faremo!”
Ella s'avviò: un'ombra le oscurò nuovamente il viso: il ricordo dei baci di Pietro le attraversava la mente. Ma subito altre cure la richiamarono alla realtà, e il sorriso della sposa felice tornò a illuminarle gli occhi. Il corteo nuziale fu ordinato da zia Luisa.
“Prima voi”, ella disse, consegnando ad un bambino e ad una bambina in costume due ceri adorni di nastri azzurri.
“Avanti, camminate, come due sposini; e non litigate, eh!”
Poi veniva la sposa fra le due cognate, poi Francesco fra zio Nicola e il fratello di zia Luisa. Seguivano altri parenti ed amici.
Zia Luisa, ferma sul portone, guardò allontanarsi il corteo, poi rientrò in cucina, e col lembo della benda si asciugò una lagrima.
Nelle straducole che le vicine avevano accuratamente spazzato per la circostanza, le donnicciuole, i bimbi, le galline, i cani e i gatti fecero ala al corteo: ma nelle altre vie poco animate la gente arrivava in ritardo per godersi lo spettacolo.
Suo malgrado Maria si turbava sempre più: non vedeva, non sentiva più nulla: le gambe le tremavano e il cuore le saltava in gola. Ecco, aveva voglia di piangere e di ridere nello stesso tempo. Pensava che fra un'ora avrebbe ripercorso quelle vie, non più libera, non più fanciulla, ma legata eternamente ad un uomo che non amava. Eppure non si sentiva infelice; ma un arcano sentimento di paura le faceva battere il cuore.
E inoltre temeva di veder da un momento all'altro ricomparire la figura minacciosa e dolente di Pietro Benu. Ma il corteo arrivò felicemente in chiesa; ed ella si rasserenò. Le parve che la pace silenziosa delle grige arcate scendesse nell'anima sua: sì, tutto oramai era finito; non c'era più nulla da temere; il passato era morto.
Dai finestroni della chiesa deserta pioveva qualche chiazza di sole sulle panche polverose; si sentivano gli uccelli garrire nell'aria tiepida e pura.
Maria e Francesco s'inginocchiarono sui gradini dell'altare, sotto gli sguardi severi d'un Padre Eterno dipinto sulla vôlta: un Padre Eterno che pareva un vecchio pastore sardo, circondato di nuvole verdicce. Maria si raccolse, pregò, promise a Dio d'essere una buona moglie; disse il sì con voce ferma e forte, e solo quando furono usciti di chiesa osò guardare lo sposo.
Sua, per tutta la vita. Il suo nome non era più Maria Noina, era Maria Rosana. Amen.
Quasi felice, camminò a fianco dello sposo che non cessava di guardarla.
“Parla, Maria”, egli le diceva dolcemente. “Dimmi qualche cosa, sorridi; vedi, tutti ci guardano...”
Ella sorrise e rispose:
“Non so cosa dire: sono tutta turbata”.
La gente, intanto, sapendo che doveva ripassare il corteo, s'affacciava alle finestre, alle porte, usciva nelle vie. Una torma di monelli circondò gli sposi. E all'uscita dal Municipio cominciò per questi e per il loro seguito uno strano tormento.
Dalle finestre e dalle porte pioveva su loro una fitta gragnuola di frumento, di confetti, di fiori; e ciò non bastando le donne scaraventavano davanti alla sposa qualche piatto che si frantumava con fracasso. Quest'atto, che ha un significato, e non si compie davanti alle spose vedove o non vergini, faceva arrossire Maria e sorridere Francesco.
Nelle straducole del vicinato dei Noina, la pioggia di grano e il fracasso dei piatti diventarono furiosi; grida di donne e di fanciulli risuonarono:
“Buona fortuna! Buona fortuna!”.
Zia Luisa attendeva davanti al portone; appena vide gli sposi cominciò a piangere, e piangendo li abbracciò e li baciò.
Anche lungo la guancia di Maria scese una lagrima; il lembo della benda l'assorbì lentamente, e la piccola macchia non era peranco asciugata che la sposa sorrideva di nuovo.



XV.


Spinto dal suo destino Pietro rientrò in casa Noina. Da giorni e giorni egli combatteva contro l'ossessione di riveder Maria sposa, Maria irreparabilmente perduta per lui. Perché rivederla? Neppure lui lo sapeva. Così, per disperazione.
Egli adesso viveva presso le sue vecchie zie e lavorava nel loro piccolo podere. La mattina delle nozze di Maria si svegliò prestissimo e si mise a lavorare con più ardore del solito; ma il suo pensiero volava lontano, penetrava nella casa degli sposi, li accompagnava alla cerimonia. Egli vedeva Maria vestita da sposa; vedeva Francesco sorriderle; seguiva il corteo rumoroso e lieto. Maria splendeva di bellezza, Francesco di felicità. Ed egli... egli era là, curvo sulla terra che alle prime carezze primaverili s'adornava come una sposa; egli era là, solo, schiavo tradito e dimenticato...
Un sudore freddo gli bagnava la nuca; le tempia gli pulsavano; il desiderio di ritornare in paese e di recarsi in casa degli sposi lo vinceva come una suggestione maligna.
"Ho la febbre, non posso più lavorare", disse fra sé, per scusare la sua debolezza. Si tastò il polso, s'asciugò il sudore; poi s'avviò. Ma giunto a Nuoro, invece di coricarsi si lavò, indossò il costume delle feste e si diresse al luogo fatale. Un impulso cieco lo spingeva; egli ritornava nella casa dei Noina come l'assassino ritorna nel luogo ove ha commesso il delitto.
Arrivato davanti al portone esitò ancora un momento, poi scosse la testa col suo solito gesto sprezzante ed entrò: ma si fermò sotto la tettoia. Era circa la una: il sole inondava il cortile; dalla cucina usciva un acuto odore di carni arrostite e di caffè tostato. S'udivano risate, tintinnii di bicchieri, tutto il chiasso del banchetto nuziale.
Pietro guardava verso il ballatoio con occhi ardenti. Doveva salire? Doveva entrare in cucina, sedersi al suo posto di servo? I ricordi gli affluivano al cuore, con impeto angoscioso; per un momento rivisse nel passato, ricordò il primo convegno d'amore, e strinse i denti quasi per reprimere un grido di rabbia e di dolore.
Una donna apparve sulla porta della cucina, con in mano un gran piatto bianco che scintillò al sole.
“Oh, Pietro”, ella salutò gaiamente, “buon giorno. Vieni avanti. Vieni su.”
“C'è molta gente?”, egli domandò, attraversando il cortile.
“Non tanta. Vieni: zio Nicola sarà contento di vederti!”
Egli la seguì su per la scala.
“Guardate chi viene”, disse la donna, entrando nella stanza del banchetto. E tutti lo guardarono. Egli si toccò la berretta, poi s'avvicinò a zio Nicola e gli mise una mano sulla spalla.
Il padrone, già mezzo brillo, si scostò e lo fece sedere accanto a lui; poi gli pose un piatto davanti e gli disse qualche parola.
Pietro non sentì: non vedeva, non udiva nulla: gli pareva d'essere penetrato in un luogo sconosciuto, tra una folla di ignoti, e sentiva solo il battito del suo cuore. Ma a poco a poco si calmò: vide davanti a sé il piatto, lo spinse, poi si guardò attorno.
I convitati erano circa una trentina fra uomini e donne: sedevano intorno a tavole apparecchiate alla buona, con piatti variopinti e bicchieri di diverse forme, certo presi a prestito da qualche famiglia amica.
Gli sposi mangiavano nello stesso piatto, seguendo l'uso nuziale sardo, e Francesco serviva Maria con esagerata premura.
Ella aveva smesso il costume da sposa, ma sotto il bustino di broccato conservava la splendida camicia ricamata; un fazzoletto scuro, dipinto di rose e di giacinti, le avvolgeva la testa. Era bellissima, e Francesco, ebbro d'amore e anche un po' di vino, pareva non vedesse altro che lei, sordo alle chiacchiere e alle grida dei convitati. Parve non accorgersi dell'arrivo di Pietro: anche Maria non batté palpebra, non smise di sorridere.
"Ella non mi vede neppure: perché son venuto?", si domandò Pietro.
“Eh, sei ancora bianco come una donnicciuola”, gli disse zio Nicola, rimettendogli il piatto davanti. “Il carcere ti ha fatto
diventar bello! Ma perché diavolo non vuoi mangiare?”
“Ho già mangiato. Ah, son diventato bello, dunque? Meglio: così le donne mi verranno dietro ancor più di prima...”
“Ah, donnaiuolo!”, gridò zio Nicola, “ora mi alzo e ti bastono.”
Maria volse rapidamente gli occhi in giro, guardò per un attimo il viso ridente di Pietro, poi abbassò le palpebre e si chinò sul suo piatto.
"Egli non pensa più a me: è venuto per farmelo capire. Va bene", pensò; ma non seppe perché, aggrottò le sopracciglia.
La mano ardente di Francesco si posò sulla sua; ella sollevò la testa e rise, egli le cinse la vita col braccio...
Pietro adesso non poteva staccare gli occhi da loro: ah, ecco, la visione intraveduta e respinta nei momenti più acerbi della sua disperazione, era diventata realtà; quello che un giorno gli pareva impossibile persino in sogno, ora accadeva davanti ai suoi occhi.
Dunque era vero? Tutto era finito per lui; tutto, tutto era passato... Ed egli non reagiva? A momenti sentiva ancora entro le orecchie quel rombo lontano che pareva un galoppo sfrenato di cavalli, e un velo sanguigno gli cadeva sugli occhi.
Ma solo Sabina badava a lui, e s'accorgeva dello sguardo selvaggio che egli rivolgeva agli sposi. Pallida, quasi sofferente, ella non nascondeva la sua ansia e la sua delusione. Aveva atteso Pietro; l'aveva sentito venire: adesso s'accorgeva che egli era venuto per disperazione.
"È finita", pensava anche lei, "non c'è più speranza. Egli l'ama sempre e neppure si accorge di me. Come la guarda! I suoi occhi sembrano di vitriolo: mi fanno paura."
“Che hai, cuore mio?”, le chiese un giovinotto. “Perché sei così pallida? Che hai veduto?”
Ella alzò le spalle: il giovinotto girò lo sguardo attorno, ma non vide che volti sorridenti e rosei.
La festa era al colmo; tutti ridevano e parlavano, con le labbra lucenti di grasso, gli occhi lustri, le mani sollevate; barzellette amene, frasi equivoche guizzavano da un capo all'altro della mensa; qualcuno imprecava.
Ritto accanto alla sposa, col volto color rame a metà lumeggiato da un raggio di sole, un pastore alto, dai capelli rossastri e la barba selvaggia, tagliava destramente a piccoli pezzi un bel porchetto arrostito. Il coltello a serramanico, che egli aveva tratto dalla sua saccoccia, e quasi spariva nella sua mano nodosa enorme, trovava ogni giuntura, tagliava ogni nervo, scorreva scricchiolando sulla crosta rossa del porchetto. Quando questo fu trinciato, il pastore si leccò con disinvoltura le dita, pulì il coltello col tovagliuolo, poi sospirò e si guardò attorno soddisfatto.
Qualche invitato lo applaudì. Lo sposo si rivolse a guardarlo e gridò, in lingua italiana:
“Ma bravo! Bravo, compare; se il re fosse qui presente vi eleggerebbe scalco dei suoi gatti”.
Tutti risero, fuorché Sabina per dolore, zia Luisa per decoro e Maria per dispetto; sì, ella cominciava a stizzirsi nel veder Francesco bere un po' troppo. Pietro ne avrebbe certamente riso.
Il largo piatto col porchetto fece il giro della tavola; e Francesco, frugandovi a lungo, trovò i rognoni che tagliò a pezzetti, coprì di sale e offrì a Maria.
Ella respinse con grazia la forchetta che egli le porgeva.
“Non ho voglia: basta.”
Ma egli le mise in bocca un pezzetto di rognone: ella dovette mangiarlo, ma si stizzì alquanto.
“Va, lasciami in pace!”
“Maria, ti sei offesa?”, egli le chiese, fingendo un grave dispiacere. “Maria!...”
“Eh, non piangere per questo! Piuttosto...”, ella mormorò, fermando la mano ch'egli tendeva verso il bicchiere, “mi farai il piacere di non bere oltre...”
“Ah, tu hai paura che m'addormenti?”, egli disse, guardandola maliziosamente. “Ebbene, no, non berrò più. Più, per oggi, più, più!”
E mise la sua mano su quella di lei, e non volle più mangiare né bere, ma aveva già bevuto abbastanza, e i suoi occhi si socchiudevano, appannati dal vino e dal desiderio.
D'un tratto si sollevò e disse in italiano:
“Evviva l'amore!”, e baciò prima una vecchia parente sedutagli accanto, poi Maria.
Di nuovo tutti risero e applaudirono.
“Com'è allegro quel Francesco; un mattacchione”, disse zia Luisa alla sua vicina di tavola.
Pietro guardava Maria, e Sabina guardava Pietro; entrambi pallidi e cupi, parevano intorno a quella mensa i cui vini e le vivande succulente avevano colorito persino il viso scialbo di zia Luisa, due spettri convenuti al banchetto per portarvi il malaugurio. Ma i convitati non badavano a loro; Pietro usciva dal carcere, Sabina era una povera servente malaticcia; chi poteva occuparsi della loro tristezza? L'allegria degli altri aumentava; i piatti delle vivande si seguivano, facevano il giro della tavola, sparivano senza che alcuno pensasse più a servirsi; le parenti di Francesco, che contavano le portate, fecero scorrere due volte le dita delle mani: sì, venti portate, non c'era male.
Ecco finalmente il caffè ed i liquori: le donne che servivano a tavola si fermarono dietro le sedie degli invitati, e presero parte alla conversazione. Ed ecco, ad un tratto, un giovine istranzu, cioè d'un paese vicino, si alzò, col bicchiere in mano. Tutti aspettarono un brindisi, ma il giovinotto sollevò il bicchiere, mosse la mano sinistra con la punta dell'indice e quella del pollice unite, e cominciò a declamare una strofa del poema: Su triunfu d'Eleonora d'Arborea, d'un poeta sardo:
Cando s'amore cun sas frizzas d'oro,
Sa prima olta m'hat fertu su sinu...
“Che matto”, disse Maria, nascondendo il viso nel tovagliuolo, per non lasciarsi scorgere a ridere. “È ubriaco.”
Zio Nicola s'alzò, fece un cenno al giovine istranzu, e questo tacque. Allora il padre della sposa sedette a cavalcioni sulla sua sedia, batté il bastone sulla tavola, e cominciò la disputa nuziale. Invitò i poeti presenti a rispondergli, poi fece un brindisi agli sposi e inneggiò al "santo matrimonio e alle sue gioie".
Rispose un giovine poeta estemporaneo, assai noto per le sue poesie improvvisate. Egli cominciò a lodare la bellezza della sposa e le virtù dello sposo; zio Nicola mise una mano sull'orecchio e stette ad ascoltare, preparandosi a rispondere.
Dalla porta spalancata penetrava il sole al declino; si scorgevano sul cielo intensamente azzurro gruppi di nuvolette bianche che salivano lente sull'orizzonte, come agnellini su per una china, e davano al pomeriggio una dolcezza, una calma soave.
A poco a poco i commensali, annoiati dalla disputa dei poeti estemporanei, si alzarono e scesero nel cortile. A tavola rimasero solo i cantadores, due vecchi contadini e un fanciullo, Pietro e un giovine proprietario.
Questi due ultimi parlavano a voce bassa, senza por mente ai poeti.
“Sì”, diceva Pietro, “ho un piccolo capitale e fra poco comprerò dei buoi che rivenderò. Ho anche un socio, un proprietario assai ricco; hai tu qualche coppia di buoi da vendere?”
Il possidente non si meravigliava che l'ex-servo possedesse un "piccolo capitale". Pietro non aveva famiglia da mantenere e la sua vecchia zia era da tutti creduta una donna denarosa nonostante la sua apparente miseria.
“Sì, ho da vendere parecchie coppie di buoi e di giovenche”, rispose il proprietario.
“Vedremo”, disse Pietro, pensieroso; “in aprile forse non avremo tutto il denaro necessario, ma combineremo lo stesso. Dove hai le vacche?”
“Nella Serra. Come si chiama il tuo socio?”
“Giovanni Antine: un giovine svelto.”
“Diavolo, lo conosco! Ma ora è in carcere.”
“Oh, per cosa da niente; ha bastonato una guardia daziaria”, disse subito Pietro. “Ma uscirà a giorni.”
“Così, zia tua ha scovato l'aschisorju (20)”, esclamò l'altro. “Diventerai ricco, Pietro. Te l'auguro perché lo meriti.”
“Grazie”, disse Pietro, “ma, credi pure, io non ho trovato alcun aschisorju: son quindici anni che faccio il servo, ed ho risparmiato qualche cosa: ecco tutto.”
Egli mentiva, e non sapeva perché: d'un tratto s'alzò, rise, gli parve d'esser diventato allegro.
“Andiamo giù anche noi”, propose.
Affacciandosi sul ballatoio vide che nel cortile gli invitati ballavano il ballo sardo. Seduta sui gradini della scala, una bella fanciulla in costume suonava la fisarmonica e guardava il circolo dei ballerini che saltellavano tenendosi per mano.
Ma quando Pietro e il giovine proprietario scesero nel cortile, la suonatrice rallentò le note, sollevò il mento roseo che teneva appoggiato alla fisarmonica, e gridò:
“Ohè, chi suona, ora? Voglio ballare anch'io”.
“Continua, Paska; ballerai poi”, la supplicarono; ma ella si alzò, depose lo strumento sullo scalino, e afferrò la mano del giovine proprietario; poi si unì con lui al circolo dei ballerini, e cominciò a saltellare.
Allora Sabina sollevò gli occhi tristi e guardò Pietro.
“Un tempo tu sapevi suonare”, gli disse con serietà. “Suona, Pietro.”
Pareva gli domandasse un favore molto triste; ma egli neppure rispose.
“Suona, Pietro Benu; ti fa male la pancia che sei così di malumore?”, gridò il giovine istranzu ubriaco.
“Non so suonare”, egli rispose allora, infastidito.
“Ebbene, al diavolo la fisarmonica: cantiamo”, propose un ballerino anziano, un bell'uomo roseo dalla lunga barba nera.
“Almeno ballerai”, ardì mormorare Sabina, afferrando la mano di Pietro.
Egli si lasciò trascinare nel circolo saltellante, ma la sua mano senza vita pareva a Sabina la mano di un morto.
Tre giovinotti riuniti nel centro del cortile intonarono a voce il motivo del ballo sardo; la nota del tenore, d'una sonorità selvaggia, pareva venir di lontano, da una foresta primordiale, ove un fauno s'era svegliato cantando. Intorno ai cantori, il circolo dei ballerini eccitati dalla caratteristica musica vocale, saltava e strisciava, serpeggiante, ora restringendosi, ora allargandosi; qualche giovinotto emetteva di tanto in tanto un grido selvaggio, di gioia un po' beffarda, e i cantori proseguivano il loro strano:
Bimbaràmbàra mbài, bimbarambòi
Ma a misura che il sole declinava dietro il portone e l'ombra invadeva il cortile, gl'invitati diventavano pensierosi; ognuno d'essi ricominciava a pensare ai fatti suoi e pareva svegliarsi dall'ebbrezza di quel giorno di nozze. A poco a poco il ballo, i canti, i suoni cessarono; molte persone partirono. Francesco attirò Maria in un cantuccio; sedettero ed egli le prese la mano. Il moto del ballo e la digestione avevano fatto svanire la mezza sbornia dello sposo: ora egli tornava ad esser galante e innamorato, ma coi suoi soliti modi insinuanti e un po' affettati.
La gente andava e veniva: le giovinette e qualche adolescente si divertivano a stringer patti di fede e d'amicizia (21), annodando e snodando sette volte le cocche d'un fazzoletto e stringendosi poi la mano, dandosi del voi e chiamandosi compari e comari; nelle camere di sopra si udiva il tintinnio dei bicchieri e le voci rauche ed allegre degli amici di zio Nicola, ma nell'angolo ove s'erano ritirati gli sposi, sotto la vôlta della scala, regnava una pace soave, quasi triste. Il sole era scomparso: l'ombra aveva invaso il cortile; sul cielo limpidissimo si stendevano i primi veli rosei del crepuscolo; non un alito di vento, non un canto di uccello, non una nuvola, turbavano l'armonia melanconica e dolce di quell'ora, e gli sposi si sentivano vagamente turbati. Maria era diventata un po' pallida; i suoi occhi sembravano più grandi del solito.
“Ti diverti?”, domandò Francesco, palpando con un dito le pietre degli anelli che le coprivano le mani.
“Se non mi diverto oggi, quando potrei divertirmi?”, ella disse, con lieve ironia.
Francesco le cinse la vita col braccio, la guardò negli occhi con desiderio ardente. Com'ella era bella così, un po' languida e stanca, con gli occhi smarriti, rivolti al cielo roseo! No, nessun re della terra poteva esser felice come in quel momento si sentiva felice Francesco Rosana. Egli fremeva lievemente, come l'albero accarezzato dalla brezza; guardava la bocca della sposa e provava la gioia dell'assetato che avvicina le labbra allo zampillo della fontana...
Ma ella guardava lontano, ed i suoi occhi splendevano d'una luce vaga, che sembrava il riflesso del cielo e forse era il riflesso d'un sogno triste...
Pietro intanto era risalito nella stanza ove zio Nicola s'ostinava a tentare ancora qualche verso.
“I tempi cambiano”, disse il contadino anziano dal viso roseo e la barba nera. “Un tempo si cantava fino alla mezzanotte, o almeno finché gli sposi si ritiravano, e si ballava molto, anche. Ora i giovani son fiacchi, la gente è stanca e non ama divertirsi. Le nozze sembrano funerali.”
“Ho anche osservato una cosa”, disse il pastore che aveva trinciato il porchetto arrostito. “Un tempo si usava baciare la sposa sulle guance, e qualche burlone la baciava anche sulla bocca. Ora niente: pare si abbia paura. Nessuno ha baciato Maria.”
“Voglio baciarla io”, esclamò il contadino, battendo le mani. “È vero che bisogna baciarla mentre le si fa un dono. Il dono io gliel'ho già fatto, ma il bacio lo voglio ancora...”
“Ebbene, se la baci tu la bacio anch'io”, disse il giovine proprietario.
“Francesco Rosana vi romperà le costole.”
“Un corno! E che non è usanza antica? Sua madre, quando si sposò, fu baciata da tutti gl'invitati.”
“Vuoi farmi un piacere?”, disse allora Pietro al giovine possidente. “Devo anch'io regalare una moneta alla sposa: non mi piace darle una carta da dieci lire. Potresti cambiarmela e darmi due scudi d'argento?”
“Fai le cose a dovere, perdio!”, osservò l'altro. “Mi dispiace, però, non ho gli scudi”.
Ma Pietro ebbe un'idea felice, chiamò zia Luisa in disparte e le domandò se poteva cambiargli in argento le dieci lire.
“Se vuoi anche in oro, figlio mio”, disse zia Luisa. “Tutto quello che vuoi.”
“Bene, datemi mezzo marengo.”
Zia Luisa cambiò il denaro e Pietro tenne entro il pugno la monetina d'oro.
“Andiamo”, disse poi al giovine proprietario. “Addio, zio Nicola.”
“Come, te ne vai, Pietro? Bevi almeno.”
“Ebbene, date qua.”
Bevette un bicchiere di vino forte, poi si avviò, seguito dal suo nuovo amico. Nel cortile si fermò un momento, ridendo; sentiva una dolce vertigine, e gli pareva che dentro il suo pugno la monetina d'oro palpitasse forte come cosa viva.
“Addio, zia Luisa”, gridò, mettendo la testa entro la porta di cucina.
“Addio, Sabina bella...”
“Addio”, rispose Sabina, correndo come una pazza fino al limitare della porta.
Ma quando fu là, ella vide una scena strana. Pietro e il compagno s'avvicinavano agli sposi: Francesco, che si era alquanto chinato su Maria, si sollevò e sorrise. Il giovine proprietario disse qualche parola, e si chinò e baciò la sposa sulla fronte.
E subito dopo Pietro l'imitò, ma invece di baciare Maria sulla fronte la baciò sulla guancia, quasi all'angolo della bocca; poi le strinse la mano dandole la moneta d'oro.
Sabina sussultò le parve di svenire.
I due giovinotti attraversarono il cortile e se ne andarono: Maria mostrava a Francesco la monetina donatale da Pietro; egli sorrideva e diceva scherzando:
“Ah, me l'hanno fatta! Guai però se gli altri cercano d'imitarli!”.
"Stupido", pensò Sabina, voltando le spalle agli sposi. "Il bacio di Pietro è stato il bacio di Giuda; e tu sorridi!"

Pietro vagò tutta la sera in compagnia del suo nuovo amico. Andarono nella bettola del "forestiere" e la bella Maria Franzisca li inebbriò di vino e di sguardi provocanti.
Poi il toscano s'avvicinò e sedette accanto a loro.
“Che belle nozze”, esclamò, “come è vero Dio, non se ne vedranno più, in questo vicinato, nozze così di lusso.”
“Abbiamo baciato la sposa”, disse il giovine proprietario. “Io non ci ho trovato nessun gusto, però...”
“Ci troverà più gusto lo sposo”, disse la moglie del bettoliere, alla quale il marito voltava le spalle; e il suo sguardo nero, scintillante, attirava con una specie di fascino magnetico gli occhi di Pietro. Egli taceva e la guardava.
Per la prima volta s'accorse che la giovine donna, della quale soltanto la voce un po' rauca riusciva sgradevole, rassomigliava a Maria.
E mentre il toscano e il giovine possidente parlavano male di Francesco, burlandosi delle sue maniere affettate, l'ex-servo si alzò e s'avvicinò al banco per pagare.
“Che fai?”, gridò l'altro.
“Lascia”, egli rispose. “Hai da cambiarmi cinque lire, Maria Franzisca?”
Ella aprì il cassetto e disse con intenzione:
“Stanotte mio marito va ad Oliena. Ho messo tutti gli spiccioli nella sua borsa”.
Pietro s'era chinato sul banco e quando ella si sollevò le fece un cenno cogli occhi. Ella contava gli spiccioli e fece cenno di sì.
Fino a tarda sera Pietro e il compagno vagarono per le bettole; poi l'ex-servo incontrò altri suoi conoscenti e tutti assieme andarono a cantare davanti alle porte delle fanciulle delle quali più o meno erano innamorati. La notte era dolce, tiepida. Pietro, ubriaco, pensava sempre agli sposi e per stordirsi cantava, e di tanto in tanto si sfogava con quel grido caratteristico, col quale talvolta i paesani nuoresi vogliono esprimere la loro gioia. Ma sembrava un urlo di angoscia dispettosa.
Tutta la notte egli fece baldoria.
Maria Franzisca lo attese a lungo, e quando egli arrivò ed ella lo accolse ubriaco fra le sue braccia, lo sentì gemere e lamentarsi come un malato.



XVI.


Passarono due mesi.
In casa Noina tutto era rientrato nell'ordine e nella pace di prima; le rendite s'erano triplicate: zia Luisa scoppiava di pinguedine e di boria; anche Maria ingrassava e pareva felice. Adesso non andava più scalza e non accudiva alle più basse faccende domestiche: era diventata quasi una signora. Aveva una fantesca svelta e diligente; altre donne venivano a lavorare in casa, quando si doveva preparare il pane d'orzo per i servi di Francesco. Nel cassetto del canterano Maria serbava una scatola colma di biglietti di banca e un piccolo cestino di monete; tutte le donne dei principali nuoresi la guardavano con invidia quando la domenica ella si recava, splendidamente vestita, alla messa di mezzogiorno. Insomma tutti i suoi sogni s'erano avverati.
Francesco, sempre più innamorato, la circondava di cure e di adorazione, cortese fino alla noia.
Nelle belle giornate di primavera gli sposi montavano sulla magnifica cavalla bianca, che già li aveva ricondotti dal monte Gonare a Nuoro, e visitavano l'oliveto, la vigna, l'ovile di Francesco.
Nell'ovile, anzi, avevano divisato di passarci tutto il mese di maggio, come usano certi pastori nuoresi allorché si sposano.
Francesco veramente non era un pastore: era un possidente ed aveva una discreta rendita; ma siccome il bestiame e i pascoli rappresentavano la sua più grossa proprietà, egli passava buona parte del suo tempo nell'ovile, coi suoi pastori, i suoi cani, le belle vacche alte e fiorenti che lo riconoscevano e che pareva lo amassero in modo speciale. Anche lui le amava, le chiamava con nomi poetici, le accarezzava, s'accorgeva se stavano più o meno bene.
Queste vacche pascolavano liberamente tutto l'anno nelle ubertose tancas (22) di Francesco: si abbeveravano nell'acqua corrente d'un ruscello, meriggiavano sotto i boschetti di querce millenarie, e la sera si ritiravano entro una mandria circondata di siepi. Nessun riparo per l'inverno: durante le lunghe nevicate i pastori nutrivano il bestiame con la sida, cioè con le fronde e le foglie della quercia.
Maria batté infantilmente le mani alla proposta di passare il maggio nell'ovile, tanto più che cominciava ad annoiarsi della sua vita sfaccendata di sposa ricca.
"Sono troppo felice, ho fin quasi paura", pensava, mentre trapuntava una collana (23) per il suo Francesco, con una pazienza ed un'abilità da Aracne. "Non mi manca niente. Mio padre ora sta bene, mia madre anche: entrambi vanno d'accordo ed amano Francesco come un loro figlio. Tutto va bene; l'annata si promette buona, abbiamo provviste e danari, non siamo tormentati né da liti né da inimicizie. Tutti ci vogliono bene. Anche quel disgraziato non s'è fatto più vivo; mi ha dimenticata, non pensa più a me. Sia lodato Iddio."
Ella ricamava, seduta all'ombra del portone: zia Luisa e la serva lavoravano in cucina. Francesco era in campagna, zio Nicola nella bettola.
La casa dei Noina, più che mai tranquilla e sicura come una piccola fortezza, dominava sul povero vicinato, nelle cui viuzze l'erba cresceva fresca ed alta, nei cui cortiletti, invasi dalla farinella, dal giusquiamo e dalle euforbie, i pergolati e le siepi fiorivano con la melanconica poesia delle cose umili e abbandonate.
"Una sola cosa manca", pensava la giovine sposa, sollevando la testa per infilare l'ago; "ma verrà anche quella! È presto ancora: due mesi appena! Verrà, verrà..."
E provava un impeto di gioia al pensiero di poter presto diventar madre.
"Senza figli, Maria Santissima, a che serve la vita, il benessere, il denaro?"
Ah, senza confessarlo apertamente, ella finiva col dire a se stessa che qualche cosa le mancava: la scatola dei biglietti, il cestino delle monete, le vesti di lusso, i servi, l'invidia delle donne della sua classe, non bastavano dunque a riempire la sua vita.
E l'amore dello sposo, dunque?
“Mi vuoi bene, Maria?”, egli le domandava, nei momenti della sua più ardente adorazione. “Sei contenta, sei felice come sono felice io?”
“Sì, sì”, ella rispondeva.
“Non hai voluto bene ad altri uomini?”
“Mai ad altri”, ella affermava, ed i suoi occhi si velavano.
Una statua si sarebbe commossa più di lei alle carezze dello sposo: ma lo sposo l'amava, la voleva appunto così, casta e ignara, con gli occhi coperti da un velo di pudore.

Una mattina di maggio i due sposi montarono dunque a cavallo e presero la via dell'ovile.
Era la stessa strada, i medesimi luoghi da loro attraversati pochi mesi prima nel recarsi al monte Gonare. Ora però le campagne, inondate di sole, si stendevano verdi e fiorite; sulla pianura, arsa d'estate e pantanosa d'inverno, ondulava alla brezza una vegetazione selvaggia, un mare d'erbe alte, di cardi dal verde argenteo, di asfodeli dai fiori lucenti di rugiada; le ferule innalzavano i loro ombrelli diafani; manti di fiori rosei coprivano le macchie; il puleggio e la rosa selvatica imbalsamavano l'aria tiepida e pura.
Le montagne lontane coronavano il panorama come d'un immenso diadema di zaffiro, più azzurro del cielo stesso.
Maseda (24), la cavalla, procedeva tranquilla per i sentieri aperti fra l'erba delle tancas; benché non fosse tormentata da mosche, si sbatteva la coda ora su un fianco, ora sull'altro, annusando l'erba ogni volta che Francesco rallentava il freno. Pareva sentisse la gioia della bella giornata, il piacere dell'aria libera; quando attraversava qualche piccolo corso d'acqua, vicino al quale i narcisi e la menta esalavano un profumo eccitante, apriva le narici e fremeva tutta; e rispondeva con un nitrito se qualche vacca sporgeva il muso bianco e nero sulla muriccia della tanca e muggiva bonariamente.
Maria, abbandonata sulle spalle di Francesco, si lasciava cullare dal passo tranquillo e cadenzato della cavalla, e provava una dolcezza quasi triste: il tepore del sole, il profumo delle erbe, e tutto quel fascino di solitudine e d'azzurro, le davano un torpore voluttuoso di sogno.
Tra le fratte coperte di rose selvatiche ella udiva gli uccelli trillare d'amore, le vacche muggire, qualche mosca iridata ronzare ebbra di sole e di miele; vedeva le piccole farfalle diafane, verdi e rosse, nere e violacee, che parevano nate dai fiori, incrociarsi e amarsi pazzamente per aria; e un filtro d'amore, un desiderio indistinto la illanguidiva tutta. Eppure la stretta ardente della mano di Francesco non riusciva a far divampare il fuoco del desiderio che le covava entro il cuore; s'egli si fosse voltato e l'avesse baciata, ella avrebbe pianto di tristezza.
Ma finalmente giunsero all'ovile: Maria si scosse, scivolò svelta dalla groppa di Maseda, e guardò se il sudore della cavalla le aveva macchiato la sottana.
“Mi pare d'aver dormito”, disse, facendo qualche passo per sgranchirsi le gambe.
Francesco si mise ad armacollo il fucile che aveva sempre tenuto sul davanti della sella, e fischiò per avvertire del loro arrivo il pastore.
Ben presto giunsero, saltando ed abbaiando, i cani dell'ovile, e tutta la tanca, poco prima silenziosa, risuonò di voci amiche. Le giovenche muggivano, quasi indovinando l'arrivo del padrone; i cani degli ovili vicini rispondevano all'abbaiare dei cani di Francesco; i pastori accorrevano.
Maria s'avviò verso la capanna.
La vasta tanca era chiusa da muricce assiepate; al nord s'elevavano grandi rocce, al di là delle quali, coperto da alti rovi e da querce selvagge, insinuavasi un sentiero che pareva un antro.
La capanna e le mandrie, fatte con muri a secco e coperte di rami e di frasche, sorgevano quasi nel centro della tanca, addossate ad una roccia e circondate da una breve radura.
Maria si curvò per entrare nella capanna, della quale conosceva già l'interno. Una pietra fissata al suolo serviva da focolare; qualche primitivo sgabello di ferula, fatto dai pastori, formava tutto il mobilio dell'abitazione preistorica.
Sopra un'asse disposta sotto il tetto di frasche, stavano le provviste del pastore; dai rami sporgenti pendevano vasi di sughero col manico di legno pieghevole, ed altri arnesi necessari per la confezione del formaggio e della ricotta; qualche tagliere di legno, qualche spiedo, unghie di pecora ridotte a cucchiai, formavano le masserizie dell'abitazione ove gli sposi volevano veder tramontare la loro luna di miele.
Maria guardò e frugò in ogni angolo; mise tutto in ordine, poi sedette su uno sgabello, finché arrivò il servo pastore, verso il quale ella nutriva un'istintiva antipatia.
Era un grosso e rozzo giovinotto dal nome duro: Zizzu Croca, e dal nomignolo poco rassicurante: Turulia (25) - una figura di uomo primordiale, con grossi occhi azzurri iniettati di sangue, in un viso nero, arso e aquilino d'arabo: la mastrucca (26), completava il suo aspetto d'uomo selvaggio.
Nonostante questo aspetto, Zizzu Croca aveva maniere garbate ed una voce dolce, quasi femminea.
“Lasciate fare a me”, disse, poiché Maria e Francesco si preoccupavano per il giaciglio, “vi farò un letto più bello del vostro letto di sposi. Io dormirò fuori sotto la siepe, o costruirò un'altra capanna: qui, in quest'angolo, faremo un bel giaciglio di felci, sulle quali stenderemo il materasso, i cuscini e le coperte che arriveranno da Nuoro.”
Infatti s'avviò verso il ruscello, sulle cui rive le felci spiegavano i loro ventagli dentellati, ne falciò un mucchio e prima di portarle nella capanna lasciò che il sole ne assorbisse la rugiada.
Verso mezzogiorno arrivò il servo con un carro carico di roba: materassi, cuscini, coperte, provviste.
Maria mise in ordine ogni cosa: Poi i due sposi se ne andarono a veder le vacche e a visitare tutta la tanca. Il sole quasi ardente inondava i pascoli; le alte querce scintillavano; i prati coperti di reseda e di ranuncoli parevano spruzzati d'oro; ogni cosa brillava nella luminosità di quel limpido e silenzioso meriggio. Le locustelle saltellavano sui rovi fioriti; farfalle in colore dei fiori, insetti in colore dell'erba, animavano la solitudine divina del bosco. Nei ceruli sfondi, dietro le rocce e i muricciuoli verdi di musco, il cielo pareva un mare lontano: un mare di sogni.
Francesco Rosana aveva un sentimento istintivo della natura. Col suo modo d'esprimersi un po' affettato, diceva alla sua giovine sposa, cingendole la vita col braccio, e guardandola con occhi amorosi:
“Una volta ho visto una Bibbia con le figure colorate: c'era il paradiso terrestre con alti alberi e campi fioriti, così come in questa tanca. Adamo ed Eva camminavano sull'erba; ecco, mi pare che anche noi siamo nel paradiso terrestre. Quante volte ti ho desiderata, qui, quando ero scapolo. Ah, vedi, mi pare un sogno ora...”.
E la stringeva a sé, quasi pauroso di vederla sparire. Ella lo lasciava fare, calma e sorridente come una dea; e passava calpestando i fiorellini e gli insetti, e strappando le rose selvatiche che le sfioravano la mano.
E le giovenche bianche macchiate di nero, i tori rossi dai grandi occhi umidi e come sognanti, i vitellini color caffè-latte, col muso roseo e le corna nascenti, volgevano lentamente il capo e scuotevano la coda, quasi salutando i loro giovani padroni.

Anche Maria si sentiva contenta di quella vita idilliaca, e avrebbe voluto che quel maggio durasse eternamente.
Si levava all'alba, quando le cime delle querce rabbrividivano alla brezza, inargentate dal riflesso del cielo chiaro, e assisteva con Francesco al mungere delle vacche e alla confezione del formaggio, aiutando i pastori a versare il latte ed a preparare i recipienti. Le vacche uscivano una dopo l'altra dalle mandrie, e si fermavano accanto al pastore quando Francesco le chiamava per nome. Dalle grandi mammelle rosee il latte pioveva tiepido e fumante entro il paiuolo di rame o nei recipienti di sughero.
Attraverso la siepe i vitelli guardavano curiosi, coi grandi occhi attenti, e dall'estremità della radura anche gli alti steli dell'avena, le ombrelle della ferula, gli occhi d'oro dei ranuncoli, umidi di rugiada, pareva guardassero, commossi e tremuli, quella funzione così sacra e solenne nella sua semplicità.
Più tardi Maria passava nuovamente al fuoco il formaggio dopo averlo lasciato alquanto fermentare, e lo riduceva a caciuole dalla forma di pera. Ella era molto graziosa quando sbrigava questa faccenda; si rimboccava le maniche della camicia fino al gomito, ripiegava sulla sommità del capo i lembi del fazzoletto, in modo che si scorgevano i suoi pendenti di corallo, si piegava sul focolare acceso e rimescolava destramente il formaggio entro la casseruola di rame. E quando il cacio diventava tutto una pasta elastica e giallognola, ella lo estraeva, lo metteva entro un piatto concavo, gli dava, lisciandolo con le mani bagnate, la forma di una grossa pera e lo gettava nell'acqua fresca: poi ne cominciava subito un altro.
Francesco ed il pastore eseguivano anch'essi, col cacio così ridotto, graziosi formaggelli in forma di uccelli, di piccole vacche, di cinghiali, di cervi; ed anche trecce e statuine che parevano idoletti indigeni, e microscopici cavallini con sella e briglia e relativo cavaliere.
Questi giocattoli mangiabili venivano poi da zia Luisa regalati ai bambini degli amici e dei parenti.
Maria preparava il pranzo, ed il pastore veniva spesso ammesso alla mensa patriarcale dei padroni; il più delle volte pranzavano all'aperto, sotto una quercia, e dopo il pasto i due sposi vagavano per la tanca, visitavano gli ovili vicini, talvolta si spingevano fino alla chiesetta dello Spirito Santo, solitaria e nera come una roccia tra il verde dei campi silenziosi.
Se non si allontanavano dal loro ovile, Maria e Francesco meriggiavano nel bosco, e talvolta finivano coll'addormentarsi sotto le querce scosse dalla brezza e indorate dal sole, sopra un letto di fieno e di margherite, davanti a quegli sfondi così azzurri e luminosi che davano l'illusione di un mare lontano.
Quando si svegliava Maria preparava il caffè, poi sedeva davanti alla capanna, all'ombra della roccia, e trapuntava una camicia, mentre Francesco leggeva un numero arretrato della Nuova Sardegna, o il poema sardo Su triunfu d'Eleonora d'Arborea, del poeta Dore di Posada.
La solitudine era dolce e profonda; i cani sonnecchiavano; sul prato, in fondo alla raduna, i vitellini si rincorrevano e giocavano; s'udiva qualche fischio, qualche voce lontana; l'ombra delle querce si allungava sull'erba e il sole declinava con dolcezza infinita.
Verso l'imbrunire Maria preparava la cena; poi, se la sera non era troppo fresca, i due sposi vagavano ancora un po' qua e là. Qualche lucciola brillava, immobile sull'erba, come un misterioso fiore notturno, e pareva riflettesse lo splendore verdognolo delle prime stelle tremolanti sul cielo ancora violaceo. Tutto taceva e odorava; le estreme foglie delle querce tremolavano, vicine agli astri; il pastore dalle vesti selvagge, accoccolato davanti alle mandrie, recitava il rosario. Poi i due sposi si raccoglievano nel loro letto di felci, e la notte soave spiegava le ali di velo sulla natura addormentata.

Così i giorni passavano.
Uno dei pastori, il più giovine, un ragazzo malaticcio e silenzioso, recava ogni sera a Nuoro il prodotto giornaliero delle vacche, e la mattina dopo ritornava con le provviste che zia Luisa mandava agli sposi. Ogni giorno zio Nicola mandava a dire che sarebbe presto venuto, ma non arrivava mai.
Nulla turbava l'idillio primaverile dei due sposi: solo qualche pastore vicino veniva a visitarli e qualche viandante nuorese s'indugiava un momento nel loro ovile. Però Turulia, il pastore anziano, litigava spesso con Francesco per cose da nulla. Con Maria si mostrava affettuoso e premuroso, lamentandosi spesso con lei per la pedanteria e le esigenze del padrone: di notte si accovacciava sotto un riparo di frasche, a pochi passi dalla capanna, e vigilava come un cane.
Una sera, nel ritirare le vacche, Francesco si accorse che ne mancava una. Al solito, una breve questione sorse tra padrone e servo, poi entrambi s'allontanarono per cercare la vacca. Maria rimase per la prima volta sola nell'ovile: Francesco però le aveva promesso di ritornare presto; e per ingannare il tempo ella s'avanzò fino alle rocce che dominavano il sentiero.
La luna illuminava già la tanca; ad occidente il cielo conservava una tinta rossa infocata.
Appoggiata ad una roccia, Maria vedeva ai suoi piedi il viottolo assiepato e più in là un angolo del sentiero che attraversava la tanca limitrofa.
D'un tratto le parve di udire i passi di un uomo in fondo al viottolo; credendo fosse Francesco, si sporse alquanto, ma non vide nessuno: i passi cessarono.
“Franziscu?”, ella chiamò.
Nessuno rispose. Allora Maria sollevò gli occhi, e guardando di nuovo verso la tanca vicina vide un uomo alto e snello che attraversava rapidamente il tratto di sentiero che si scorgeva dalla roccia. Ella credette di riconoscerlo, e se un fantasma le fosse apparso in quell'istante non le avrebbe causato più spavento.
Istintivamente si nascose dietro la roccia, e per qualche momento stette immobile, fredda, palpitante; mille confusi pensieri di terrore le passarono nella mente. Che cercava Pietro da quelle parti? Le pareva d'averlo ben riconosciuto; sì, era lui, alto e svelto, con la sua sopravveste di pelle giallognola; nessun altro paesano nuorese aveva il portamento fiero di Pietro Benu, ed ella poteva ben riconoscerlo anche al chiaro di luna e in lontananza.
Ma dopo un momento si scosse, guardò ancora, ascoltò. Niente, nessuno. La pace infinita della notte lunare stendevasi sulle tancas solitarie: all'ombra delle macchie le lucciole verdognole splendevano: fra l'erbe i grilli trillavano la loro interminabile serenata.
"No, mi sono ingannata", pensò Maria; e ritornò verso la capanna.
Una vaga inquietudine la spingeva: accese il lume e preparò tutto per la cena, ma ogni piccolo rumore la turbava.
Francesco non tardò a ritornare.
“Nessuna traccia della vacca”, disse, adirato. “Vedrai che non si ritroverà. Ah, la finiremo male con Turulia; egli è veramente un nibbio.”
“Che colpa ne ha lui?”
“Che colpa? Glielo spiegherò io. Girano certe figure da queste parti!”
Maria non osò dire che aveva creduto di veder Pietro.
Francesco disse:
“Anche ai pastori vicini sono stati, in questi ultimi tempi, rubati tori e vacche. Ci deve essere una vera associazione: banditi e malfattori che se la intendono con qualche servo pastore, e naturalmente anche con questo famoso nibbio...”.
“Oh, e tu che intendi di fare?”
“Lascia che passino questi giorni; quando saremo ritornati in paese vedrai.”
Ma a notte alta il servo ritornò con la vacca zoppicante e disse di averla trovata in fondo ad una perca (27).
Altri giorni passarono: da tre settimane gli sposi trascorrevano la loro luna di miele nella pace dell'ovile; zio Nicola era venuto un giorno a trovarli; un altro giorno eran venute le parenti di Francesco.
Il tempo mantenevasi sereno; il cielo conservava quella limpidità luminosa che talvolta, in Sardegna, diventa implacabile e fatale; già l'erba ingialliva, l'acqua dei ruscelli diminuiva sempre più.
Un giorno anche Sabina, in groppa al cavallo del servo giovinetto, venne a trovare gli sposi.
“Ti faccio sapere che ho un pretendente”, disse a Maria. E accorgendosi subito che un'ombra passava negli occhi della giovine sposa, si affrettò a soggiungere: “Sì, lo conosci, è un contadino, Giuseppe Pera: non è bello, ma è buono, ed ha anche qualche po' di terra al sole. Suo fratello ha l'ovile qui vicino”.
“Buona fortuna, allora.”
“Non così presto: io non gli voglio bene”, disse Sabina; e se ne andò fra le macchie in cerca di fiori, dai quali succhiava il miele.
Durante il meriggio ella si sdraiò fra l'erba, e nel silenzio profumato del bosco udì gli sposi ridere e baciarsi sotto un albero.
Ricordò i baci di Maria e di Pietro, lassù, fra le distese di grano maturo, nel silenzio dell'altipiano, e fremette.
Spezzò coi denti uno stelo d'avena e pensò a Pietro: ella lo amava sempre, lo amava più che mai; perché egli non ritornava a lei, ora che Maria dava i suoi baci ad un altro?




XVII.


Il giorno dopo altre due vacche mancarono dalla tanca.
Francesco non s'incollerì, ma diventò pallido, e guardò il servo con occhi torvi.
“Andiamo”, gli disse; “anche questa volta le vacche saranno precipitate nel burrone! Va da quella parte: io vado da questa. Maria”, aggiunse, rivolgendosi alla moglie, “vado fino all'ovile dei Pera per domandare se han visto le vacche: torno subito.”
Servo e padrone partirono. Maria preparò la cena, poi uscì fuori della capanna e attese. Si sentiva un po' inquieta per l'affare delle vacche, ma sperava che tutto procedesse come l'altra volta e che Francesco non la lasciasse sola più d'una mezz'ora.
Seduta davanti alla capanna, ella guardava davanti a sé, al di là della radura, verso il bosco, dal quale Francesco doveva tornare.
Pensava:
"Fra due o tre giorni ritorneremo a Nuoro: è tempo: ora comincia a far caldo: cominciano le raccolte: è tempo di lavorare e di far la buona massaia. Mia madre sarà stanca, poveretta; sì, bisogna ritornare".
Ricordi vaghi, ombre fuggenti, le sfioravano il pensiero. Sì, un anno era trascorso, dopo le ultime mietiture... Quante cose in un anno! Come s'invecchia presto! Sì, l'anno scorso ella era sventata e capricciosa come una fanciulla di quindici anni; adesso si vergognava delle sciocchezze commesse: si vergognava, ma non si pentiva. Dopo tutto, chi non è stato giovine? Chi non ha cercato di aprire il misterioso libro dei sogni?
"Chi è senza peccato scagli la prima pietra", pensava Maria, che s'era portata nell'ovile anche la Filotea. "Dopo tutto, ora sono una moglie fedele, sono savia come una vecchia: che volete di più?"
Eppure, mentre pensava così, guardava davanti a sé, e dimenticava le vacche smarrite, i sospetti di Francesco, e che la mezz'ora dell'assenza di lui era trascorsa.
La sera cadeva, dolce e profonda, una sera quasi estiva; il cielo aveva già perduto la trasparenza primaverile: incurvavasi un po' denso e cinereo sulle querce immobili, e sembrava di velluto, qua e là trapuntato dalle prime stelle.
Quel silenzio melanconico, quell'estrema luce smorta che rischiarava la cima grigia della roccia sovrastante alla capanna, cominciarono a inquietare Maria. Già le lontananze s'offuscavano, il bosco diventava sempre più nero sotto il cielo cinereo, e Francesco non tornava. A poco a poco, ai pensieri dolci e vaghi seguì in lei un sentimento di tristezza, di paura quasi infantile.
Perché Francesco non tornava? Egli aveva promesso: chi lo tratteneva?
"Io son qui sola, egli lo sa: se non torna vuol dire che qualche cosa glielo impedisce."
Si alzò, attraversò la radura, fissò gli occhi in lontananza. Nessuno. Il grosso cane dell'ovile abbaiò: il suo latrato di cane giovine, chiaro come una voce umana, riempì per un momento il silenzio profondo della sera calda. Maria si rattristò ancora di più.
“Francesco? Francesco?”
La sua voce si perdé, piccola, nella vastità della radura. Ella s'inoltrò fra l'erba, si fermò ancora, si guardò attorno. Non aveva mai, come in quella sera, sentito il mistero del crepuscolo, delle ombre invadenti. Che accadeva laggiù, dietro i boschi già neri? Che vedevano le pietre posate con misterioso equilibrio sopra le rocce, ancora lievemente chiare nell'estremo barlume del crepuscolo? Perché l'erba ed i fiori scuri e l'asfodelo sussurravano al suo passaggio?
"Nostra Signora mia del Monte, Nostra Signora mia del Monte, che è accaduto?"
Ella camminò, camminò, varcò il ruscello, attraversò il bosco. L'ombra s'addensava sotto le querce, nera, quasi palpabile. Ella provava una strana impressione: le pareva che dei veli si squarciassero al suo passaggio: e il zirlare dei grilli che s'interrompeva d'improvviso, e qualche gemito indistinto di uccello notturno, le sembravano deboli voci emesse dalle querce addormentate.
Così arrivò al confine della tanca, saltò la muriccia, attraversò un altro prato: il suo turbamento cresceva, il cuore le batteva violentemente.
“Francesco? Francesco?”
Silenzio. Un punto rosso brillava in lontananza. Ella si diresse verso quel punto; ogni tanto si fermava, sembrandole di udire voci e passi umani. Un cane abbaiò, un altro rispose in lontananza.
"Francesco deve essere tornato all'ovile: non ci siamo incontrati. Ho fatto male a muovermi."
Ma giacché era avviata, proseguì verso l'ovile di Antonio Pera.
“Antoni, Antoni”, cominciò a gridare.
Il punto rosso per un momento si spense: una figura nera attraversò di corsa il prato.
“Chi è?”
“Sono io, Antoni Pera”, ella gridò con voce ansante.
“Maria! Che è accaduto?”
“Ah, Antoni, che paura! Francesco non è venuto al tuo ovile? Dov'è andato? Ho tanta paura.”
“È venuto qui, mezz'ora fa, circa: è ripartito subito, dicendo che faceva il giro della tanca e poi ritornava subito da te. Sarà già all'ovile. Andiamo, ti accompagno.”
Tornarono indietro, ma nonostante le parole del pastore Maria si sentiva assalita da un tremito nervoso.
“Non aver paura; forse han trovato le tracce dei ladri, e tardano per questo.”
“Come possono veder le tracce, con questo buio?”
Nella capanna non c'era nessuno: il cane abbaiava furiosamente, e Maria credette di sentire qualcosa di triste e di lugubre in quel latrato.
“Che fare? Che fare? Andiamo, cerchiamo”, ella disse, disperata. “Deve essere accaduta una disgrazia.”
“Ma no, Maria; che ti salta in mente? Forse Francesco è ritornato, ed ora ti cerca.”
Allora Maria ritornò nella radura e ricominciò a gridare:
“Francesco? Francesco?”
Solo i cani rispondevano.
Il pastore accese il fuoco nella capanna, poi uscì e disse:
“Se non hai paura di star sola un momento, vado e guardo se posso trovarlo”.
“Va, va, per l'anima dei tuoi morti, va!”
Il pastore s'allontanò a grandi passi. Maria sedette ancora sullo sgabello di ferula, davanti alla capanna, e attese.



XVIII.


Passò qualche tempo prima che Antoni tornasse. Maria tendeva l'orecchio ai minimi rumori della tanca, ed a misura che l'ora passava la sua tristezza e la sua inquietudine crescevano.
La luce del fuoco descriveva un semicerchio rossastro al di fuori dell'apertura della capanna: sopra la nera linea dei boschi brillavano le stelle.
I cani s'erano calmati; soltanto uno, in lontananza, abbaiava ancora.
Finalmente il pastore tornò.
“Dev'essere proprio come ho detto io: devono aver trovato le tracce e inseguono i ladri”, disse; ma la sua voce era incerta.
“No, no, dev'essere accaduta una disgrazia; lo sento”, gemette Maria, balzando in piedi e torcendosi le mani con disperazione.
Il pastore cercava di rassicurarla, ma ella non sentiva le parole di lui: e aveva un'angosciosa impressione, le pareva d'esser cieca o che la notte dovesse prolungarsi eterna. A chi rivolgersi per implorare soccorso? Le pietre, l'erba, le piante, non si sarebbero mosse; gli uomini non potevano nulla contro il fato mostruoso che doveva avvolgere Francesco.
“Francesco? Francesco?”
Egli non rispondeva: nessuno rispondeva.
“Se non mi avesse promesso di ritornare! Ma egli ha promesso; e poi, forse che una vacca può premergli più di me? Egli sa che sono qui sola, di notte...”
Il pastore sentiva che ella aveva ragione, ma la confortava:
“Non è poi tardi: guarda le stelle; saranno le dieci. Perché ti disperi così? Non sei poi una bambina”.
“Andiamo, cerchiamo ancora; voglio venire anch'io.”
Ritornarono verso l'ovile di Antoni: Maria barcollava e il pastore doveva sostenerla. Nella capanna trovarono un pastore anziano, il quale persuase Maria a riposarsi e a stare tranquilla.
“Vedrai”, disse, “fra poco Francesco sarà di ritorno. Perché hai paura? Certo, egli ha fatto male a lasciarti sola; ma chi sa, il puntiglio o l'idea di acciuffare i ladri gli ha fatto dimenticare il suo dovere. Per punirlo, sta qui: così quando egli ritorna nel vostro ovile e non ti ritrova proverà un po' d'inquietudine. Sdraiati qui, su questo sacco. Antoni andrà ancora in giro, io veglierò. Non aver paura; chi può far del male a Francesco Rosana?”
Maria sedette sul sacco; il suo viso sembrava di cera.
Chi poteva far del male a Francesco Rosana? Ella sola lo sapeva.
“Oggi”, disse il pastore mentre Antoni si allontanava ancora, “oggi ho sentito Francesco questionare col servo. E che, non vanno d'accordo?”
“No; ed è appunto di Turulia che io temo. Francesco diceva che questo brutto ceffo ha cattive relazioni, e che probabilmente è d'accordo coi ladri delle vacche. Ve lo dico in confidenza...”
“Sta tranquilla; non lo ripeterò; ma anche gli altri pastori hanno sentito Francesco e Turulia litigare.”
Maria tacque e chiuse gli occhi.
Il pastore la credette assopita e uscì fuori. Ma ella non dormiva; la disperazione cresceva in lei, la invadeva tutta, l'affogava, come un'acqua silenziosa che salisse, salisse implacabile.
"Francesco è morto, ed è Pietro che lo ha ucciso... Ed io devo tacere..."
Questo pensiero non l'abbandonò più; tuttavia ella sperava d'ingannarsi, ed aspettava, aspettava... A momenti le sembrava di udire il passo leggero di Francesco avvicinarsi; apriva gli occhi e guardava, ma al barlume giallognolo del fuoco scorgeva solo il profilo nero del pastore che vigilava seduto accanto all'apertura della capanna.
“Zio Andria, non si vede nessuno?”
“Nessuno ancora. Sta tranquilla e dormi; verranno fra poco.”
Ella richiuse gli occhi, mentre grosse lagrime ardenti le solcavano il viso e le bagnavano le labbra tremanti.
"Sta tranquilla e dormi", che ironia!
Sì, Francesco doveva esser morto; forse era soltanto ferito, forse chiedeva aiuto. Ed ella era là, immobile, coi denti stretti e le unghie ficcate nelle palme delle mani pulsanti... Perché non si muoveva? Perché non gridava?... Ah, le pareva che il rimorso la
paralizzasse tutta.
"Francesco è morto, e la colpa è mia...", pensava.
Riaprì gli occhi lagrimosi.
“Zio Andria, non si vede nessuno? Bisogna muoverci, andiamo: io muoio se sto qui... Voglio andare in paese, avvertire mio padre...”
“Ma va, sei pazza? Dove vuoi andare?... Ora verranno vedrai. Sta tranquilla. Verranno!”
Ah, se ciò fosse. Se tutto non fosse che un brutto sogno!
Ora tutto taceva: l'oriente s'imbiancava, il bosco rabbrividiva lievemente, in attesa della luna, le stelle parevano più grandi e più brillanti, e la notte seguiva il suo corso, insensibile al dolore delle creature smarrite nella terra silenziosa.
Maria piangeva e pensava:
"Che accadrà se Francesco è morto, come io temo? Io devo tacere, per il mio, per l'onore della sua memoria. Le mie labbra non devono aprirsi, e questo sarà il mio più terribile castigo. Ma che accadrà, mio Dio, che accadrà? Ah, avevo ben ragione di temere: ero troppo felice!".
E ricordava tutti i particolari del suo romanzo d'amore, tutti i baci che Pietro le aveva dato, la promessa del giovine servo: "io non ti farò mai del male".
"A me no, ma a lui, a Francesco... Ah, che giorno funesto fu mai quello in cui si decise di accogliere Pietro nella nostra casa... Però, e se io m'inganno? Forse ha ragione zio Andria: nessuna disgrazia è accaduta. All'alba Francesco tornerà; che dirà non trovandomi nel nostro ovile?..."
La stanchezza la vinceva: il sonno cadeva su lei come una coperta di velluto, morbida e tiepida.
"Bisogna che io vada", ella pensava; ma non poteva muoversi.
D'altronde, dove andare? La luna non era spuntata ancora; Antoni non tornava, il pastore anziano andava e veniva dalla capanna alla muriccia della tanca.
“Zio Andria, zio Andria, nessuno viene; che notte dolorosa”, mormorava Maria, quando la figura del pastore appariva sull'apertura della capanna. “Io voglio muovermi, cercare, andare a Nuoro...”
“Ma dormi, figlia mia! Se nessuno viene, buon segno. Vuol dire che sono tutti sulle tracce dei ladri.”
“Ritorniamo nel nostro ovile”, ella propose.
“Aspetta almeno che sorga la luna.”
Ella chinò ancora la testa e s'assopì.
Le parve di aver dormito appena un momento, ma quando si scosse vide la luna alta sul cielo, e balzò in piedi rabbrividendo.
“Zio Andria! Zio Andria...”
Nessuno rispose. L'avevano dunque lasciata sola, l'avevano abbandonata! Sentì voglia di gridare come una bambina smarrita, ma poi si scosse, uscì fuori della capanna, si guardò attorno e s'avviò.
La luna, al suo ultimo quarto, illuminava le tancas con un barlume giallognolo, quasi funereo.
"Se anche zio Andria s'è allontanato deve essere accaduta una disgrazia", ella pensò.
E d'un tratto sentì un coraggio supremo animarla: affrettò il passo, varcò la muriccia, si inoltrò nel bosco e seguì il piccolo sentiero sul quale la luna, attraverso i rami delle querce, gettava un ricamo giallognolo, un chiarore vago e triste.
Spinta dal suo dolore e dal coraggio della disperazione, Maria camminava sotto il bosco, nella notte morente, come una figura da leggenda; le cose più tragiche, il chiarore della luna calante, le ombre misteriose, la paura, il presentimento, il rimorso, la disgrazia e il delitto la circondavano; ma ella passava fra tutte queste cose con quella sua forza di volontà inconsapevole che formava il suo carattere e la guidava attraverso la vita come attraverso un bosco tenebroso.
Non piangeva più: voleva sapere, voleva convincersi: il suo maggior dolore era l'incertezza.
Arrivò davanti alla capanna e si fermò qualche tempo ad ascoltare.
La radura taceva; tacevano i prati d'un grigio verdastro sotto la luna; taceva il bosco e tutta la tanca: la luna saliva, saliva e l'oriente diventava chiaro, vitreo.
Maria si diresse verso l'altra estremità della tanca, a nord, dov'era il cancello. Le pareva di udire, a intervalli, una voce lontana; attraversò il letto del ruscello, dove correva un filo d'acqua giallo sotto lo smorto chiarore della luna, e si fermò ancora, ascoltando, con gli occhi fissi ad oriente come per invocare la luce.
La sfumatura bianca dell'orizzonte diventava sempre più lucida: la stella del mattino tremolava come una lagrima d'argento sopra i monti lontani. E la brezza finalmente scuoteva la melanconica serenità del paesaggio; l'erba e le foglie si svegliavano; un'allodola cantò in lontananza, sopra le rocce, e le sue note parvero unirsi al tremolio della stella del mattino.
Maria riprese il suo triste viaggio: si sentiva tutta umida di rugiada, tutta fredda di angoscia e di stanchezza, ma la volontà la sosteneva, la spingeva.
Di nuovo udì qualche voce lontana: i cani ricominciavano ad abbaiare, la tanca si svegliava.
Quando arrivò al cancello sentì le voci vibrare più distinte ma ancora lontane, e le parve che giungessero dal sentiero assiepato.
Allora si mise a correre, s'inoltrò nel sentiero ed arrivò allo svolto, sotto le rocce dalle quali un giorno aveva creduto scorgere la figura di Pietro Benu.
Tre uomini stavano fermi fra le pietre e l'erba: nel sentire i passi di lei si volsero, emisero esclamazioni di sorpresa e di dolore, poi si unirono tentando d'impedirle il passo. Ma ella vedeva...
Non gridò, non disse parola: respinse uno degli uomini che la teneva per le braccia, s'avanzò e cadde in ginocchio.
Francesco Rosana era là, steso sull'erba calpestata, col viso quasi del tutto nascosto da un cespuglio d'asfodelo. Si scorgevano solo le sue orecchie, la nuca, i capelli irti, una guancia bianchissima. Larghe chiazze di sangue nerastro macchiavano le sue vesti, le pietre e l'erba; anche la sua mano destra, con la palma rivolta in su, era coperta di sangue.
Accorgendosi ch'egli era morto i pastori non l'avevano mosso, in attesa delle Autorità che uno di loro era andato ad avvertire.
La luce argentina dell'alba penetrava attraverso le querce ed i rovi; sulla siepe già i fili dei ragni, sparsi di gocce di rugiada, brillavano simili a fili di perle; e l'allodola proseguiva il suo canto, e dall'alto delle rocce la luna pareva vigilasse il cadavere, come un cero funebre.



XIX.


L'indomani, verso le dieci del mattino, una ventina di donne, sedute in circolo nella cucina dei Noina, piangevano e bisbigliavano, aspettando che i sacerdoti venissero a portar via la salma di Francesco. La sventura ed il lutto erano piombati come fulmini sulla casa dei felici; e le cose tutte, in quell'ambiente già così tranquillo e ordinato, pareva ne restassero sbalordite. Il disordine regnava in tutte le camere; levate le tende, velati gli specchi; chiusi gli scurini delle finestre, i pavimenti polverosi. Nella camera degli sposi, intorno alla cassa mortuaria foderata di velluto nero e di trine d'oro, ardevano otto lunghi ceri: nella camera attigua, dove s'era dato il pranzo nuziale, zio Nicola, col viso terreo e gli occhi cerchiati, riceveva le condoglianze dei parenti e degli amici. La penombra giallastra della camera chiusa rendeva più tristi i volti bruni, tragicamente pensierosi, di quegli uomini fieri che non mentivano il loro dolore.
Tutti avevano amato Francesco; la sua morte pareva a tutti un sogno spaventoso. Qualcuno piangeva silenziosamente, cercando di nascondere le lagrime, che non stanno bene negli occhi di un uomo coraggioso; nessuno osava parlare forte, e i gridi e i singulti delle donne riunite in cucina giungevano affievoliti, come da un luogo remoto. E fuori il sole di maggio splendeva, avvolgendo con la sua gioia la casa tragica, dove tutti soffrivano come dentro un luogo di pena.
Nella cucina si svolgeva la ria, l'antica scena funebre, resa più caratteristica dal chiaroscuro dell'ambiente. Il focolare era spento, la finestra chiusa; solo dalla porta entrava un filo di luce, e un sottile raggio di sole si ostinava a penetrare per una fessura del finestrino, descrivendo una striscia di pulviscolo nel vuoto e andando a finire in un occhio d'oro sulla parete opposta.
In fondo alla cucina, nell'angolo più buio, stava la giovine vedova vestita di nero, con un costume preso a prestito da una vicina: era pallidissima, aveva gli occhi gonfi; sembrava invecchiata di vent'anni, stordita da un male più fisico che morale. Zia Luisa e le più strette parenti del morto la circondavano; le altre donne sedevano per terra, con le gambe incrociate, tutte avvolte nelle loro pesanti tuniche e il viso seminascosto dalle bende nere e gialle di lutto.
Ogni tanto la porta s'apriva. La viva luce del mattino inondava la cucina, illuminava le donne piangenti, alcune delle quali guardavano fuori con occhi foschi, quasi meravigliate che il sole splendesse ancora e il cielo fosse ancora puro; entrava qualche altra parente che aveva cura di richiudere subito la porta e tutto ritornava più triste e grigio di prima.
La nuova arrivata attraversava in punta di piedi la cucina, e chinandosi sulla vedova le diceva quasi in tono di comando:
“Ma! Abbi pazienza! Son cose del mondo, e Dio solo è padrone della nostra vita. Abbi pazienza, Maria!”.
“Dio sì, non gli uomini! Ah, me lo hanno ucciso come un agnello”, rispondeva Maria; e piangeva, e ricominciava a raccontare alla nuova venuta, come già l'aveva dovuta raccontare alle altre donne, la storia della sua sventura.
Oramai tutte sapevano questa storia, e la vedova la raccontava sempre con le stesse parole, come una spaventosa lezione; tuttavia una specie d'accompagnamento di singulti e un triste mormorio si levava ogni volta che Maria parlava. Nell'angolo dietro la porta due donne commentavano a bassa voce il racconto della giovine vedova.
“Com'è stata coraggiosa! Io sarei morta mille volte se mi fossi trovata in simili frangenti.”
“Sì, ma guardala bene: sembra una vecchia di cento anni; ella ha resistito come la quercia alla bufera, ma ora ne risente...”
“E quei pastori che l'hanno lasciata sola, là, nella capanna di Antonio Pera! Era cosa da farsi?”
“Ma credevano che dormisse: zio Andria quando non vide tornare nessuno, si allontanò un momento, esplorando anche lui i dintorni. Dice che gli parve di sentire un grido; quando ritornò verso la capanna Maria era già uscita...”
“Lo so, lo so”, disse l'altra; “ma egli non doveva lasciarla sola un momento. Così ella non avrebbe veduto il cadavere...”
“Oh, l'avrebbe veduto egualmente: non è donna da lasciarsi ingannare, Maria! E che coraggio, dopo! Volle aspettare le Autorità, e disse loro tutto ciò che sapeva.”
“Questa mattina ho sentito dire che Turulia è stato arrestato mentre fuggiva verso le foreste di Orgosolo, voleva unirsi con altri banditi.”
“No, non è vero; non è stato ancora raggiunto, purtroppo...”
“Ah, assassino, immondezza...”
“Ma non v'è alcun dubbio?”, insinuò l'altra, mentre Maria raccontava i sospetti che Francesco nutriva contro il servo.
“Eh, no, sorella cara! Ci sono i pastori che li hanno sentiti questionare. Vedendosi scoperto, il servo ha ucciso Francesco. Le ferite sono del suo coltello, che fu rinvenuto in fondo al sentiero...”
Zesús, Zesús (28)”, sospirò l'altra, e si asciugò gli occhi con la
manica della camicia.
In quel momento s'udì il canto funebre dei sacerdoti che venivano per portar via la salma; una campana squillava, lenta e lugubre, in lontananza.
Nella cucina le donne si misero a piangere con frenesia: due parenti del morto cominciarono sos attitidos (29). Cantavano una per volta, e ad ogni versetto le donne rispondevano con un coro di gemiti, singulti e grida.
Maria diventò livida: le sue labbra ed i suoi occhi si chiusero; e quando i sacerdoti si fermarono salmodiando nella via, e la bara fu portata giù, ella si piegò e cadde come morta sulle ginocchia di zia Luisa.
I gemiti e le grida raddoppiarono; molte donne si avvicinarono alla giovine vedova svenuta, altre uscirono nel cortile. Solo zia Luisa conservò il suo contegno solenne; sputò lievemente sul viso cadaverico della figlia e le slacciò il corsetto.
La vedova rinvenne subito, si sollevò, rigida, ma accorgendosi che il suo sposo veniva portato via per sempre, cominciò a mandare acute grida.
Nel cortile Sabina, col viso bianchissimo circondato da una benda nera, distribuiva i ceri alle persone che volevano seguire il funerale. Altre donne l'aiutavano in questa pietosa faccenda. Ben presto i sacerdoti, sui cui paludamenti neri le trine d'oro scintillavano al sole, s'allontanarono salmodiando; la bara, portata da confratelli vestiti di bianco, sparve all'angolo della via; il portone fu chiuso. Sulla casa tragica risuonante di grida, sul cortile, sulla scala fiorita, il sole giocondo brillava sempre più caldo, e le rondini si posavano sul muro o s'inseguivano stridendo. Sabina rientrò in cucina e s'accoccolò dietro l'uscio. Non piangeva, non si guardava attorno: un pensiero fisso e tetro le offuscava gli occhi già così dolci.
Nonostante la perizia dei medici, l'affermazione dei testimoni, le conclusioni della giustizia illuminata, ella sola scrutava, col suo mite sguardo, il mistero della tragedia, e sentiva la triste verità.
Colta da un altro svenimento, Maria fu portata nella sua camera e stesa sul suo letto. In cucina allora le donne ricomposero la ria e proseguirono i canti funebri, abbandonandosi, ora che la vedova non era più lì, a tutta la foga della loro inspirazione poetica.
Le prefiche erano due: la balia e una zia del morto; la prima era un piccola vecchia vestita di nero, con due grandi occhi azzurri in un visino bianco e molle; l'altra vestiva con lusso, e la cintura d'argento sul bustino di velluto verde si sprofondava nella sua vita grassa.
Questa prefica aveva una bella voce sonora, e godeva fama pei suoi attitidos; finché Maria aveva assistito alla ria le due donne s'erano limitate a ricordare le virtù del morto, le sue nozze recenti, l'infanzia lontana. Ora invece descrivevano la scena orribile della sua morte, la desolazione della vedova; invocavano vendetta e imprecavano contro l'assassino.
"Nostra Signora del Monte", cantava la balia che sembrava molto commossa e si asciugava ogni tanto gli occhi con la manica della camicia, "tu che sei misericordiosa coi buoni, sii implacabile coi malvagi. Punisci in questa vita e nell'altra colui che ha assassinato l'uomo più mite della terra, il mio figlio di latte, il garofano mio."
"Francesco Rosana", diceva la zia del morto, "oh, tu che eri il più bel sogno di tutte le fanciulle nuoresi, tu che eri il fiore dei giovani, quando baldo e fiero sulla tua cavalla bianca attraversavi le tue tancas e facevi mille progetti per l'avvenire, pensavi che tu saresti morto in modo così orribile? Ma chi di ferro ferisce di ferro perisce. Maledetto colui che ti ha colpito; maledetto."
"Maledetto: quante gocce di latte ho dato al morto, tante ferite ti trapassino il cuore, assassino! Ah, figlio mio di latte, tu dunque non rivedrai più la tua sposa; tu non cullerai i tuoi figli, come io, che non ero tua madre, ti ho cullato..."
"Oh, sorte tremenda; i nipoti ricorderanno la morte di Francesco Rosana, imprecheranno contro l'assassino. Non vedeste? Ieri il sole era pallido e le nubi coprivano i monti, perché anche il cielo piangeva la morte di questo giovine amato e generoso.
"Eri giusto e fedele, eri l'orgoglio della tua stirpe, l'appoggio e la stella dei tuoi parenti. Ora la tua sposa piangerà, vestita di nero come la Madonna dei Sette dolori, ed i tuoi parenti cammineranno a testa china per tutto il resto della loro vita."
"Ma perché sei tu andato nel tuo ovile, conducendovi la tua sposa che doveva poi ritornare sola alla sua casa desolata?"
"Invano ora le tue terre ed i tuoi armenti e i tuoi pascoli ti attenderanno; la messe ingiallirà, ma il padrone non benedirà più col suo sguardo l'abbondanza della raccolta."
"Eri onesto e giusto, bianco come l'agnello appena nato; perciò ti hanno sgozzato, ed il tuo sangue colorì i rovi dello Spirito Santo."
"Persino i banditi s'inchinavano davanti a te; eri onorato da tutti, o gioiello d'oro, bellissima viola, che lasciasti tutti i cuori spezzati...
"Noi ci strappiamo i capelli, chiedendo vendetta al cielo. Sia maledetto il latte che nutrì il tuo assassino; spuntino rovi sul suo cammino; che la giustizia lo afferri e ne faccia strazio."
"Con sette colpi di pugnale bucarono il tuo cuore come si buca un pezzo di sughero; settanta anni ed altri sette duri la pena di colui che ti ha ucciso a tradimento."
"Dio è buono; egli chiamò a sé il padre tuo e la madre tua prima di questo giorno nefasto; ma chi conforterà la tua sposa, o nipote mio bello, o fiore mio, o nipote mio, che non rivedrò mai più?"

Verso mezzogiorno la gente cominciò ad andarsene; anche Sabina che aveva ottenuto mezza giornata di permesso dalla sua padrona, dovette lasciare la cugina e gli zii. Rimasero presso la vedova alcuni parenti del morto.
Il fuoco non fu quel giorno acceso in casa Noina e nessuno pensò a preparare il pranzo: ma verso mezzogiorno tre donne portarono tre grandi cestini, entro i quali i parenti e gli amici dei Noina mandavano il desinare bell'e pronto. Zia Luisa ringraziò, solenne e maestosa nel suo dolore; tutti finsero di non toccar cibo, ma i cestini furono egualmente vuotati.
Maria aveva la febbre; al coraggio ed al sangue freddo, che l'avevano sostenuta nei giorni prima, seguiva in lei un accasciamento quasi morboso. Le pareva d'essere ancora nella tanca, accoccolata entro la capanna dei pastori amici; aspettava Francesco, ma sapeva ch'egli non sarebbe ritornato mai più.
Visioni terribili la tormentavano; vedeva Francesco assalito dall'assassino; il coltello si affondava nelle carni dell'infelice, il suo sangue sprizzava lontano...
Un buio misterioso e denso come un velo nero avvolgeva la figura dell'assassino. Chi era? Il servo o Pietro Benu? Questo mistero era il maggior tormento della vedova.
Poi ella si scuoteva, si guardava attorno, cercava di rientrare nella realtà. Ora le pareva di aver amato Francesco di vero amore; ricordava i suoi occhi, i suoi baci, le sue carezze.
Come egli era stato buono!
Sì, avevano ragione le prefiche; egli era stato buono come un agnello, e come un agnello era stato sgozzato.
Da chi? Da chi?
La figura misteriosa dell'omicida vagava nel buio; a momenti però i ricordi della vedova si schiarivano; ella rivedeva la figura di Pietro Benu, in una chiara sera di maggio, nello sfondo del sentiero che attraversava le tancas... Egli aveva in mano un coltello e procedeva cauto come un bandito...
Nei suoi sogni tormentosi ella faceva ipotesi spaventevoli: Pietro aveva ucciso il servo, poi, col pugnale di questo, aveva compiuto la sua vendetta... Egli aveva dei complici; forse i banditi, che non mancavano in quei dintorni; forse gli stessi pastori che si fingevano amici...
Un delirio di sospetti, di dubbi, di pensieri atroci, di rimorso e di terrore, la tormentò per giorni e giorni. Ma le sue labbra rimasero chiuse; ella non accusò nessuno, e non imprecò contro il servo scomparso. La fama della sua bontà, del suo coraggio, del suo dolore rassegnato, la cinse di un'aureola poetica.
Per tre giorni una lunga processione di gente sfilò davanti alla giovine vedova. Tutti le ripetevano:
“Abbi pazienza, fatti coraggio”, ed ella finì col convincersi che bisognava aver pazienza e farsi coraggio.
Poi tutto ritornò calmo intorno a lei: il focolare venne riacceso, zio Nicola, serio e triste come un vecchio fauno annoiato, riprese le sue gite, le sue visite alle bettole, i suoi brontolii, trascinando la sua gamba malata e annusando la sua tabacchiera di corno.
Le donne ripresero le loro faccende: comprarono bende e fazzoletti neri per tutte le parenti povere che volevano portare il lutto per Francesco; distribuirono copiose elemosine in suffragio dell'anima dell'assassinato. E attesero la luna nuova per tingere di nero, con polveri e scorza di ontano, le vesti di Maria. Durante l'interlunio la tintura non riesce bene!
Le finestre ed il portone rimasero lungo tempo chiusi.



XX.


Una sera, otto o nove giorni dopo i funerali di Francesco, mentre zia Luisa e Maria stavano in cucina aspettando che zio Nicola rientrasse, qualcuno picchiò al portone.
Fu zia Luisa che uscì nel cortile per aprire.
Poco dopo rientrò seguita da Pietro Benu.
“Ave Maria”, egli salutò con voce ferma, avanzandosi.
Un vivo rossore colorì il viso pallido di Maria: Pietro prese uno sgabello, sedette e la guardò fisso.
“Perdonatemi”, disse con voce sommessa, ma calma. “Non venni prima perché ero troppo lontano. Viaggiavo; ero assente da oltre quindici giorni. Solo oggi, al ritorno, seppi della disgrazia; ne rimasi stordito. Ma come, come accadde?”
Maria sollevò gli occhi, li fissò negli occhi di Pietro. Una freccia non avrebbe ferito come feriva lo sguardo di lei, cupo e profondo; ma il giovine non si turbò.
Stavano seduti entrambi nel medesimo posto ove s'erano scambiati tanti baci, chiusi dalla medesima cerchia ove s'era svolto il loro romanzo di passione; qualche cosa del passato gravava nell'aria: la fiamma del focolare, che strideva come cosa viva, e tutti gli oggetti intorno, fedeli testimoni, ricordavano e ripetevano ai due antichi innamorati ciò che era accaduto...
"È mai possibile ch'egli mentisca così?", si domandava Maria. "Qui, qui, dov'egli ha giurato di non farmi mai male?..."
“Sì”, ella ricominciò a raccontare, ripetendo la triste lezione, della quale oramai non cambiava più una parola, “sì, me lo hanno sgozzato come un agnello! La sera del ventidue maggio egli uscì per recarsi all'ovile vicino.”
Mentre raccontava, non cessava di fissare lo sguardo su Pietro.
Anche lui la guardava, ma i suoi occhi erano freddi e indifferenti, e Maria sentiva in cuore un grande sollievo.
Pensava:
"Si, egli non mi ama più; mi ha da lungo tempo dimenticata. Il mio dubbio è stato un delirio".
Pietro era mutato anche fisicamente; sembrava più alto, più vecchio; scarno, coi capelli irti e gli occhi freddi e indifferenti: il suo viso abbronzato era quasi duro, aveva una espressione che Maria non conosceva ancora.
Ma a misura che ella raccontava lentamente, con voce bassa ancora un po' rauca per il lungo pianto, e rievocava con particolari suggestivi la terribile scena della scoperta del cadavere di Francesco, il viso di Pietro pareva rammollirsi, la bocca esprimeva una pietà quasi infantile, un desiderio di pianto, e gli occhi vitrei s'accendevano come al riflesso del fuoco.
Maria lo guardava e sempre più si convinceva dell'innocenza di lui.
Egli era sempre il fanciullo d'una volta, apparentemente fiero, buono e pietoso in fondo. La sua fisionomia, fosse quella d'un uomo indifferente o quella d'un amico pietoso, non era la fisionomia d'un colpevole. Ella aveva sognato.
Dopo quella sera egli ritornò spesso dai suoi ex-padroni.
Un giorno anzi acquistò da Maria, che aveva ereditato solo una parte del patrimonio di Francesco, alcuni tori e un paio di buoi. Per combinare l'affare egli venne in compagnia di un giovine istranzu, Zuanne Antine, che presentò come suo socio.
A proposito di vacche l'Antine ricordò il servo Turulia. In quel tempo tutti credevano che il presunto assassino di Francesco si fosse rifugiato con altri banditi, sulle montagne della Corsica.
“Una volta ho acquistato una vacca, da questo Turulia. Me la vendette a buon prezzo, tanto ch'io dubitai fosse rubata; ma egli mi presentò due testimoni”, disse l'Antine.
“Chi erano?”, domandò Maria.
Egli nominò due giovani nuoresi; e realmente più tardi il fatto da lui narrato risultò vero, e tutti i proprietari ai quali erano stati rubati tori e vacche ne incolparono il servo di Francesco Rosana e i suoi amici latitanti.
Maria era convinta oramai che il vero assassino di Francesco era Turulia; tuttavia qualche volta si sentiva assalita da scrupoli, da sospetti strani. Come fare per liberarsene? Pietro continuava le sue visite, offriva i suoi servigi a zio Nicola ed alla giovine vedova. Anche con zia Luisa andavano d'accordo.
Un giorno ella gli domandò:
“Ebbene, come vanno i tuoi affari? Dicono che tu sei bene avviato”.
“E che volete?”, egli rispose, scrollando la testa col suo solito gesto sdegnoso. “Il bisogno, dicono, fa correre il vecchio. Tanto più dovrebbe far correre il giovine! Ho avuto la fortuna d'incontrare un uomo che mi vuol bene, e che ha voluto in me non un servo, ma un socio. Cammino per conto suo ed un pochino anche per conto mio. Vado qua e là, per tutti i paesi del circondario, tanto per guadagnare la vita...”
“Come stanno le tue zie?”
“Sempre peggio: sono tanto vecchie; c'è zia Tonia che va consumandosi come una candela”, egli rispose, fingendo una grande tristezza, e scuotendo la testa come per togliersi una mosca dal naso. “Ma... siamo nati per morire.”
“Sì, siamo nati per morire”, convenne zia Luisa.
Tuttavia riprese a parlare d'affari:
“Senti, Pietro; tu che ora giri, sapresti dirmi dove si potrebbe collocare qualche migliaio di lire, con garanzie valide e discreti interessi?”.
“Lo dirò al mio socio: potremmo prenderli noi, i vostri denari”, disse Pietro, quasi con degnazione. “Garanzie? Tutte quelle che vorrete. Oramai abbiamo del credito.”
“E quando ti ammoglierai?”, chiese poi zia Luisa.
“Oh, c'è tempo! Quando sarò ricco!”, rispose scherzando il giovine; ed i suoi occhi corsero a Maria.
Ella ascoltava e taceva, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani. Ogni parola di Pietro la colpiva.
"Chi può sapere?", pensava. "Sì, egli può diventar ricco: non è forse diventato ricco anche mio padre? Ah, forse era meglio che io l'avessi atteso: Francesco non sarebbe forse morto, io non avrei sofferto tanto... Ora tutto è finito..."
In quel momento la voce fresca e quasi infantile di Sabina risuonò nel cortile.
“Zia Luisa? Ci siete?”
“Siamo qui, vieni.”
Appena vide Pietro, la ragazza si turbò alquanto; ma la sua voce risuonò ancora più alta e allegra, d'un'allegria forzata:
“Sei qui, Pietro Benu? Come stai?... Zia Luisa, venite, datemi un litro d'olio. Presto, la padrona m'aspetta, e poi devo andare a casa mia, dove m'attende il fidanzato”.
“Tu scherzi?”, chiese zia Luisa, alzandosi pesantemente.
“In fede mia, no: vedrete fra pochi giorni se scherzo o no... Andiamo, fate presto”, ripeté Sabina, battendo lievemente sulla porta la bottiglia. “Addio, ragazzi...”
Pietro e Maria rimasero soli, e istintivamente si guardarono; ma subito Maria chinò la testa.
“Pietro”, disse con voce tremante, “devo chiederti un piacere. Da tanto tempo desideravo parlarti a quattr'occhi. Senti. Sono convinta che la morte del beato sia stata più che altro una disgrazia: l'impeto brutale di Turulia mi ha reso vedova. Ma vedi, la notte non dormo, colta da sogni spaventosi: sarà un delirio, ma non posso liberarmene. Un pensiero terribile mi tormenta. Senti, Pietro: per l'anima dei tuoi
morti, giurami qui, su questa santa croce, che tu non hai consigliato, né fatto, né voluto l'uccisione di Francesco...”
Sollevò la mano, tenendo sulla palma un rosario nero; ma non osò guardare Pietro.
Ma poiché egli taceva, dopo un momento di ansia ella sollevò gli occhi e lo vide così pallido che istintivamente ritirò la mano.
Pietro fu pronto ad afferrargliela e gliela strinse quasi ferocemente; ella sentì i grani del rosario premerle la palma, conficcandosi fra la sua e la mano del giovine.
“Maria”, egli disse a denti stretti, con voce anelante, “non ti credevo così cattiva... No, non a questo punto... No...”
“Appunto perché sono cattiva, ho paura...”
Egli si tolse rapidamente la berretta, fissò gli occhi ardenti negli occhi di lei.
“Ti giuro... ti giuro su quanto c'è di più sacro... Io non so nulla. Dimmi che mi credi: dimmi...”
“Sì, ti credo”, ella rispose convinta.
E sospirò: le parve d'essersi liberata da un incubo.
Pietro le lasciò libera la mano, si rimise la berretta e proseguì:
“Perché questo pensiero? Se avessi voluto fargli del male avrei potuto farglielo prima. Dopo a che mi serviva? Tanto tu non sarai mai più mia: io per te sarò sempre un servo...”.
“Taci, taci...”, ella supplicò. “Non parliamone più.”
Egli s'alzò e la guardò ancora, così ardentemente che ella dovette di nuovo abbassare gli occhi.
“Bisogna che me ne vada; altrimenti tua madre potrebbe accorgersi del mio turbamento... Vedi come tremo... come un bamboccio... Tremo, perché il dolore che tu ora mi hai dato supera tutti gli altri... Ah, no, non credevo... Ed io, io che venivo qui, solo per vederti... perché questo è ancora l'ultimo conforto che mi resta...”
“Taci, taci”, ella ripeté. “Non tormentarmi. Ti credo, ho detto; ora sono tranquilla. Sì, vattene.”
“Sì, me ne vado. Se vuoi non ritorno più... Dimmelo, dimmelo...”
Ella non rispose, immobile nella posizione di prima. Egli raggiunse Sabina che attraversava la viuzza, ma la salutò appena e passò oltre. La fanciulla lo seguì con lo sguardo e scosse la testa.

E l'indomani mattina Sabina si recò ad un appuntamento che il suo pretendente le aveva chiesto. Diceva a se stessa:
"È tempo di pensare ai fatti miei; Giuseppe è un buon giovine, e qualunque ragazza della mia condizione si chiamerebbe fortunata di sposarlo. Che altre speranze ho io?".
Il dubbio che Pietro fosse complice nell'assassinio di Francesco la tormentava ancora; in tutti i casi Pietro non pensava più a lei; perché dunque ostinarsi in questa vana passione? Ma per quanto ella fosse mite e ragionevole, un segreto desiderio di vendetta la spingeva. Il suo pretendente era fratello di Antonio Pera, il Pastore il cui ovile era vicino all'ovile Rosana. Qualche parola sfuggita a Giuseppe a proposito di Pietro Benu, aveva
destato la curiosità di Sabina, e aumentato i suoi dubbi.
"Maria e Pietro non si sposeranno mai; no, non si sposeranno...", ella pensava con triste soddisfazione.
Era appena l'alba, un'alba nitida e fredda di dicembre. Sabina, con l'anfora sul capo, si diresse alla fontana di Gurgurigài, ma giunta davanti alla chiesetta della Solitudine si fermò. Era il luogo dell'appuntamento. Giuseppe non era ancora giunto, ed ella, alquanto vergognosa, pensò:
"Che dirà? Che ho avuto fretta? Ebbene, pensi quel che vuole, tanto sarà mio marito. Eccolo!".
Giuseppe Pera s'avanzava sul suo cavallino rosso. Appena vide Sabina balzò di sella, legò il cavallo e corse sorridendo verso la fanciulla.
"Non è più tanto giovine, ma ha l'aspetto d'uomo bonaccione: ha bei denti e begli occhi", pensò Sabina; e anche lei sorrise.
“Eccomi”, disse gentile, ma non tenera; “che vuoi da me?”
“Che voglio? Lo sai! Sai che devo partire. Ho finito di seminare il grano, e vado a lavorare in una foresta; starò lontano due mesi. Sabina, non mi dici niente?...”
Egli la guardava, ed i suoi occhi esprimevano un'adorazione profonda.
Sabina abbassò gli occhi: era davvero graziosa, col viso arrossato dall'aria fredda, con l'anfora sulla testa e la tunica avvolta intorno alla persona snella.
“Che vuoi che ti dica? Non ho già promesso di... volerti bene?”
“Non basta, Sabina. Bisogna che tu prometta di essere mia moglie.”
“Ebbene, te lo prometto...”
“Sabina, senti. Ciò non mi basta ancora. Bisogna che tu me lo prometta davanti all'altare: ecco perché ti ho dato appuntamento qui: mi son fatto dare la chiave della chiesa. Eccola...”
Sabina si scolorì lievemente in viso; mille pensieri le attraversarono in un attimo la mente. La cerimonia proposta da Giuseppe è, per il popolino nuorese, valida quasi quanto il matrimonio: orribili sventure castigano lo spergiuro.
“Lasciami pensare un momento”, ella disse, passandosi una mano sulla fronte. “Va ed apri la chiesa, intanto...”
“Ah, tu dunque acconsenti?...”
“Va, ti dico.”
Egli andò verso la porta della chiesetta: Sabina depose l'anfora per terra e guardò se si vedeva gente nella strada. Nessuno; solo il cavallino rosso, immobile e paziente, aspettava il suo padrone. L'aurora disegnava già i suoi archi rosei dietro la chiesetta solitaria.
La fanciulla raggiunse il fidanzato e con lui entrò nella povera chiesetta grigia. Giuseppe si levò la berretta, se la gettò sull'omero, si fece il segno della croce.
“Giuseppe”, disse Sabina, fermandosi in mezzo alla chiesa, “aspetta... Ho da dirti una cosa. Io adesso giurerò; sarò d'ora in poi come tua moglie; ma tu devi dirmi una cosa...”
“Chiedi pure.”
“Tu devi dirmi, perché tu lo sai, chi ha ammazzato Francesco Rosana.”
“Io?”, egli esclamò, balzando indietro come spaventato. “Tu vaneggi...”
“No, non vaneggio. Vedi, se tu non avessi saputo qualche cosa, avresti subito pronunciato il nome di Turulia...”
“Appunto, è lui...”
“No, non è lui”, disse Sabina, scuotendo la testa. “E tu e tuo fratello e forse altri ancora lo sapete. Ed io pure lo so...”
“Taci, taci, non parlare così.”
“No, lo dico solo a te. Anche a me, dopo tutto, non importa nulla e non voglio, come non vuoi tu, come non vuole tuo fratello, come non vogliono gli altri, aver delle seccature e crearmi degli odi. S'arrangi la giustizia; se essa non trovò gli assassini, tanto meglio per questi... Nel mondo c'è posto per tutti. Però...”
“Però?...”
“Però... dimmi... Ora non insisto; ma se ti domanderò il nome dell'assassino, quando saremo marito e moglie, me lo dirai?...”
“Te lo dirò”, egli promise.
Allora Sabina insisté:
“E anche prima, se occorre, non è vero? Per esempio, se Maria Noina e Pietro Benu dovessero sposarsi...”.
Il contadino spalancò gli occhi e strinse rapidamente le labbra, quasi per impedire alla sua bocca di parlare; ma Sabina non aveva bisogno d'altro.
“Ora taci pure; andiamo.”
S'avvicinarono all'altare nudo e polveroso; Giuseppe accese due ceri, s'inginocchiò a fianco di Sabina e le strinse la mano.
“Io giuro che sarò tuo marito.”
“Io giuro che sarò tua moglie.”
Null'altro; ma quando Sabina ritirò la sua mano, che la stretta del giovine aveva riscaldato, si sentì triste fino alle lagrime. Ella non si pentiva del giuramento, ma un velo funebre copriva l'anima sua, un tempo così serena e buona.



XXI.


Passarono cinque anni.
Una dopo l'altra erano morte le due zie decrepite di Pietro e l'ex- servo abitava adesso la loro casetta da lui ingrandita e restaurata.
“Come mutano le cose di questo mondo!”, dicevano le vicine invidiose.
“E le cose passate si dimenticano!”
Infatti Pietro non era più un servo, ma un negoziante che faceva fortuna; e tutti lo rispettavano, anche perché egli era un giovine serio, non vanaglorioso, che non molestava nessuno. Contava adesso trentatré anni: in tutto il vigore della sua giovinezza matura, sano, agile, meno scarno e bruno d'un tempo, egli era bellissimo, e le domeniche, allorché tutto vestito a nuovo e con l'orologio e il fazzoletto bianco in tasca si recava alla messa di mezzogiorno, qualche ragazza benestante si degnava di guardarlo teneramente.
Ma egli aveva una sola speranza in cuore, una sola ambizione. Gli pareva che altro scopo non gli restasse nella vita; e per questo scopo egli da anni ed anni combatteva, e quest'ambizione lo aveva reso astuto, paziente, fine.
Non frequentava le bettole, non andava in compagnia di persone sospette. Invano la moglie del bettoliere toscano correva sulla porta ogni volta che egli passava di là per recarsi dai Noina: egli non la guardava neppure. Passati quei tempi! In casa dei suoi ex-padroni veniva accolto con deferenza, come un amico: solo zia Luisa, pur mostrandosi affabile quanto il suo carattere solenne glielo permetteva, non mancava qualche volta di ricordargli la sua origine e la sua antica condizione.
Un giorno, poche settimane dopo la morte delle zie, mentre egli se ne stava davanti alla sua casa, badando all'opera dei muratori che fabbricavano un muro, venne a cercarlo l'Antine.
Il piccolo uomo intraprendente s'era vestito da borghese; aveva i capelli grigi, ma il suo viso sbarbato conservava l'espressione giovanile che lo rendeva tanto simpatico. Già da oltre un anno egli aveva sposato una ragazza povera, ma di buona famiglia, e s'era stabilito a Nuoro, dove fra le altre cose faceva lo strozzino.
Da qualche tempo Pietro e l'Antine avevano sciolto la loro società, e ciascuno negoziava per proprio conto: ma non cessavano di vedersi e rendersi dei servigi.
L'Antine si fermò con Pietro davanti al muro in costruzione: era una bella giornata di febbraio, faceva piacere starsene al sole.
“Mia moglie ha partorito: una bambina. No, non credevo che mia moglie mi facesse questo torto!”, esclamò l'Antine, un po' serio, un po' scherzoso.
“Bisogna vedere se il torto è suo”, rispose Pietro maliziosamente.
“Sarai il padrino, come hai promesso?”
“E la madrina chi è?”
“Sceglila tu stesso...”
“Ah, quella che io sceglierei non accetterebbe!”
“Prova: ad ogni modo, pregala tu, Pietro; forse a te non darà un rifiuto. Se ella vorrà, faremo il battesimo di sera. Sarà una buona occasione perché la gente cominci a dire: "quei due si sposano!".”
“Non amo che la gente dica queste cose: ci sono tanti invidiosi!”, disse Pietro a bassa voce. “Vuoi un bicchiere di vino?”
“Beviamo pure! Ma perché fai costruire questo muro?”
“Voglio fare una tettoia.”
Entrarono in una stanzetta sporca e disordinata, e Pietro riuscì a mala pena a trovare due bicchieri e una bottiglia.
“Ecco”, disse, curvandosi e sturando una damigiana, “ora la casa è tutta in disordine: anche la servetta è andata via; i parenti non hanno voluto lasciarla con un uomo solo... Sebbene...”
“Non vantarti tanto: non sei uno stinco di santo, poi! Bene, versa pure dalla damigiana, diavolo, non far complimenti.”
Pietro versò il vino, un po' del quale si sparse per terra. L'Antine esclamò:
“Allegria! Dunque, domanderai a Maria Noina se vuol essere la madrina. Buona fortuna”.
Pietro scosse la testa e sollevò il bicchiere: il suo viso era diventato triste.
“Non scherzare, diavolo; sai che non mi piace... Piuttosto, dimmi: puoi prestarmi altri duecento scudi?...”
“Io volevo chiederli a te!”
“Lasciamo gli scherzi”, ripeté Pietro, “ho davvero bisogno di denaro. Tu sai che il mio capitale è ben meschino, mentre la gente crede ch'io stia per diventar ricco...”
“Tu puoi diventarlo: perché non ti decidi a sposarla?... Ora parlo sul serio, Pietro!”
“Io? Ma io l'avrei sposata un milione di volte. Però ho paura. Non che ella mi rifiuti! Oh, no; se io volessi! Ella è ora come la fogliolina ancora piegata che aspetta un po' di sole per aprirsi”, disse Pietro, riunendo e poi spiegando le dita. “Se io volessi! Basterebbe guardarla, e tante, tante volte io tremo vicino a lei, ma non oso... È presto ancora.”
“Bene, aspetta allora a quando la foglia sarà secca! A quando sarete vecchi entrambi!... Vedi, tu mi fai rabbia, Pietro Benu”, esclamò l'altro, battendo il bicchiere sul tavolo. “Vedrai, anche questa volta ti accadrà... come la prima volta. Tu mi hai raccontato quanto sei stato stupido...”
“Non ricordarmelo...”, disse Pietro, morsicandosi il pugno. “Taci.”
“Ah, sì, Pietro Benu, tu sei nato per aver fortuna e... invece! Basta; tu sei un mezzo uomo, un uomo di ferula! Hai sempre avuto paura. Anche allora avevi paura; invece tutto andò bene. Bei tempi erano quelli! Mi davi ascolto, ti facevi coraggio, superavi te stesso: l'odio e la passione ti spingevano. Poi tutto finì. Paura! Paura! Ecco, tu hai avuto sempre paura di tutto e di tutti, anche di me, d'un tuo fratello! E te lo dissi tante volte: l'uomo pauroso non sarà mai fortunato.”
Pietro guardava fuori e scuoteva la testa.
“Fortunato!”, disse con voce triste e sommessa. “Non c'è stato uomo più sfortunato di me. Io ero nato onesto e son diventato ladro. Io non ero nato per uccidere ed ho ucciso... Eppoi, vedi, come dicevo, son forse diventato ricco? Per poche migliaia di lire puzzolenti! E quanti pericoli corsi; e quanta povera gente rovinata!”
“E che! Se non volevi rubare qualche bue e qualche vacca, volevi rubare dei milioni? Eh, i grandi furti non si possono fare che in Continente.”
“Basta”, impose Pietro, che guardava sempre fuori della porta, pauroso che i muratori potessero avvicinarsi e sentire qualche parola. “Non parliamone più. Ora faremo questo battesimo: che nome daremo alla bambina?”
“Maria. Insisto nella preghiera di rivolgerti a Maria Noina...”
“In tutti i casi toccherebbe a te; per me, ti ripeto, non amo si facciano chiacchiere. Maria una volta ricevette una lettera anonima, nella quale si diceva: "Sarebbe molto bene che Pietro non frequentasse la tua casa". Dopo questo fatto sono stato molto guardingo. Basta, usciamo; andiamo a veder la bambina.”
Uscirono. Strada facendo l'Antine fece vedere a Pietro una lettera di uno speculatore, il quale lo incaricava di reclutare scorzini e carriolanti per una lavorazione, cioè per il taglio di una foresta in Algeria. "Vorrei anche delle donne per la pulitura della scorza; potrebbero venire le mogli degli scorzini e dei carriolanti. C'è alloggio sufficiente."
“Può darsi”, disse Pietro, “che qualche povera diavola voglia seguire il marito. Possiamo cercare.”
La moglie dell'Antine espresse anche lei il desiderio di veder la sua bambina tenuta a battesimo da Maria.
Pietro, allora, per non destare sospetti nella giovine puerpera, promise di "esplorare il terreno".
“Dopo farò la richiesta ufficiale”, disse scherzando l'Antine.
Uscirono di nuovo assieme e si avviarono verso la casa di zio Nicola.
“Va là, fa tu da paraninfo ora; dopo lo farò io per te”, disse il piccolo negoziante. “Vedrai che finirai col darmi quest'incarico. Deciditi, via. Sai che cosa mi ha detto l'altro giorno il Toscano? che Franzisc'Antoni Mureddu frequenta la casa di zio Nicola... Attento, Pietro: ricordati la prima volta...”
“Maria ha rifiutato tanti partiti”, disse Pietro, che si turbava ogni volta che vedeva la casa dei Noina. “E ne rifiuterà ancora.”
“Sta attento, ragazzo. Può anche darsi che ella si stanchi di aspettare. Eccoci arrivati. Ti aspetterò qui, nella bettola del Toscano. Va.”
Pietro entrò dai Noina, senza neppure accorgersi che la moglie del bettoliere correva sulla porta per guardarlo.

Maria, naturalmente, rifiutò di far da madrina alla bimba dell'Antine. Benché fossero passati tanti anni, il lutto più stretto opprimeva ancora la giovine vedova. Ella usciva di rado, passava nelle viuzze più solitarie, sempre stretta nel costume nero di vedova. Anche coi parenti si mostrava seria e spesso triste: le sembrava di aver fatto quasi un voto monastico, d'essersi sottratta alla vita, mentre la giovinezza e il desiderio di amore le vibravano nel sangue.
Qualche volta si domandava se voleva nuovamente bene a Pietro. Non sapeva, o meglio non osava confessarlo; ma la presenza di lui le dava una gioia ardente. Nessun altro uomo sapeva guardarla come la guardava lui; sotto il suo sguardo ella si sentiva quasi mancare. La sua volontà, sempre così ferma e vigile, si piegava solo davanti a lui.
La mattina del battesimo, una domenica gaia di sole e di scampanii argentini, l'ex-servo entrò improvvisamente nella cucina dei Noina. Zio Nicola e zia Luisa erano andati alla messa cantata nella chiesetta del Rosario, dove si celebrava la festa di San Giuseppe; Maria preparava il desinare, sola, scalza e modestamente vestita.
“Buon giorno, Maria”, disse Pietro entrando e avvicinandosele.
Ella si volse, un po' turbata. Egli era vestito con lusso; con la mano bianca come la mano d'un borghese, si accomodava la berretta sul capo.
Maria s'affrettò a mettere i piedi dentro le babbucce nere; poi sorrise e disse: “Mio padre è andato alla Messa del Rosario. Volevi parlare con lui?”.
“No, voglio parlare con te.”
“Siediti dunque, avete fatto già il battesimo?”, ella disse, prendendo una sedia e spolverandola, sebbene l'avesse già spolverata fin dalla mattina presto. “Siediti qui; ecco, non lì: puoi sporcarti.”
Mise la sedia vicino alla porta e tornò verso i fornelli; non sapeva come nascondere il suo turbamento.
Nella cucina pulitissima, il cui pavimento era qua e là spruzzato d'acqua, regnava una dolcezza, un tepore di focolare acceso; una pace, un silenzio di casetta tranquilla. Pietro si fece coraggio; ricordava solo i bei momenti vissuti in quell'ambiente famigliare. Disse:
“Maria, tu indovini perché son venuto... Vieni qui vicino, volgiti, ascoltami. Quanto tempo è passato! Ma volgiti, vieni qui”.
Ella si avvicinò.
“Dammi la mano, Maria! No? Perché abbassi gli occhi? Perché non vuoi darmi la mano? No, non aver timore; tu sai che ho giurato di non farti mai del male. Vieni.”
Ella scosse la testa, senza sollevare gli occhi.
“Spiegati bene, Pietro; che vuoi da me?”
Allora Pietro afferrò con ambe le mani la spalliera della seggiola, quasi per vincere la tentazione di stringere le mani di Maria; poi si chinò alquanto e disse:
“Cosa voglio da te? Tu lo sai. Voglio che tu diventi mia! È tempo! Credo bene che tu non baderai al passato, che non ricorderai la mia bassa condizione d'un tempo, come io non ricordo il tuo tradimento... Ricominciamo una nuova vita. Io ti voglio bene, vivo per te, per te sola sono diventato ciò che sono. Ed anche tu mi vuoi bene. Quante volte ce lo siamo detto con gli occhi! Parla, guardami, almeno...”.
Ella lo guardò: fremettero entrambi, ma egli seppe vincersi ancora.
“Vedi”, disse, stringendo nervosamente la spalliera della seggiola, “tu mi vuoi bene; i tuoi occhi non mentiscono. Perché tormentarci oltre? Io m'ero proposto di non parlarti d'amore finché non potevo domandarti: Maria, ricordi ciò che ti promettevo? Ho tenuto o no la promessa?”
“L'hai tenuta!”
Ella non sapeva più staccare gli occhi dagli occhi affascinanti di lui.
“E dunque, mantieni anche tu la tua! Non rispondi? Perché? Hai paura? Sì, tu hai paura di tua madre, che non vorrà per genero un suo antico servo; hai paura della gente, hai paura di te stessa. O io mi inganno o i tuoi occhi mentiscono. Non mi vuoi più bene? Non ricordi più niente? Queste pareti, questo focolare, questo fuoco non ti dicono niente? Ricordati, Maria: allora promettevi che mi avresti atteso anche dieci anni; invece ne sono passati appena sette; e dunque mi respingi? Non mi vuoi? Non hai pietà di me? Maria... Maria... Tu piangi?”
Le si avvicinò, le prese le mani, la scosse.
“Parla! Parla! Perché piangi? Hai qualche grave motivo per disperarti così?”
Ella scuoteva la testa: egli le mise una mano sulla fronte e la costrinse a sollevare il viso ed a guardarlo. Anche lui era pallido, con le labbra gonfie e tremanti di desiderio e di paura.
“Hai qualche motivo? Hai qualche motivo?”
“No”, ella disse, chiudendo gli occhi come una fanciulla. “Ma io oramai sono come una morta; perché vuoi risuscitarmi? Tu sei giovine... tu puoi...”
“Io voglio te sola”, egli rispose con un anelito quasi selvaggio.
E la baciò, e si baciarono; e sulle loro labbra tremò quanto v'è di più tragico e dolce al mondo: il rimorso e la voluttà, l'ambizione e l'amore.

Nel pomeriggio di quella domenica, Pietro e l'Antine si trovarono assieme.
“Voglio cominciare a cercare i lavoranti per lo speculatore d'Algeri; oggi è festa e i contadini sono in paese”, disse l'Antine.
Pietro l'accompagnò. Si fermarono davanti alla chiesetta del Rosario, dove un gran numero di contadini e di artigiani assisteva alla scalata d'un albero di cuccagna, tentata invano da parecchi monelli ed anche da qualche uomo serio.
In cima all'albero, un altissimo fusto di pioppo, liscio e per di più levigato col sapone, oscillava un cerchio, dal quale pendevano fazzoletti rossi e gialli, formaggelli freschi, una borsa, un paio di scarpe. I fazzoletti svolazzavano al venticello fresco del puro tramonto; parevano allegri di trovarsi lassù e di attirare gli sguardi di tanta gente.
I monelli s'arrampicavano, su su, uno dopo l'altro, ma arrivati a un certo punto scivolavano e non ritentavano più la scalata.
La gente urlava e rideva.
Quando Pietro e l'Antine giunsero nella piazzetta, un uomo piuttosto anziano, coi piedi fasciati con stracci, s'arrampicava sull'albero.
In alto i fazzoletti non sventolavano più; solo le scarpe, la borsa ed i formaggelli, illuminati ancora dal sole, oscillavano lievemente in attesa della mano vincitrice.
Nonostante la passione e i gravi e dolci pensieri che lo occupavano, Pietro s'interessò alla bizzarra scena, mentre l'Antine parlamentava qua e là coi paesani di sua conoscenza.
Fra gli altri c'era Giuseppe, il marito di Sabina, vestito a festa, con la barba già un po' grigia, ma accuratamente pettinata: i contadini e gli artigiani suoi amici lo circondavano e lo incitavano a festeggiare il suo Santo conducendolo a bere.
L'uomo dai piedi fasciati si arrampicava sempre più su; era giunto quasi a metà del pinnóne (30). Ma ad un tratto un grido risuonò tra la folla:
“Ha due pezzi di falce attaccati ai piedi: ed è perciò che non scivola”.
Tutti si misero a gridare ed a ridere; i monelli si strinsero intorno all'albero, lo scossero, protestando e cercando di far cadere il campione fraudolento.
“Oh, tu, diavolo! abbasso! Non bisogna far così. Giù, giù!...”
Ma l'altro continuava a salire; la sua persona magra ma non svelta si ripiegava e s'allungava sul fusto con mosse lente, ma sicure. In alto il bizzarro trofeo tremolava tutto, il cerchio s'aggirava intorno alla cima dell'albero e il sole traeva ancora una scintilla dalla molla di metallo della borsa.
Fra le risate e gli urli della folla l'Antine faceva i suoi bravi contratti coi carriolanti e i contadini, la maggior parte ubriachi.
S'avvicinò anche a Giuseppe.
“E tu, di', vuoi andare alla lavorazione d'Africa?”
“È molto lontana dalla costa?”
“Non tanto. Vuoi condurre anche tua moglie? C'è l'alloggio.”
“Mia moglie non ha bisogno di raschiare scorza”, rispose il contadino.
“Tuttavia, vedremo... Glielo dirò.”
“Eccola là: domandaglielo subito, perché mi occorre sapere il numero delle persone che vogliono andare alla lavorazione.”
Sabina, infatti, con una bambina in braccio, guardava su pinnóne e chiacchierava con altre donnicciuole.
Senza preoccuparsi delle proteste e dei fischi, l'uomo magro saliva, saliva sull'albero; ancora uno slancio ed eccolo arrivato. Per un momento la folla ansiosa tacque; il sole scomparve; il cerchio si fermò.
“Bravo!”, gridò l'Antine, agitando il braccio verso il vincitore, che era arrivato a toccare il cerchio e ne aveva strappato la borsa.
Per reazione, allora, tutti applaudirono: l'uomo scivolò giù, tirandosi dietro il cerchio, e arrivato a terra, nonostante le proteste, gli spintoni, le grida dei ragazzacci che volevano esaminargli i piedi, strappò i fazzoletti, i formaggelli, le scarpe, fece di tutto un fagotto e se ne andò.
L'Antine, seguito da Giuseppe Pera, s'avvicinò a Pietro, e lo guardò sorridendo.
“Hai veduto?”, gli disse con intenzione. “Così si fa!”
Pietro scosse la testa col suo gesto sdegnoso. "Così si fa!" Lo sapeva. Le sue labbra, ancora ardenti dei baci di Maria, sorridevano; i suoi occhi scintillavano di gioia.
Seguì l'amico e con lui e col contadino s'avvicinò a Sabina.
La giovine donna aveva perduto la sua freschezza d'un tempo; i capelli biondastri le sfuggivano ancora, qua e là, sulla fronte e sulle orecchie, incorniciando un visetto magro e giallognolo; il naso pareva trasparente; gli occhi soltanto, limpidi e chiari, conservavano lo sguardo infantile d'un tempo.
Ella non era infelice, ma era povera. Mossiú Giuanne (31) non batteva veramente alla sua porta, ma ella doveva lavorare, procreare, allattare, e le donne che fanno tutte queste cose si sciupano presto. Dopo il suo matrimonio, le sue relazioni con la famiglia Noina erano quasi cessate; ella non aveva tempo di andare a trovare i parenti ricchi, e questi non si ricordavano di lei.
Sabina aveva dimenticato il passato. Quando verso sera attendeva il marito, seduta sul limitare della porta, e vedeva in fondo alla straducola avanzarsi l'onesto contadino con la bisaccia sull'omero, seguito dai suoi buoi stanchi, ella faceva battere le manine alla sua bambina, dicendo: "ecco babbo, ecco babbo!" e le pareva di essere felice.
Eppure, nel veder Pietro avvicinarsele, un lievissimo rossore le colorì il viso. Egli era così bello, così ben vestito, con gli occhi ardenti di felicità! Quanti anni, quanti secoli erano trascorsi dopo quel giorno d'autunno, in cui egli le aveva promesso di "dirle qualche cosa"! Come il mondo cammina e le sorti umane mutano! Chi va su con le falci attaccate ai piedi, arriva dove vuole; chi cerca di arrampicarsi a piedi scalzi, scivola malamente! Basta; speriamo vi sia almeno giustizia nell'altro mondo: in questo non ce n'è davvero.
“Dunque”, disse l'Antine, mentre Sabina baciava la sua bambina per nascondere il lieve turbamento che la trionfante presenza di Pietro le destava; “vuoi o no andare con tuo marito? Sei troppo giovine per restare sola tre mesi a casa.”
“Ad ogni modo non cercherei te per farmi compagnia!”, rispose pronta Sabina.
Poi s'informò se per il tempo della raccolta la lavorazione sarebbe finita.
“Tu hai seminato soltanto frumento”, disse a Giuseppe. “Potremmo quindi restar laggiù fino a luglio.”
“Va bene, fino a luglio”, accettò l'Antine. E fece un segno sul taccuino.

I lavoranti partirono pochi giorni dopo; con Sabina, altre povere donne seguirono i loro uomini.



XXII.


Il secondo matrimonio di Maria si combinava nel massimo segreto. Nessuno ne sapeva nulla; neppure i più stretti parenti, neppure le vicine abituate a veder Pietro andar tutti i giorni in casa dei suoi ex-padroni.
Da lungo tempo Maria aveva licenziato la serva, e neppure il bettoliere toscano era riuscito, fino agli ultimi giorni, a sapere le novità di casa Noina.
Grandi meraviglie, quindi, e molti pettegolezzi, quando, verso i primi di maggio, gli sfaccendati lessero le pubblicazioni di matrimonio attaccate alla porta del Municipio.
“È per questo!”, osservò il bettoliere, che già ricominciava a scacciar le mosche col pennacchio di carta. “Un giorno ho sentito la zia Luisa e lo zio Nicola litigare aspramente. Sentivo pronunziare il nome di Pietro Benu, e la zia Luisa diceva al marito: "È naturale che ti sia simpatico. Corvo con corvo non si cavan gli occhi!". Voleva dire che si somigliano. Si vede che la zia Luisa non vuole Pietro per genero.”
Il bettoliere indovinava. Quando Maria aveva annunziato il suo fermo proposito di sposar Pietro Benu, zia Luisa aveva arrossito. Poche volte in vita sua ella aveva dimostrato così evidentemente la sua collera e la sua vergogna. Dopo, madre e figlia, marito e moglie, s'erano bisticciati e ingiuriati. Zio Nicola per poco non si disse onorato della domanda di Pietro; zia Luisa dimenticò il suo "decoro" fino a piangere con vere lagrime.
“Pietro Benu? Il mio servo, sposare mia figlia, la vedova di Francesco Rosana? Pietro Benu, un uomo della peggiore linnía (32), un cane randagio che ha finalmente trovato un osso da rosicchiare? Ma ti hanno ammaliata, Maria? Che direbbe Francesco Rosana se risorgesse? Figliolino mio, fiore mio, ecco che ti piango come se ti avessero ammazzato una seconda volta!”
“Il diavolo ti pianga!”, gridò zio Nicola, battendo il bastone per terra. “Non lo hai pianto la prima volta e lo piangi la seconda!”
“Lasciamo in pace i morti”, disse Maria. “È inutile far scandali. Ho deciso. Son tanti anni che ci penso, e se non fossi stata sicura del fatto mio non avrei aperto bocca. Dunque è inutile gridare: voi conoscete la mia volontà. Ci sposeremo subito; andremo via, se vorrete: fra poco la casa di Pietro sarà ultimata.”
“La gente... che dirà la gente?...”, singhiozzava la vecchia. “Non per me... ma per la gente, per il decoro della famiglia!”
“Calmati, madama reale”, le disse zio Nicola che spesso la chiamava ironicamente così. “Maria non deve sposarsi con la gente, deve sposarsi con Pietro Benu, che è un giovine intraprendente e fortunato. Ecco, prendi una presa di tabacco: uno starnuto ti farà bene.”
Zia Luisa afferrò la tabacchiera e la scaraventò nel cortile.
“Tacete tutti e due, svergognati! Vedremo come andrà a finire!”
Ma poi si rassegnò e pregò che le usassero almeno due favori. Primo: che il matrimonio si facesse nel massimo segreto. Secondo: che Pietro non l'annoiasse con visite frequenti.
D'altronde, fin dalla sua prima visita Pietro parlò chiaro:
“Zia Luisa, so che la mia presenza vi dispiace. Non vi do torto; vi rispetto e venero. Desidero che il matrimonio avvenga subito. Che dobbiamo aspettare? Da tanti anni abbiamo atteso ciò che più premeva: il consenso di Maria. Dunque? La mia casa non è ultimata, ma ci si può abitare. Fra giorni io parto per Cagliari; là acquisterò i mobili per la casa e i regali per la sposa: al ritorno faremo le pubblicazioni”.
“Benissimo: questi sono uomini che sanno parlare!”, gridò zio Nicola.
Zia Luisa tacque.
Maria, che sedeva lontana dal fidanzato e quasi neppure lo guardava, pensò:
"Vuol fare degli acquisti a Cagliari! Lo imbroglieranno certamente".
Ma non osò parlare.
Pietro fece altre due visite alla fidanzata, sempre di notte; ogni volta si parlò di cose indifferenti.
Una sera Maria nominò per caso il suo defunto marito, e notò una lieve espressione di disgusto sulle labbra di Pietro. Appena egli fu uscito, zio Nicola le disse:
“Bada, non si deve mai ricordare il primo sposo in presenza del secondo; non farlo più.”
“Ma se prima ne parlavo sempre!”
“Allora Pietro non era tuo fidanzato. Credi tu forse che un uomo libero sia come un fidanzato? No, vedi; l'uomo è come un'arma, innocua se è scarica, pericolosa s'è carica... Il fidanzato è un'arma carica: non bisogna urtarla...”
Alla quarta visita "l'arma carica" insisté per fissare il giorno delle nozze.
Ardeva e spasimava d'incertezza e di passione: ogni volta che entrava guardava Maria con occhi avidi, scrutando se sul viso della giovine vedova appariva qualche segno d'inquietudine.
Ella lo guardava appena alla sfuggita, ma bastava quello sguardo carico di desiderio perché egli dimenticasse ogni altra cosa e vibrasse tutto di piacere selvaggio. Dopo il primo colloquio non s'erano trovati più soli: zia Luisa accompagnava Pietro fino al portone quando egli se ne andava, e pareva vigilasse e si prendesse il gusto crudele di separare i due pericolosi fidanzati.
Una domenica mattina Pietro entrò all'improvviso, con la speranza di trovar Maria sola; ma zia Luisa era già stata alla prima messa del Rosario.
“Io parto oggi per Cagliari”, annunziò Pietro. “Mi fermerò stasera a Macomer per sbrigare un affare; fra quattro giorni sarò di ritorno. Fa preparare le tue carte per le pubblicazioni, Maria.”
Invece di quattro stette assente otto giorni. Maria si sentiva triste, inquieta; pensava a lui come mai, neppure durante i primi mesi del suo amore, aveva pensato. Qualche volta il suo antico orgoglio risorgeva: l'idea di dover sposare un ex-servo, dopo essere stata la moglie di un ricco principale, la umiliava profondamente: ma poi ella si riabbandonava tutta alla sua passione, al desiderio ardente di un amore sfrenato. I lunghi anni di vedovanza avevano come rinnovellato la sua verginità e smussato il suo carattere primitivo. Le pareva di aver provato tutte le gioie e tutti i dolori, tranne l'amore. Era stata invidiata, adulata; aveva pagato a caro prezzo il suo tradimento; ora i suoi trent'anni ardevano di desiderio.
Ella smaniava di godere, voleva riacquistare tutto il tempo perduto, la giovinezza sprecata inutilmente: ma in tutto ciò v'era qualche cosa d'impulsivo. Il caldo primaverile, il benessere, la quiete della casa, la solitudine, acuivano in lei questo improvviso trionfo dei sensi, questo risveglio della giovinezza stanca di dormire.
Ma quando il desiderio non l'accecava, ella provava ancora un vago malessere; un rimasuglio di rancore le fermentava in fondo all'anima: non poteva perdonare a Pietro la sua origine volgare, e gli rimproverava ogni più piccola mancanza. L'antica padrona risorgeva in lei, prepotente e beffarda.
Così si sdegnò perché al quarto giorno egli non ritornò da Cagliari.
"Eccolo che comincia a mentire! C'era bisogno di promettere, se non poteva mantenere? Che fa ora laggiù? Si diverte, ecco tutto; chi sa...", pensava.
Il sesto giorno cominciò ad inquietarsi.
"E Pietro che non torna e non scrive!... Deve essergli accaduta qualche disgrazia. Stanotte ho sognato una lettera listata di nero, che non potevo leggere; mi fece una triste impressione; mi svegliai tremando."
Quella sera ricevette infatti una lettera di Pietro. Prima di leggerla la palpò a lungo, con una specie di voluttà; poi per leggerla si ritirò nella sua camera. Egli le domandava perdono del ritardo e le esprimeva il suo amore con frasi rozze ma ardenti. "Ti abbraccio e ti bacio mille volte, come quella domenica; ti stringo forte, muoio dal desiderio di starti vicino e di baciarti ardentemente."
Bastò questo perché ella ricadesse nel suo delirio amoroso.
“Vedi, madama reale?”, gridò zio Nicola, battendo lievemente la punta del bastone sulla lettera che Maria teneva stretta fra le dita. “Egli sa anche scrivere!”
“Però, dove lo ha imparato!...”, esclamò zia Luisa. Ed a Maria, che le domandava consiglio se doveva o no rispondere a Pietro, la vecchia disse con dignità: “Davvero; sei ammaliata! Perché vuoi rispondere? Perché alla posta vedano la tua lettera? Un po' di decoro almeno, figlia mia; serba almeno un po' di decoro”.
Per serbare un po' di decoro Maria non rispose.
Pietro ritornò due giorni dopo: portò alla sposa magnifici doni, ed a zia Luisa un corsetto di ricchissimo broccato; e questa gentilezza intenerì alquanto la futura suocera.

“Ebbene”, ella disse a Pietro, il giorno dopo le pubblicazioni, “come faremo queste nozze? Inviterai i tuoi parenti?”
Egli scosse la testa sdegnosamente.
“Io non ho parenti. Se volete invitare qualche persona, fatelo pure; per me desidero si facciano le cose modestamente, in intimità.”
“Va benissimo”, rispose zia Luisa; e si volse per nascondere le lagrime che le inumidivano gli occhi al ricordo delle prime nozze di Maria.
Ora Pietro andava e veniva liberamente e rimaneva lunghe ore presso la fidanzata, mentre si facevano gli ultimi preparativi per le nozze. Sebbene Maria serbasse tutte le sue vesti da sposa, aveva acquistato un nuovo costume, molto modesto, quale si conviene ad una vedova che riprende marito.
Siccome la casa di Pietro non era ultimata e le nozze erano fissate per la seconda metà di maggio, zio Nicola ed anche zia Luisa avevano proposto agli sposi di passare la luna di miele in famiglia. Dopo tutto zia Luisa non era cattiva, e prima del denaro e del decoro della famiglia ella amava Maria di sviscerato affetto. Le vicine poi, con le loro adulazioni, e Pietro, con le sue continue gentilezze, l'avevano alquanto rabbonita.
“Fate vedere il corsetto che Pietro vi ha regalato”, le dicevano le vicine. “Gesù, Maria, che bella cosa! È un broccato antico; un regalo degno di voi e di Pietro Benu. E a quando le nozze?”
“Ah, non sappiamo”, rispondeva zia Luisa, ripiegando il broccato e avvolgendolo nella carta velina.
Fino alla vigilia del matrimonio tutti ne ignorarono la data precisa: taceva anche zio Nicola, che rispettava gli antichi usi e trovava giusto che una vedova, in omaggio alla memoria del primo marito, non festeggiasse le seconde nozze. Pietro era il più impenetrabile. Non parlava con nessuno del suo matrimonio, sollecitava i muratori perché terminassero la casa, e soffriva all'idea di passare la luna di miele presso i Noina e di occupare il posto del morto.
"Nel suo letto...", pensava rabbrividendo.
L'antivigilia delle nozze Maria lo guardò sorridendo e gli chiese:
“Ti sei preparato?”.
“A che?”
“A confessarti!”
Egli non rispose subito, e come un'ombra gli offuscò gli occhi.
“Sono molti anni che io non compio il precetto pasquale”, disse con tristezza. “Ho tanto sofferto che non credo più in Dio.”
“Tu sai che non bisogna sposarsi in peccato mortale”, disse Maria con voce insinuante. “Peccati ne avrai commessi in questi anni! È necessario che tu ti confessi. Non dare quest'ultimo dispiacere a mia madre, Pietro...”
Egli si chinò, poi sollevò e scosse la testa.
“Ebbene, sia. Ma anche tu mi devi fare un piacere: non ho osato domandartelo prima. Per il tempo che abiteremo qui, nella casa di tuo padre, lascia che faccia portare nella camera dove dormiremo il letto che ho acquistato a Cagliari.”
A sua volta Maria si fece pensierosa e triste. Era la sposa che doveva fornire il letto nuziale, e Pietro quasi la offendeva proponendole un letto suo; ma d'altra parte egli aveva ragione. Ecco, la perspicacia di zio Nicola non aveva preveduto il caso, e Maria, stordita dalla passione e dall'incalzarsi degli avvenimenti, non aveva indovinato il giusto desiderio di Pietro di non dormire dove Francesco Rosana aveva dormito.
Allora vennero ad un accordo: Pietro si sarebbe confessato e Maria avrebbe messo un altro letto nella sua camera!

Un giorno di maggio, alle tre del mattino, nella chiesetta del Rosario, vennero celebrate le nozze.
Maria non aveva chiuso occhio durante la notte. A un'ora era già in piedi, pallida e stanca: le pareva di sognare; ricordava il chiasso, la magnificenza, il lusso e l'allegria delle sue prime nozze; ora tutto procedeva in silenzio, in segreto. Non era stata neppure ripulita la casa, non invitato un parente, un amico, all'infuori dei due testimoni indispensabili.
Eppure questa volta il cuore della sposa palpitava di gioia, le sue mani tremavano nel preparare il letto nuziale.
Scese in cucina, spazzò, accese il fuoco e preparò il caffè: un lieve rossore le colorì il viso stanco.
Verso le due risalì nella sua camera e cominciò a svestirsi, ed a misura che si levava e riponeva nella cassa gli indumenti da vedova provava una strana emozione, un impeto di gioia e di tristezza. Sì, ella si spogliava e si liberava d'una veste dolorosa; un triste periodo della sua vita cadeva e spariva con quelle vesti nere che le avevano stretto il corpo e l'anima tragicamente. Le pareva, strappandosi da quell'involucro funereo, di metter le ali come la farfalla uscente dal bozzolo; ma quando sopra il corittu d'orbace ripose il giubboncello di panno, e ripiegò la pala e chiuse la cassa lievemente, quasi paurosa di svegliare qualcuno che dormisse nella penombra della camera, lagrime di vero dolore le solcarono il viso.
S'inginocchiò, mise i gomiti sul coperchio della cassa e pregò.
Una visione tragica le apparve ancora una volta, con evidenza spaventosa: un uomo abbandonato sull'erba, nella pace rorida del mattino primaverile, con una mano insanguinata che pareva domandasse pietà... E un grido d'allodola, puro e tranquillo come un raggio di luna, scendeva dalle rocce, tremolava sulle siepi fiorite...
Un brivido la scosse; sì, un'allodola cantava davvero, di là dalla casetta tranquilla: il cielo cominciava a schiarirsi: un passo d'uomo risuonò nel cortile...
Ella balzò in piedi e cominciò a indossare il costume da sposa.

Per un po' la comitiva, composta dei due sposi, di una parente di Pietro, dei testimoni e di zio Nicola, procedé in silenzio, per le viuzze solitarie rischiarate dai primi barlumi dell'alba. Pareva che tutti avessero paura di svegliare la gente e di esser veduti.
Ma ad un tratto Maria, che camminava appoggiandosi alla parete di Pietro, si pose una mano sulla bocca e soffocò un piccolo scoppio di riso.
“Che hai?”, domandò lo sposo.
“Ecco, rido perché sembriamo ladri”, ella rispose senza voltarsi.
Da quel momento tutti cominciarono a ridere e chiacchierare, e così giunsero davanti alla chiesetta silenziosa.
La cerimonia fu lunga. Il sacerdote, assistito da un vecchio paesano che sembrava un apostolo, calvo come era e con una lunga barba giallastra, celebrò la messa per gli sposi. Le sue parole lente e dolci risuonavano nel silenzio melanconico della chiesetta profumata di rose, dove la luce dell'alba si fondeva col chiarore dei ceri.
Inginocchiati sui gradini nudi dell'altare, gli sposi stavano muti e raccolti; solo di tanto in tanto Pietro sollevava la testa, come scuotendosi da un sogno, guardava Maria e poi ricadeva nel suo raccoglimento quasi triste. Quell'ora solenne, che era stata il sogno e lo spasimo di tutta la sua giovinezza, non lo commoveva troppo; gli pareva d'esserci arrivato così, naturalmente, come qualsiasi sposo che ha scelto senza ostacoli una donna della sua condizione: ma se la gioia profonda della vittoria non gli agitava il cuore, una dolcezza profonda e un senso di pace lo rendevano felice.
Ecco, finalmente era giunto, come il viandante che dopo aver attraversato una foresta piena di agguati e di pericoli, arriva stanco ad un luogo ospitale e sicuro. Via ogni paura, ogni ricordo spaventoso; il fuoco brilla nel focolare, il vino aromatico scintilla nel bicchiere capace: è tempo di riposarsi, di bere e inebbriarsi.
Solo, di tanto in tanto, la voce cadenzata e dolce del sacerdote e la voce profonda del vecchio apostolo lo risvegliavano dal suo sogno: memorie confuse gli passavano allora in mente, vaghi terrori attraversavano la sua felicità un po' melanconica; ma bastava ch'egli sollevasse la testa, come scacciando sdegnosamente lontano da sé ogni timore, e guardasse il viso innamorato della sposa, perché la gioia della realtà lo riavvolgesse tutto. Maria pregava: anch'ella ricordava; rivedeva al suo fianco la triste figura dell'ucciso, ma non si turbava per questo. Non l'aveva pianto abbastanza? Anche per lei era tempo di risorgere e di godere. Vedeva Pietro senza voltarsi a guardarlo, lo sentiva vicino a lei, giovine, forte, ardente.
Dio aveva voluto la loro unione: sia lodato Iddio! Tutto accade per suo volere. Per riconoscenza verso questo Dio compiacente e buono, la sposa cercava di assistere alla cerimonia con animo tranquillo; via i ricordi, i pensieri molesti, le inquietudini! Resti solo l'amore, l'amore avido e ardente.
Anche al ritorno dalla chiesa il corteo passò inosservato: gli sposi precedevano, silenziosi, commossi, a testa china; soffiava un leggero vento di levante, che li avvolgeva col suo alito caldo e voluttuoso.
Erano belli e degni di stare assieme: una coppia perfetta. Gli accompagnatori, la parente e zio Nicola li seguivano guardandoli con ammirazione. Anche il prete diceva:
“Dio li benedica; sembran due fiori dello stesso cespuglio”.
Zia Luisa aspettava dietro il portone: non pianse né baciò gli sposi, come l'altra volta, ma gettò su di loro una manata di grano e augurò, senza scomporsi troppo:
“Buona fortuna! Buona fortuna!”.
Anche le due donne, che erano venute per aiutarla a servire il caffè e i dolci, gettarono manate di grano sugli sposi; poi corsero a prendere i vassoi e salirono nella camera di zia Luisa.
Il sacerdote, appena entrato, s'affrettò a benedire il letto, scambiandolo per quello degli sposi. Zio Nicola provò un tale impeto d'ilarità, che dovette piegarsi ed appoggiarsi al bastone: rideva fragorosamente.
“Chi sa che faccia un altro figlio, ora, mia moglie! Ah, ah, un altro, ora!”
Tutti risero; Maria attirò il sacerdote nella sua camera:
“Scusi, scusi, pride Pascale; venga di qui!”.



XXIII.


Otto giorni trascorsero. Mai luna di miele fu più ardente e completa di quella di Maria e di Pietro.
Zio Nicola e zia Luisa se ne andarono quasi tutti i giorni in campagna, dalla mattina alla sera, per lasciare in libertà i due giovani sposi.
Maggio morente, con tutte le sue dolcezze ed i suoi ardori, completava l'idillio: i due sposi si abbandonavano senza freno alla loro passione selvaggia, e si amavano come dovevano amarsi le coppie primitive, nelle foreste giovani del mondo appena abitato.
Una volta Maria ebbe quasi paura di Pietro, perché egli la guardava con uno sguardo feroce, con gli occhi verdognoli, iridati come quelli della tigre: ma quella paura del maschio, del predatore violento, la illanguidiva, accresceva in lei il piacere della dedizione. Le pareva d'essere portava via da un vento, da un turbine di voluttà; e diventava anche lei selvaggia, perdeva facilmente la leggera scorza di civiltà che l'avvolgeva in tempi ordinari; ritornava ad esser la ninfa ignuda che aspettava il fauno tra l'erba a cui era ignota la falce.
Egli arrivava: un velo cadeva intorno a loro, spariva il mondo, la casa, il passato e l'avvenire. Qualche volta Pietro si mostrava inquieto, melanconico, specialmente se, rientrando, non trovava subito Maria pronta a sorridergli ed a guardarlo con passione. La cercava, la chiamava, le domandava se avesse veduto qualcuno durante la sua assenza. Ella cominciava a credere ch'egli fosse geloso. Ma per lo più egli si mostrava tenero, dolce, quasi rispettoso; pareva non avesse dimenticato la sua antica condizione di servo. Ed a lei piaceva anche così: le sembrava di rivivere in tempi lontani, quando Pietro non osava dimostrarle tutta la sua passione.
Ma dopo una settimana di ubriacatura violenta ella cominciò a sentirsi stanca: la nebbia ardente che la circondava cominciò a diradarsi.

Un giorno ella se ne stava seduta presso la porta di cucina, all'ombra della casa, e trapuntava una camicia di Pietro. Era sola. Zio Nicola e zia Luisa erano andati alla vigna; Pietro sollecitava gli ultimi lavori della sua casetta.
Nel cortile pulito e innaffiato regnava la solita pace: si sentiva un gran calore primaverile, un odor di garofani e di basilico, un incessante garrire di rondini innamorate. Maria cuciva e pensava.
Sentiva un lieve peso alla testa, ma i suoi pensieri erano meno torbidi e il suo respiro meno ansante del solito; ella ricominciava a curarsi dei suoi affari, rivedeva le cose intorno, ripensava alle chiacchiere delle sue vicine.
Era come convalescente, ancora un po' languida e spossata, ma già libera della febbre che l'aveva resa per tanti giorni incosciente.
"Sì", pensava, "mia madre è già pentita del suo proposito di mandarmi via, ma oramai Pietro è deciso. Sì, bisogna cambiar casa, almeno per un po' di tempo. Dopo sono certa che ritorneremo qui. Pietro non rassomiglia al beato: se stiamo qui ancora un po', egli finirà col questionare con mia madre... Anche ieri sera, come egli si è offeso perché mama disse, veramente con poca delicatezza: 'Se avrete un bambino lo chiameremo Francesco!'. Sì, egli è ancora geloso del morto. Ah, cosa succede in cucina?"
S'alzò e andò a vedere. Era il gatto che aveva fatto cadere un coperchio: ella rimise tutto a posto, rincorse il gatto che attraversò di corsa il cortile, poi sedette nuovamente e guardò fin dove arrivava l'ombra della casa, per indovinare l'ora.
"Sono le dieci: Pietro rientrerà forse a mezzogiorno."
Le pareva di vederlo: egli spingeva il portone, entrava e se non la vedeva subito la chiamava. Ella gli andava incontro: si guardavano smarriti, come due amanti al primo momento d'un convegno, e si baciavano perdutamente.
Per qualche minuto, al solo ricordo dello sposo, Maria ricadde in quella specie di ossessione amorosa che da tanti giorni la turbava; un nodo le strinse la gola, il suo respiro si fece ansante; ella si rimise a cucire, ma l'ago le tremava fra le dita.
Da questo sogno la scosse un forte colpo battuto al portone.
Ella mise per terra la camicia, ed andò ad aprire.
Era il portalettere, un omone rosso dai grandi baffi gialli, che la guardò da capo a piedi, quasi per assicurarsi che era lei. E quando se ne fu assicurato trasse lentamente dalla borsa una lettera con cinque grossi sigilli, sui quali si notava l'impronta d'un bottone a filigrana.
“Una raccomandata per la signora Maria Noina vedova Rosana”, egli disse, leggendo l'indirizzo. “Viene dall'Algeria.”
“Dia”, pregò Maria, porgendo la mano e pensando a Sabina che si trovava ancora laggiù.
“Firmi qui”, disse l'altro, porgendole uno scartafaccio. “Ecco qui.”
Ella dovette salire nella sua camera, firmò, guardò una firma che seguiva la sua e si domandò:
"Che cosa vorrà da me Sabina? Dei soldi, forse? Ella non sa ancora che mi sono sposata?".
Ridiscese, richiuse il portone e aprì subito la lettera. Era senza firma; ma ella riconobbe la calligrafia di Sabina. D'altronde la lettera cominciava così:
Cara Maria,
tu sai chi sono; non mi firmo per prudenza, ma tu sai che io sono una persona che ti vuol bene. Solo oggi, da una persona che arriva da Nuoro, ho saputo del tuo prossimo matrimonio; voglio pregare Iddio che la mia lettera non ti arrivi troppo tardi. Sarebbe un'orribile sventura per te, ed io scrivo questa lettera solo per salvarti da questa sventura. Senti, Maria, non sposare Pietro Benu: è lui che ha ucciso Francesco Rosana. Prima, egli e un suo complice, che è Zuanne Antine, hanno ucciso Zizzu Croca, poi col coltello di questo hanno ucciso Francesco. Il cadavere di Turulia fu nascosto fra le rocce della tua tanca dello Spirito Santo, in un nascondiglio che solo i pastori conoscono. Tu, se vorrai, potrai assicurarti ch'io dico la verità facendo ricercare i miseri avanzi di Turulia. I pastori dei dintorni, Antonio Pera, zio Andria ed altri, conoscono il segreto: essi videro i due assassini, che sono pure due ladri, perché tutte le vacche scomparse in quel tempo dagli ovili nuoresi furono rubate da loro. Così cominciò la fortuna di Pietro Benu, e solo per questo fatto, anche se non esistessero le prove del suo orribile delitto, egli non è degno di sposarti. I pastori tacquero per paura, per viltà; anch'io avevo fatto voto di tacere se tu non ti decidevi a sposare il tuo antico servo.
Prego Maria Santissima che questa lettera ti arrivi in tempo: fa quello che credi, ma sii prudente, perché Pietro sarebbe capace di ucciderti se si accorgesse che sai.

Senza avvedersene Maria attraversò il cortile e si lasciò cadere sulla seggiolina dove poco prima stava seduta. Il suo viso si fece livido, si contrasse; le sue mani e la sua testa tremarono. Per qualche tempo ella rimase così, come sopraffatta da una leggera convulsione e da completa incoscienza, poi sollevò il capo e si guardò attorno meravigliata. In quei momenti d'incoscienza la sua anima s'era come assentata da lei e aveva fatto un viaggio misterioso: era stata in un paese ignoto, dove aveva veduto cose terribili e grandi, e ritornava mutata e vedeva intorno a sé ogni cosa mutata e ne provava terrore.
Solo dopo qualche istante, pure convinta della verità terribile e come stringendola nel pugno con quella lettera che era più inesorabile d'una sentenza di morte, ella cominciò a dubitare. E nel suo smarrimento, dimenticandosi di se stessa e delle sue forze già messe alla prova, ella sentì un istintivo bisogno di protezione, di sollievo, e desiderò il ritorno di Pietro.
"S'egli venisse subito!", pensò, guardando la lettera. "Gliela farei leggere e... tutto sarebbe finito. È una vendetta di Sabina, questa. Sì, ella lo amava, un tempo, ed anche lui le voleva bene... Allora..."
In un attimo ella ricordò tutto il suo triste romanzo, cominciato come un idillio e finito in tragedia. Ricordò tutto. Rivide Pietro che attaccava il suo cappotto alla parete di cucina, dietro l'angolo della porta... Era una giornata fosca e triste... Ella gli aveva versato da bere e lo aveva guardato con diffidenza, poiché egli godeva cattiva fama, sebbene nulla giustificasse allora le brutte voci correnti sul conto di lui.
Poi i giorni erano passati, così, come passano le nuvole nell'aria, senza lasciar traccia... Che aveva ella fatto durante quel tempo? Aveva sognato: era bella e beffarda, lo ricordava, sì, ed era superba come una figlia di re.
Perché era poi caduta tanto in basso? Aveva ascoltato il suo servo, ed a poco a poco s'era abbandonata a lui come l'ultima delle donne. Egli era buono, allora; ella lo aveva creduto docile e mite come un bambino e ne aveva fatto od aveva creduto farne un suo trastullo... Ma ora ricordava le parole e le promesse di lui, in quel tempo.
"Io diventerò ricco, io sarò fortunato... per te... Farò l'impossibile... "
Ah, fin d'allora egli doveva essere un ladro o pensava di diventarlo. E lei, cieca, non vedeva; sorda, non udiva: sentiva solo il sapore dei baci di lui, e non si accorgeva che quei baci le avvelenavano la vita.
Eppure, se egli tornasse! Se egli tornasse e con uno di quei suoi baci selvaggi le facesse dimenticare quest'ora di spaventoso tormento!
"Come, io dubito di lui?", grida una voce dal profondo dell'anima
sgomentata.
E una voce più forte e più profonda risponde:
"Tu non dubiti; sei certa! La verità è nel tuo cuore".

Di secondo in secondo la lotta si faceva più aspra. Per la prima volta ella considerava le cose passate con intensità di pensiero, e le pareva che un velo cadesse dai suoi occhi. Ricordò l'inquietudine di Pietro, ogni volta che egli rientrava in casa e non la trovava pronta a sorridergli. Particolari minimi le ritornarono al pensiero: ricordò la figura dell'amico di Pietro, di quel Zuanne Antine arricchitosi anch'egli misteriosamente: e la testimonianza di lui, l'accusa contro il servo scomparso, le parve una rivelazione.
"Egli è il suo complice", pensò, "non c'è dubbio..."
Non c'è dubbio! Sì, d'un tratto le parve di non dubitare più.
Quasi timidamente spiegò ancora la lettera e la rilesse. Ogni parola la feriva come un pugnale.
Quando ebbe riletta l'ultima frase trasalì, colta da un nuovo sentimento. Ebbe paura del ritorno di Pietro. Egli era capace di un nuovo delitto per coprire gli altri.

Allora ella nascose la lettera nel seno e guardò con un vago terrore la linea scura dell'ombra che si accorciava, avvicinandosele ai piedi. L'ora passava, correva col sole; quella linea d'ombra lentamente mobile aveva qualche cosa di vivo, era un nemico che s'avanzava...
E una domanda echeggiò finalmente nell'anima sua.
"Che fare? Che fare?"
Fra poco egli sarebbe rientrato. Ella lo vedeva, come l'aveva veduto pochi momenti prima nel suo sogno amoroso: egli la chiamava, s'avvicinava, si gettava su di lei, e il suo abbraccio la soffocava... Ecco, egli aveva perduto la sua spoglia di amante; appariva nel suo vero aspetto d'omicida e di ladro...
Che fare? Che fare?
Di nuovo ella diventò incosciente. S'alzò, pensò di fuggire, di correre alla vigna per domandare protezione a suo padre; s'avanzò fino al portone, ma la stessa frase della lettera, che aveva destato il suo delirio di paura, le ritornò in mente e la calmò. "Maria, sii prudente."
Chiuse il portone con la spranga e si aggirò intorno al cortile come una belva assediata nel suo covo dal cacciatore inesorabile.
Che fare? Che fare?
I ricordi la riassalirono con violenza, sovrapponendosi, mischiandosi ai suoi terrori, alla sua angoscia, alla sua speranza, e rendendo più torbido il caos della sua mente.
Ella rivedeva la figura di Pietro, nel crepuscolo lunare, in fondo al sentiero della tanca; ricordava tutti i particolari della morte di Francesco, tutti gli avvenimenti dei suoi anni di vedovanza; i dubbi che l'avevano tormentata dopo la tragedia; il giuramento di Pietro, la sua lunga attesa, la sua evidente astuzia, la sua crescente fortuna, il desiderio di tener nascosto il loro matrimonio, la ripugnanza a sentir nominare l'ucciso, ad abitare dove Francesco aveva abitato, a dormire nel letto dove Francesco aveva dormito...
Ma, giurando, egli era parso così sincero, così offeso, che nel ricordare quella scena Maria sentiva ancora un impeto di gioia sollevarle il cuore. Allora respirava, per un attimo, come il naufrago che riesce a metter la testa fuori delle onde; ma poi ricadeva nel mare pauroso dei dubbi, nella disperazione che la affogava.
"Egli ha giurato, sulla santa croce ha giurato... ed io l'ho creduto! Perché, Signore, perché avete ritirato da me il raggio di luce che mi rischiarava l'anima? Che ho fatto io per meritarmi questo castigo?"
Ella agitava in alto le mani intrecciate, fissando disperatamente quel profondo cielo di primavera che un'ora prima rallegrava i suoi sogni di sposa felice; ma dall'alto non rispondevano al suo grido che i garriti, quasi beffardi, delle rondini in amore.

E il sole proseguiva il suo corso, e la linea dell'ombra s'avanzava sempre, fatale.
Pietro poteva tornare da un momento all'altro, anche prima di mezzogiorno.
Che fare? Che fare? Come fingere, come sfuggire al suo sguardo, al suo bacio mostruoso?
Fu picchiato al portone.
Eccolo, è lui! Per qualche istante Maria stette immobile, senza respiro; ma una voce di bambina gridò:
“Zia Luisa, aprite. Eh, che, siete tutti morti o malati?”.
Maria non aprì, ma le parole della bambina le suggerirono l'idea di fingersi ammalata per non insospettire Pietro col suo turbamento. Levò la spranga e lasciò il portone chiuso come al solito, col solo saliscendi, poi si ritirò nella sua camera. Nello scorgere il letto, bianco nella penombra della camera silenziosa, un impeto di pianto la soffocò.
Alla paura e all'istinto di difesa, che fino a quel momento avevano reso il suo dolore feroce, seguì la disperazione per il bene perduto. La sua angoscia si fece più cosciente e più profonda.
Ella si buttò ginocchioni davanti ad un quadretto della Madonna del Rosario, e agitando di nuovo le mani supplicanti, balbettò confuse preghiere.
Che voleva? Non sapeva bene. Voleva che Pietro fosse innocente, o desiderava che le potenze divine l'aiutassero a vendicarsi, a liberarsi di lui? Non sapeva, non sapeva.
La preghiera tuttavia riuscì a confortarla; si alzò, sollevata, e le parve che tutto fosse un brutto sogno.
"Ecco", pensò, palpandosi sul petto la lettera, "ora la strappo, la butto via, e tutto è finito. È una calunnia, una menzogna. Anche la finzione di chi l'ha scritta, di credermi ancora vedova, è una perfidia... Come sono stata stupida a spaventarmi!"
Di nuovo ricordò la fama di violento e di poco scrupoloso che Pietro godeva prima di entrare al loro servizio. Nulla, mai, aveva giustificato questa mala fama di lui. Calunniato: allora come adesso.
Egli invece era così buono e mite!
Ella tirò fuori la lettera, calda e come palpitante, e la guardò. E tutt'ad un tratto ripiombò nel suo terrore.
Quel pezzo di carta, quei cinque sigilli di un rosso cupo, color sangue coagulato, le davano un'impressione misteriosa, erano come un segno mnemonico che le ricordava orrende cose. Ella rivide il sangue di Francesco coagulato sull'erba e sulle pietre del sentiero; rivide la mano rivolta all'insù, implorante pietà...
La paura e l'angoscia la riafferrarono tutta.
“I morti risorgono”, disse a voce alta, nascondendo la lettera in modo che Pietro non potesse vederla. “Francesco è risorto: è lui che ha inspirato questa lettera; è lui, l'agnello sgozzato...”
Lagrime di tenerezza le solcarono il viso al ricordo di Francesco. E quel ricordo la turbò come forse mai; e per la prima volta, in quell'ora di verità spaventosa, ella pensò a Francesco con giustizia e con affetto.
I versetti delle prefiche, le parole che ella aveva un tempo ripetuto come una lezione, le tornarono in mente con insistenza e le parvero nuove, sgorgate dal profondo dell'anima sua.
"Egli era buono come un agnello e come tale lo hanno sgozzato..."
Come era tenero, casto, affettuoso!
L'anima gli traspirava dagli occhi: vivendo con lui si diventava buoni e leali. Pietro invece bruciava dove toccava, portando con sé e spandendo intorno a sé la maledizione del suo destino.
Se Francesco fosse vissuto ella lo avrebbe amato di vero amore, - ella pensava, - di quell'amore comandato da Dio, casto e profondo, eterno come il tempo, sempre eguale e sempre dolce, e non dell'amore carnale che l'aveva bassamente unita ad un servo...
"Egli, il servo vile, egli mi ha perduto, mi ha assassinato...", ella gemette, gettandosi sul letto e affondando disperatamente il viso fra i guanciali. "Ha ragione mia madre; egli mi ha stregato. Cosa son diventata io; io, Maria Noina, io, Maria Rosana! Son diventata una donna perduta, la serva di un servo; ho peccato contro mia madre, contro la memoria del morto, contro tutta la mia razza; ho raccolto nel mio letto un servo, un'immondezza vile. Sono stata castigata per questo? Oh, no, Signore, il castigo sarebbe troppo orribile... Che ho fatto io?..."
Dalle tenebrose lontananze della sua coscienza, una voce accusatrice cominciava a salire: ma ella si difendeva disperatamente e riusciva a farla tacere.
Pensava che Pietro aveva seguita la via del male per lei sola, ma che colpa ne aveva lei? Era forse stata la prima a guardarlo?... Anche se ella non avesse sposato Francesco, Pietro sarebbe diventato egualmente un ladro e all'occasione un omicida, pur di raggiungere il suo scopo: arricchirsi, sposarla. Ah, sì, ella ricordava bene le promesse che egli le faceva, nei primi tempi del loro amore: "Io diventerò ricco, io cercherò la fortuna... farò di tutto... per te!..."
E lo aveva fatto! Egli era nato col suo destino sulle spalle. Misera lei che era caduta fra i suoi artigli come il passero fra gli artigli del nibbio!

L'ora passava. Ella piangeva e ricordava, e mentre in fondo all'anima sperava ancora, i peggiori istinti di lei insorgevano e la dominavano.
Così le parve di ritornare a poco a poco padrona di sé, della sua volontà, della sua astuzia.
Sì, ora le sembrava di veder Pietro nel suo vero aspetto, come tante volte lo aveva confusamente intraveduto.
Ella era ancora la padrona: egli il servo, ma il servo ladro, grassatore, nemico; era il servo che rubava al padrone, che lo uccideva per usurpargli il posto. Anche in amore era un violento, un predatore; ed ella ora lo sentiva, e tutto il suo rancore d'altri tempi, il suo profondo odio di razza si sviluppava in lei come un male nascosto che finalmente aveva il suo sfogo.
"Che fare, ora, che fare?"
Ed a misura che il male aumentava, la domanda risonava più forte.
L'idea di perdonare neppure le passò per la mente. Per lei non v'era che la speranza dell'innocenza di Pietro: se egli era colpevole bisognava colpirlo.
Colpirlo? Ma come? Ma come, anzi tutto, riuscire ad assicurarsi del suo delitto?
Da sola, per quanto abile e astuta, ella non si sentiva capace di indagare, cercare, scoprire. Bisognava o tacere o cercare un aiuto potente e colpire Pietro a tradimento, prima che egli potesse difendersi e sottrarsi al castigo.
Ma a chi rivolgersi? A chi domandare consiglio? A sua madre? Per il decoro della famiglia, nonostante il rancore nutrito contro Pietro, zia Luisa sarebbe stata capace di consigliarle il silenzio. A suo padre? Egli era uomo, ma vuoto e leggero: egli forse avrebbe riso di lei, rimproverandole di non aver sposato Pietro prima di Francesco.
A chi dunque rivolgersi? Ella non aveva amici, non parenti di cui fidarsi.
Ma aveva molti denari. Aveva un cofanetto d'asfodelo colmo di monete d'oro e d'argento...

Sì, col denaro si ottiene tutto. Col denaro ella poteva far parlare anche le pietre della sua tanca, poteva scavare, trarre la verità dalla sua profonda sepoltura. Col denaro si arriva a tutto. Ma poi?
Che fare, poi? Che fare? Che fare?
La parola che del resto le fremeva fin dal primo momento in fondo all'anima, minacciosa e cupa come un tuono lontano, le salì finalmente alle labbra amare di lagrime:
"Andrò dal giudice".

Il giudice era la colonna, l'unica colonna del suo mondo crollato, contro la quale ella potesse appoggiarsi.
Era il padre, l'amico, il difensore e il giustiziere; l'unico che non l'avrebbe tradita. Egli solo, con la sua potenza formidabile, poteva far parlare i morti, frugare tra le rocce, squarciare il mistero; egli solo poteva costringere i vivi e i morti a pronunziare la verità e punire i colpevoli o salvare gl'innocenti.
In un momento Maria fece il suo piano.
"Andrò segretamente dal giudice. Dopo tutto egli è un uomo e capirà la mia dolorosa posizione. Egli farà subito arrestare Pietro, e non dirà certo chi ha fatto la denunzia. Se Pietro è colpevole sarà condannato. E di me che accadrà?... E mia madre? E mio padre? Noi saremo disonorati per tutta la vita; la gente si rallegrerà della nostra sventura. Ogni persona più vile potrà buttare su noi la sua pietra."

D'un tratto fu riassalita da una cupa incertezza. Si gettò dal letto e riprese ad aggirarsi disperatamente per la camera, come aveva fatto nel cortile. Che fare? Che fare? Era mai possibile che lei, lei stessa, andasse dal giudice ed accusasse Pietro, l'uomo che fino a poche ore prima ella aveva amato ciecamente?
Ogni oggetto, in quella camera bianca e tranquilla, piena di madonnine e di santi rustici sorridenti dalle pareti, le ricordava quegli otto giorni di ebbrezza: la sua carne ne fremeva ancora. Come fare? Come rinunziare alla gioia afferrata avidamente come un frutto da tempo agognato?
Ella si gettò ancora per terra, davanti alla Madonnina rossa e gialla che giocherellava col suo rosario di perle, e implorò ciò che in fondo al cuore sentiva impossibile.
"Fate che risulti la sua innocenza. Pietà di me, Maria Santissima."
E ripeté a voce alta:
“È tutto un sogno. Non è vero niente: è una calunnia. Perché ho creduto? Sono pazza?”.
Si mise una mano sul petto e sentì la lettera, i cui cinque sigilli pareva le marchiassero la carne: "... sii prudente, perché Pietro sarebbe capace di ucciderti se si accorgesse che sai...".
Si alzò, ricominciò a vagare qua e là intorno alla camera, si accostò allo specchio e quasi non riconobbe il suo viso alterato e verdognolo. Sembrava una maschera.
L'ombra del dubbio la circondò ancora: e la figura del giudice cambiò aspetto, da amica diventò nemica e minacciosa.
Il giudice è come lo scavatore d'un pozzo, che non riposa finché non ha trovato la sorgente.
E per quanto ella si difendesse con se stessa, sapeva dov'era e quale era la sorgente del suo male.
Troppe cose contro di lei potevano risultare, se il giudice investigava bene. Gli uomini della giustizia potevano condannare Pietro; ma la gente avrebbe condannato lei. La gente! No, la gente doveva ignorare il dramma come aveva ignorato l'idillio: per la gente ella doveva sacrificarsi ancora, per tutta la vita...

Sembrandole di nuovo che Pietro attraversasse il cortile si gettò ancora sul letto, ripresa da un terrore infantile.
Le pareva di esser ridiventata bambina e di trovarsi sola nel letto, al buio, nel mistero pauroso d'una notte invernale, con la mente ancora piena di storie terribili udite accanto al focolare. Per lunghi anni, nella sua infanzia, l'essere che più le aveva destato terrore era stato il "ladrone". Ella se lo figurava alto come una quercia, con due grandi occhi di gatto e due mani simili ad artigli di nibbio.
Egli viveva nelle grotte della montagna, dove nascondeva i suoi tesori; di là scendeva, la notte, armato di sette coltelli, coi piedi enormi fasciati per non destar rumore...
Passava tacito e lieve, rompeva le porte... penetrava nelle case dei ricchi...

Ma Pietro non viene, ed ella si calma di nuovo, pronta e vigile, decisa a combattere da sola il nemico. Ella è nata per combattere, per lottare, per ferire a tradimento. Ella ha sempre tradito. Ha tradito Pietro, tradito i parenti, tradito Sabina. Anche Francesco ha tradito, non confessandogli la verità. Forse egli non sarebbe morto se ella avesse parlato. Ma il mondo tutto è pieno di tradimenti e d'insidie: l'uomo deve lottare con l'uomo per avere la sua parte di sole e di terra! Che colpa ne ha lei se ha dovuto lottare e se ancora deve lottare per non essere vinta e presa al laccio nell'agguato terribile della vita?
Ecco, l'essere primordiale risorge in lei; non più per amare, come nei giorni passati, ma per lottare e difendersi. Ed a misura che l'ora passa e il pericolo si avvicina, ella si munisce di tutte le sue armi, che sono i suoi istinti femminili, dominati però da una volontà implacabile. Ella torna ad essere la donna che ha veduto intorno a sé i fantasmi più misteriosi, le ombre spaventevoli della morte, del delitto, del dolore; ed è passata come una figura leggendaria attraverso il bosco nero, nella notte tragica, ed è andata incontro al suo triste destino, pronta a sfidarlo.

Un passo nel cortile.
“Maria, dove sei?”
Eccolo! Egli saliva, egli veniva, lieve e sicuro come una tigre: eccolo, egli si avanzava, pronto all'assalto, egli il "ladrone".
Nel vederla a letto Pietro si spaventò. Le si curvò sopra, le prese una mano.
“Maria! Che hai? Che c'è? Perché sei a letto?”
La baciò, la guardò. I suoi occhi inquieti parevano gli occhi di un bambino spaventato.
Ella lo guardò, lo respinse.
“Mi sento male. Dolori... dolori di testa fortissimi: ora sto meglio... Lasciami.”
Egli si guardò intorno inquieto, poi fissò di nuovo, su lei, gli occhi chiari, pieni di un misterioso spavento.
“Dolori di testa? Che sarà? E non hai chiamato nessuno. Non hai fatto niente? Neppure un po' di aceto ti sei messa? Sei come una bambina! Ora vado... prendo un po' d'aceto...”
Uscì: ella non disse nulla, non si mosse.
"Egli ha paura", pensò. "Come mi ha guardato! Ha paura di me!"
Egli ritornò, con l'aceto. Cercò un fazzoletto, lo inzuppò, e lo mise sulla fronte di Maria. Ella lo lasciò fare. Curvo, ansioso, egli non cessava di guardarla, e parlava, parlava; ma parlava troppo, ma si affannava troppo per un così piccolo male.
“Ti senti meglio, ora? Un poco, sì, vero? Ma cosa è stato? Ma cosa sarà? È da molto? Il fuoco è spento... Chi è venuto, stamattina? Ti senti meglio?”
“Sì, meglio. Va, lasciami. Va e cercati da mangiare. Va, lasciami, ora.”
Ma egli insisteva: voleva sapere chi era venuto, quella mattina, e se il male era cominciato da molto tempo, e che cosa poteva averlo causato.
D'un tratto, i suoi occhi sempre più inquieti s'illuminarono.
“Che tu sii incinta, Maria?”
Ella chiuse gli occhi, scosse la testa: e non pronunziò parola, ma la domanda di Pietro, che ella ancora non s'era fatta, le ricolmò nuovamente l'anima di dolore furibondo.
Un figlio di lui! Bel rampollo doveva nascere! Eppure!...
Riaprì gli occhi, li fissò sul volto dell'uomo. E le parve che, in un attimo, il viso di lui si fosse trasformato: s'era fatto docile, infantile, con due occhi non più turbati, ma teneri, supplichevoli. Quando ella lo aveva veduto così? Quando, quando? Non ricordava: forse in un giorno lontano, nel tempo del loro primo amore; forse quel giorno, nella vigna, quando egli avrebbe potuto farle del male, e invece l'aveva pregata di andarsene: forse la prima sera, quando egli l'aveva abbracciata e le aveva detto: non ti farò del male!
E invece, quanto gliene aveva fatto. Quanto gliene faceva e gliene farebbe ancora! La sola sua presenza, oramai, le recava un mortale dolore. Ella non aveva più paura di lui, e anzi sentiva che egli medesimo, con la sua cieca passione, era per lei il miglior protettore. Egli l'avrebbe difesa anche contro se stesso, egli che per arrivare a lei aveva percorso una via piena di pericoli e di orrori.
Curvo su di lei Pietro le parlava con dolcezza, insistendo per sapere se ella si sentiva meglio, proponendole di farsi visitare dal medico, di chiamare qualche vicina che le preparasse un po' di caffè.
Ella rispondeva sempre no, con rabbia mal repressa. Non potersi liberare di lui! Averlo sempre così vicino, attento, investigatore! Restare con lui, sempre, come la bambina della favola nella tana del "ladrone".
Ella sentiva che questo era il suo maggior dolore: restare con lui! averlo sempre vicino, sempre con sé, entro di sé, come un male fisico, come un cancro inguaribile! S'alzò a sedere sul letto, si strinse con le mani la fronte coperta dal fazzoletto bagnato: l'aceto le scorse sulle guance, le bagnò le labbra, mescolato a lagrime d'ira affannosa. E le parve che qualcuno le desse da bere il fiele e l'aceto, come a Gesù.
Pietro s'era scostato e la guardava sempre: ma il suo sguardo non era più desolato e inquieto. Anche lui capiva, o credeva di capire. Il male di Maria era troppo esagerato.
“Piangi?”, le disse, riavvicinandosele. “È così forte il dolore? E non vuoi che chiami il medico!... Io vado, mando una vicina. Puoi star sola un momento? Maria, rispondi!”
Col busto ripiegato, le mani intorno alla fronte, gli occhi fissi sul pavimento, ella pareva intenta solo al suo terribile male. Pietro non osava più toccarla.
“Vado?”, ripeté.
Ella disse a denti stretti:
“Va pure! Va tu; non chiamare le vicine”.
Egli uscì. Ella pensò:
"Egli ha paura: egli ha capito: egli non chiamerà il medico: nessun medico della terra può guarire il nostro male. Dio mio, Dio mio, che faremo noi?".

"Che faremo noi?" Per la prima volta, dopo quelle due lunghe ore di incubo, ella associò al suo il dolore di Pietro. La presenza di lui, per quanto odiosa ed insopportabile, le aveva ricordato molte cose. Lo sguardo di lui tenero e selvaggio, sguardo da schivo e da condannato, le aveva spiegato molte cose.
"Che faremo noi?"
Ed ella previde lucidamente ciò che doveva avvenire. Ella avrebbe taciuto, ella avrebbe sperato ancora; ma come un giorno era riuscita ad arrivare fino al cadavere di Francesco, un altro giorno sarebbe arrivata a scoprire gli avanzi dell'altra vittima ed a farli parlare. Sì, anche i morti parlano. Ed anche i vivi, talvolta. Col denaro, e con la volontà si arriva a tutto. Il denaro, ch'ella aveva amato tanto, amato più di se stessa, le avrebbe dato almeno il conforto di arrivare fin dove ella voleva: fino alla verità.
"Solo Pietro tacerà", ella pensava, morsicando il fazzoletto imbevuto di aceto. "Egli fingerà e tacerà sempre. I morti, i vivi, le pietre, gli alberi, ogni cosa potrà parlare, ma non lui! No, no, egli non parlerà..."
E quando anche lui avesse parlato, ella non l'avrebbe certo accusato al giudice. Come nessun medico poteva guarire il loro male, nessun giudice poteva condannarli ad una pena maggiore di quella a cui erano condannati.
Ella ricordava appunto di aver veduto, una volta, una fila di condannati diretti ad una colonia penale. Procedevano a due a due, incatenati assieme. Ella e Pietro erano simili a quei disgraziati; legati da una stessa catena, diretti allo stesso luogo di castigo.
Da anni ed anni essi procedevano assieme per una via grigia, vigilata dal fantasma del male: ed erano giunti ad un crocicchio, adesso, intorno al quale s'aprivano altre strade, tutte eguali, tortuose e buie.
Tanto valeva prenderne l'una o l'altra: tutte conducevano allo stesso luogo di espiazione.

________________

(1) Le famiglie distinte del popolo.

(2) Zucca. Rifiuto di domanda di matrimonio.

(3) Il luogo dove si era.

(4) “Uva passa comprate e fichi? Sapa comprate?”

(5) Gonna di orbace orlata di nastro cremisino.

(6) Bustino.

(7) Coppia di buoi.

(8) Cavalle.

(9) Cavalla.

(10) “Barbarina di Olzai / Dove ci metteranno / Non ci vedremo mai.”

(11) “Questa ragazza.”

(12) Laudi sacre in onore della Madonna.

(13) “Le rocce stillano perle, / Le macchie grazie e doni; / Con mille voci ed accenti / T'acclamano i vaghi uccelli; / Le rilucenti stelle / Scendono per incoronarti.”

(14) Coperti di zucchero.

(15) L'entrata, permesso di visitare la fidanzata.

(16) Saluto scherzoso.

(17) Corba.

(18) Catena d'oro con orologio.

(19) Voce per allontanare le galline.

(20) Tesoro.

(21) Comparia.

(22) Pascoli.

(23) Colletto per camicia.

(24) Mansueta.

(25) Nibbio.

(26) Sopravveste di pelle lanosa.

(27) Burrone.

(28) “Gesù.”

(29) Canti funebri improvvisati.

(30) L'albero della cuccagna.

(31) La fame.

(32) Lignaggio.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Dieci romanzi - Grazia Deledda", a cura di Anna Dolfi, collana "I Mammut, 31", Grandi Tascabili Economici Newton, Newton Compton Editori s.r.l., Roma, 1994







Grazia Deledda - Opera Omnia  -  a cura de ilVignettificio

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